Quando per divertirsi bastavano una light gun e dei bersagli da colpire su schermo
Dopo aver esordito con il primo appuntamento sui picchiaduro a scorrimento, Generi dimenticati da Dio prosegue il suo percorso nella riscoperta di filosofie ludiche oggi non più particolarmente in voga o ibridate ormai in altro. Quest’oggi prendiamo in esame i vecchi light gun shooter. Ve li ricordate? Bene, riviviamo insieme la loro storia e analizziamo i motivi che hanno portato il genere lentamente al declino.
Le origini dei light gun shooter
Era l’ormai lontanissimo 1968 quando SEGA rilasciò Duck Hunt (da non confondere con l’omonimo titolo Nintendo uscito nel 1984, il quale ha comunque parecchie analogie con il prodotto della vecchia grande rivale), il primissimo esempio di light gun shooter. Tuttavia non si tratta di un vero gioco elettronico (per quello bisogna aspettare Nolan Bushnell e Atari), in quanto nello specifico è in realtà elettromeccanico. Eppure, grazie alla sua realizzazione tecnica che lo avvicinava di moltissimo ai videogiochi per come li intendiamo oggi, risulta a conti fatti un antesignano non solo dei light gun shooter, ma anche dei sistemi elettronici arrivati in seguito. Proprio come nel genere in questione, armati di pistola leggera bisogna colpire dei bersagli, in questo caso anatre, con dieci colpi a disposizione.
Nel 1974 la grande N decide però di non starsene con le mani in mano e produce un suo light gun shooter: Wild Gunman, creato dal leggendario e compianto Gunpei Yokoi, una delle menti più brillanti della storia di questo medium. Trattasi però della versione elettromeccanica del gioco che poi spopolerà in tutto il mondo nel 1984 insieme a grandi classici come Duck Hunt (Nintendo) e Hogan’s Alley. Sì, Wild Gunman è quello che avete pure visto e magari conosciuto nella trilogia di Back to the Future (Ritorno al Futuro), il preferito di Marty McFly. Il gioco elettromeccanico degli anni ’70 consisteva nel colpire dei bersagli su schermo. Questi non erano altro che degli attori veri che replicavano le movenze di un pistolero: se colpiti, partiva la scenetta dove finivano a terra; in caso contrario sparavano contro di voi ed era ovviamente game over.
Uno dei primi videogiochi (inteso elettronico e non elettromeccanico) del genere è però Crossbow, arcade sviluppato e pubblicato da Exidy nel 1983, autori di Destruction Derby (nel 1975, ma rilascerà poi i diritti del nome a terzi), Death Race, Circus (solo publisher), Star Fire, Spectar e Pepper II, giusto per citarne alcuni. In Crossbow saremo chiamati in causa a sparare animali selvatici per difendere dei personaggi che dalla parte sinistra devono arrivare a quella destra dello schermo. Più superstiti salviamo, maggiori saranno i punti. Un concept molto semplice, ma siamo appunto solo agli inizi.
Negli anni a seguire i light gun shooter prenderanno poi sempre più forma, evolvendosi parecchio, pur mantenendo il core del gameplay che consiste nello sparare bersagli/nemici sullo schermo; elemento che li ha resi immortali, siccome ritrovarli invecchiati è difficile vista la loro immediatezza, ma risultano ormai anche fuori dal tempo, non più capaci di creare appeal. Gli interessi del pubblico sono cambiati col passar degli anni; rimane probabilmente uno di quei generi che ha subito maggiormente l’evoluzione del medium.
Il boom del genere
Negli anni ’80 i light gun shooter hanno sicuramente trovato terreno fertile e di fatto non sono mancate molteplici produzioni. Oltre i titoli succitati ne sono stati rilasciati molti altri come ad esempio Chiller, realizzato proprio da Exidy (1986), Gumshoe (non il detective di Ace Attorney, bensì un gioco Nintendo di Yoshio Sakamoto che in seguito lavorerà a giochini tipo Metroid; niente di che), Operation Thunderbolt di Taito (1988), Freedom Force di Sunsoft (1988) e tanti altri. È però nel decennio successivo che questa tipologia di giochi prenderà davvero piede, tant’è che arriveranno titoli di gran calibro e che hanno fatto la storia del genere.
Impossibile dimenticare grandi classici come Virtua Cop e The House of the Dead di SEGA o Time Crisis di Namco. Titoli, questi, che hanno fatto la storia dei light gun shooter e che chiunque, volente o nolente, associa ai cosiddetti “videogiochi con la pistola”. Opere che hanno alzato non di poco l’asticella qualitativa del genere e dalle quali tutti, chi più chi meno, hanno preso spunto. Era inevitabile vista la struttura dei tre giochi appena menzionati: hanno dato vita a vere e proprie saghe. Come non venir travolti dall’estetica di The House of the Dead, dal suo tratto macabro e rigorosamente splatter e da una colonna sonora potentissima e adrenalinica? Stesso dicasi per l’azione e la frenesia più totale di Time Crisis, il cui secondo capitolo ad oggi risulta ancora uno dei massimi esponenti del genere. Non da meno Virtua Cop ed il suo peculiare sistema di puntamento.
Produzioni comunque interessanti sono uscite in quel periodo, non per altro ribadivo il fatto che gli anni ’90 sono stati la consacrazione del genere. Persino Capcom provò a dire la sua con Resident Evil: Survivor (conosciuto in madre patria come Biohazard: Gun Survivor) e in effetti a valutarlo oggi il risultato non fu nemmeno tanto male. Uno di quei giochi criticato semplicemente perché di moda, siccome “che schifo, un Resident Evil in prima persona” (è successo forse un po’ anche col settimo capitolo, ma qui si anticipavano i tempi, cari lettori). Ciononostante si trattava di un light gun shooter unito ad un’esperienza survival horror più tradizionale. Pure The House of the Dead è un horror, ma il personaggio si muove in automatico come la stragrande maggioranza dei titoli appartenenti a questo genere. In Gun Survivor è il giocatore che controlla i movimenti, oltre al fatto che si tratta di un Resident Evil a tutti gli effetti, solo più breve e da tutt’altra prospettiva. Sicuramente da rispolverare.
Altri sono stati i titoli di spessore usciti sia su console che in sala giochi. Tra questi ritroviamo senza dubbio Silent Scope della cara vecchia Konami (1999), il cui cabinato replicava proprio l’esperienza di un fucile di precisione. Non da meno CarnEvil di Midway (1998) che si rifà molto alle atmosfere di The House of the Dead per il setting orrorifico, inserendo però anche una forte dose di black humor e personaggi più esilaranti. Mi sembra giusto segnalare anche Battle Clash realizzato da Nintendo e Intelligent Systems sotto la guida di Gunpei Yokoi (1992) e Maximum Force, sempre di Midway (1997); sicuramente invecchiato dal punto di vista grafico, ma per l’epoca poteva essere uno dei suoi punti forza (anche perché è forse il più debole tra tutti quelli citati). Uno dei più interessanti rimane invece Die Hard Trilogy 2: Viva Las Vegas di N-Space, il quale fonde tre generi in un unico titolo, proponendo fasi da gioco con pistola ottica, altre come sparatutto 3D classico e persino sezioni di guida. Quanto fatto di buono nel prequel, ma migliorato a tutto tondo e con un taglio decisamente più cinematografico (in rapporto ai tempi).
Anni 2000 e il viale del tramonto dei light gun shooter
Durante la prima metà del decennio scorso, i light gun shooter si difendevano ancora bene. Le esperienze arcade erano comunque piuttosto ricercate, pertanto il genere in questione trovava il suo spazio nel mercato. Arrivava Time Crisis II su PlayStation 2 (a due anni di distanza dalla release del 1998) e la saga è andata avanti sino al quinto capitolo, uscito quattro anni fa in esclusiva arcade (uno dei casi isolati del genere). Uscivano i nuovi The House of the Dead, Police 911, Gun Survivor 3: Dino Crisis, Death Crimson OX e quant’altro. Tolti i soliti noti la qualità cominciava però a calare un pochino; si cercava infatti più di riproporre dei cloni anziché esperienze originali o ibridate come nel caso di alcune opere citate in precedenza.
Con l’avvento dei nuovi schermi non compatibili con le light gun sembrava ormai la fine per il genere su console. Diventava infatti sempre più difficile che tutti non gettassero via le loro vecchie televisioni (come suggerisce una nota canzone dei Red Hot Chili Peppers) a favore di quelle nuove; poteva quindi rivelarsi un rischio. C’è stata però la piccola parentesi Wii con i suoi sensori di movimento a dare un barlume di luce ai light gun shooter. Sulla console Nintendo sono infatti usciti svariati giochi proponenti la formula ludica tanto cara a chi era cresciuto in sala giochi con pistole, fucili e ulteriori armi ottiche. Vennero rilasciate persino delle periferiche apposite come ad esempio Wii Zapper che trasformava Remote e Nunchuck in una sorta di mitra.
Tra i titoli giocabili con la Zapper ritroviamo i due Resident Evil, The Umbrella Chronicles e The Darkside Chronicles, ma soprattutto Link’s Crossbow Training, spin-off dell’acclamata serie Zelda, il presunto system seller per vendere l’accessorio (rilasciato infatti in bundle con il gioco). Al di là delle inutili prese di posizione, è in realtà un titolo molto carino e arcade, accolto forse in maniera sbagliata sia dal pubblico che dalla critica. Il Wii si sposava comunque bene per questo genere di giochi e non era un problema nemmeno per tutti coloro passati ormai agli schermi piatti. Diversi publisher decisero quindi di puntare sulla console Nintendo per riportare un po’ in auge i light gun shooter, seppur in forma diversa: SEGA ci provò con The House of the Dead: Overkill, uno spin-off più che riuscito; Electronic Arts incaricò invece Visceral Games di realizzare Dead Space: Extraction, spin-off dell’omonima serie survival horror di cui tanto si attende un bel ritorno, seppur sia difficile con la chiusura dello studio di sviluppo (se fanno Bioshock 4 senza Ken Levine, mai dire mai).
La parentesi Wii da sola non bastò per far risollevare il genere ormai sull’orlo dell’oblio ed ormai, tolto qualche caso sporadico, i light gun shooter sono quasi del tutto spariti dalla circolazione. Purtroppo sono prodotti che non attirano più, sebbene soluzioni ibridate come Die Hard Trilogy potrebbero non rivelarsi malvagie, così come non viste di buon occhio considerando le abitudini attuali, tanto da risultare stranianti. L’unica speranza è da ritrovare forse nei visori per la realtà virtuale. Qualcosina infatti negli anni è uscito, ma davvero poca roba e non sempre associabile concretamente al genere. Su Switch, invece, i sensori di movimento non vengono adempiti per qualche soluzione del genere (almeno al momento). Tutto dunque è da vedere, ma allo stato attuale non può che definirsi morto. I trend sono cambiati, il gaming è mutato totalmente e anche se ibridati ad altre formule videoludiche è davvero difficile possano suscitare interesse al videogiocatore di oggi.
Eppure chissà se il pubblico abbia davvero dimenticato. Chissà se un tentativo originale di riportare il genere in auge non possa rivelarsi una flebile speranza (o sorpresa). Perché nessuno dimentica quel dannatissimo ed odioso cane in Duck Hunt; e diverte ancora.