La ricerca sui nostri cugini Neanderthal prosegue e possiamo seguirla coi libri di paleontologi e antropologi
Uno sparuto gruppo di uomini e donne rozzamente coperte di pelli animali stracciate, gli sguardi vacui e l’espressione misera, che avanzano sulle lande ghiacciate di un paesaggio desolato: è questa la raffigurazione degli uomini di Neanderthal che tutti ci portiamo dietro dai libri di scuola. Nell’immaginario collettivo i Neanderthal sono creature primitive, disperati abitanti di un ambiente ostile, un esperimento dell’evoluzione fallito che i Sapiens hanno misericordiosamente portato all’estinzione. Ma basta approfondire la ricerca, come è stato fatto nei decenni scorsi, per rendersi conto che il loro mondo era ben più ricco: prepariamoci a sovvertire le nostre aspettative sui Neanderthal con alcuni libri recenti.
L’uomo nuovo, o la nuova idea di uomo
La storia dei Neanderthal inizia circa 400.000 anni fa, ma anche nel 1856, quando in una cava nei pressi di Dusseldorf viene ritrovato un cranio fossile di dubbia origine. Nonostante le resistenze e le ipotesi alternative girate per alcuni anni, quel reperto viene attribuito a una creatura umanoide che però non è del tutto umana, non nel senso tassonomico del termine. Alla creatura viene attributo il nome derivante dal luogo della scoperta, la valle di Neander, dal nome di un musicista tedesco del XVII Secolo, Joachim Neander, che aveva latinizzato il proprio nome originale Neumann mantenendo il significato: neo ander, uomo nuovo. Ma naturalmente è solo una coincidenza.
Parlare dell’evoluzione dell’uomo non è mai facile. Siamo sempre bravi ad applicare meccanismi come la seleziona naturale alle mosche della frutta, o evidenziare le storture della selezione sessuale nei panda e nei pavoni, ma quando è necessario girare la lente su noi stessi il problema si fa delicato. Il paradigma antropocentrico che ha condizionato il pensiero umano fin dall’inizio della storia (ma probabilmente anche prima), e che ancora oggi sopravvive a più livelli della società, ci porta a pensare che noi siamo quelli “speciali”. Anche senza un Dio che ci crei a sua immagine, ci viene naturale convincerci che il nostro modo di vedere il mondo sia il migliore, e che se attualmente nel mondo la nostra specie è quella dominante, così influente da alterare gli equilibri del pianeta, allora siamo davvero i migliori. Forse non lo siamo per destino, ma senza dubbio lo abbiamo dimostrato alla prova sul campo.
Quindi se dobbiamo parlare dei Neanderthal, di questi “uomini nuovi”, dobbiamo prima cambiare la nostra idea di “uomo”. È stata soprattutto questa la rivoluzione che la loro scoperta ha introdotto, proprio nello stesso periodo in cui si iniziava a parlare di teoria dell’evoluzione (ma naturalmente è solo una coincidenza). L’idea che gli umani non sono stati gli unici umani su questo pianeta, e che per un certo tempo abbiamo convissuto. La nomenclatura Homo non è più un club privato riservato a noi e ai nostri antenati, ma ci sono anche altre famiglie, dai Neanderthal ai Denisova e a decine di altri ibridi e forme non ancora identificate. Leggere un libro che ci racconta chi erano i Neanderthal serve anche a capire meglio chi siamo noi stessi.
Vi presento i Neanderthal
È passato molto tempo da quel 1856 in cui venne ritrovato il primo resto di un Neanderthal, eppure ancora oggi persiste in buona parte quella raffigurazione di creature sole e disperate a cui ci hanno abituati i libri di storia in quelle tre-quattro pagine dedicate alla preistoria. Per aiutarci a correggere questo immaginario fermo al darwinismo sociale, un buon punto di partenza è Neanderthal, il libro dell’archeologa e divulgatrice inglese Rebecca Wragg Sykes, da poco tradotto in Italia da Bollati Boringhieri. Il sottotitolo del volume è Vita, arte, amore e morte, e rende bene l’idea di come l’autrice intenda affrontare l’argomento, trattando i Neanderthal nel suo libro non come fossili di creature da ricostruire, ma come culture da riscoprire.
Una delle premesse che Sykes antepone al suo discorso con il lettore è considerare l’ampiezza spaziale e temporale dell’era dei Neanderthal: più di trecentocinquantamila anni di storia in un’area che va dal Portogallo alla Siberia. È difficile quindi riassumere questa vastità in un elenco di specifiche che ci permettano di stilare una checklist del perfetto Neanderthal. L’identificazione infatti avviene principalmente per via anatomica e, in epoca più recente, con le analisi del DNA ricavabili sia dalle ossa che dagli utensili. Ma all’interno dello stesso DNA si ritrovano tecnologie, abitudini, ed elementi di tradizioni molto differenti tra loro. Tutto fa supporre che tra le varie comunità di Neanderthal si siano sviluppate culture diverse come quelle che possiamo trovare oggi tra i Sapiens: sarebbe come ricercare nei fossili la differenza tra gli spagnoli e i coreani.
Sykes dedica ogni capitolo del suo libro a descrivere i Neanderthal nei limiti di quello che i reperti dimostrano, tuttavia non manca di notare alcune contraddizioni nel modo in cui i resti sono interpretati. Per esempio, c’è ancora un certo dibattito sulla teoria che i Neanderthal praticassero un qualche tipo di sepoltura per i loro morti, nonostante siano stati trovati alcuni corpi adagiati in posizioni lontane dai rifugi e spesso in condizioni che fanno pensare a una deposizione piuttosto che a una morte accidentale e solitaria. Ritrovamenti del genere, nel caso di nostri antenati dei Sapiens (per i quali i corredi funerari sono ampiamente dimostrati) avrebbero immediatamente portato a pensare a sepolture, mentre per i Neanderthal persiste una certa resistenza a volergli riconoscere la dignità di creature pensanti, emotive, forse anche spirituali. Quasi avessimo paura di renderle troppo simili a noi.
Neanderthal di ieri e di oggi
Questo approccio cauto al problema dei Neanderthal ovviamente è in linea con lo scetticismo di base su cui si fonda la ricerca scientifica, ed è quindi da rispettare. Nel suo libro Sykes parla dei Neanderthal con estremo coinvolgimento, e se pure si attiene ai dati scientifici, il testo è comunque ricco di suggestioni che stimolano la risposta emotiva del lettore, grazie soprattutto ai brevi inserti narrativi in apertura a ogni capitolo. I Neanderthal sono in parte romanticizzati, simbolo di un passato remoto da cui ancora possiamo imparare qualcosa, una strada alternativa da cui ci siamo separati ma che forse non è così lontana.
Una trattazione più asciutta è quella di Giorgio Manzi, antropologo della Sapienza di Roma che per Il Mulino ha pubblicato L’ultimo Neanderthal racconta. Manzi propone una panoramica più ampia e distaccata di quello che abbiamo ottenuto in centosessant’anni di ricerca sui Neanderthal, partendo molto più indietro, dalla storia evolutiva dell’uomo per come siamo arrivati a ricostruirla fino a oggi. Quello di Manzi è un testo più entry-level, che fornisce nozioni di contorno più vaste di biologia evolutiva, anatomia, paleontologia, geologia, tafonomia, che sono tutte discipline essenziali per comprendere oggi quello che è accaduto tra quattrocentomila e quarantamila anni fa.
La classica domanda “che fine hanno fatto i Neanderthal” è affrontata in entrambi i libri, e si arriva alla stessa risposta ma con sfumature diverse. Il fatto che i Neanderthal si siano più volte incrociati con i Sapiens nel corso della storia ci può portare a dire che siano vivi ancora oggi, in un certo senso, dentro di noi. Ma non ci sono abbastanza dati per affermare con sicurezza se fossero una specie che si stava già avviando all’estinzione, se siano stati “assorbiti” dai Sapiens o addirittura sterminati. Ma quello su cui tutti gli specialisti concordano è che non ha senso cercare risposta in quelle notizie sensazionalistiche del tipo “scoperta la causa dell’estinzione dei Neanderthal”, che si parli di epidemie, Campi Flegrei o fine dei mammuth da cacciare.
Questo interesse per i Neanderthal come figura pop è un aspetto su cui sia Sykes che Manzi si soffermano nei loro libri. I Neanderthal non sono solo un oggetto di ricerca, ma sono diventati nel tempo anche icone contemporanee, grazie al lavoro non solo di paleontologi e archeologi ma anche di paleoartisti e scrittori. Tra le opere che ritraggono i Neanderthal tra i protagonisti troviamo libri come La guerra del fuoco di J.H. Rosny (poi adattato nel film Quest for fire), Uomini nudi di William Golding e la serie dei Figli della Terra di Jane Auel. Nonostante in questi casi si ceda chiaramente a romanzare e romanticizzare le vicende, in particolare quella dell’incontro tra Sapiens e Neanderthal, nell’evoluzione di questo tipo di opere, così come nelle illustrazioni e ricostruzioni dei paleoartisti, possiamo ritrovare come cambia la nostra percezione del passato.
I Neanderithaliani
Il capitolo finale di L’ultimo Neanderthal racconta è dedicato ai ritrovamenti di Neanderthal in Italia, che sono sorprendentemente numerosi. Proprio in contrasto con quell’immagine stereotipata del primitivo nella neve, dobbiamo infatti considerare che i Neanderthal hanno abitato pressoché tutte le coste del Mediterraneo, e hanno attraverso anche cicli geologici di clima temperato. Altro che cacciare le renne sui laghi ghiacciati: alcuni di loro se ne stavano sugli scogli del Tirreno a sbafarsi di cozze e granchi.
La storia dei ritrovamenti dei Neanderthal in Italia affrontata nel libro è ricca di aneddoti e circostanze fortuite, così come è traviata la storia della conservazione di questi reperti, spesso sminuiti o del tutto ignorati. Tuttavia è affascinante scoprire come tutto il centro-sud italiano sia disseminato di tracce di Neanderthal: dagli Appennini al Circeo, fino alle grotte di Altamura dove si trova uno scheletro ricoperto di stalagmiti, anche qui abbiamo testimonianze dirette di chi ha occupato queste terre prima di noi, e forse anche insieme.