Ti hanno mai dato un pugno in pancia?

A volte le cose più belle sono quelle che ti fanno male. A volte i ricordi più belli sono quelli che ti lasciano un segno. Non so come ragioniate voi, ma per quel che mi riguarda ho una certa teoria sul dolore e sulla sua gestione. Penso, forse un po’ nichilisticamente, che a volte sia necessario che qualcuno ti accoltelli o che, ancor meglio, sia tu stesso a darti una coltellata. Immaginate un cordone ombelicale che vi lascia sospesi a qualcosa cui tenete molto. Immaginate di reciderlo. La nascita, il primo vagito, è l’esperienza di dolore per eccellenza. Gli esseri umani, nella loro fragilità, vivono nella costante paura del dolore e il distacco, l’abbandono, la recisione del cordone che ci lega a nostra madre al momento della nascita, è un momento topico della nostra esperienza di vita. Io la chiamo “condizione umana”. La condizione umana è quella cosa che ti rende ciò che sei. È l’esperienza del dolore, il viaggio attraverso i colori dello spettro dell’emotività. Passare da una parte all’altra di questo arcobaleno di sentimenti, aggrappandoci forte a quello che amiamo, è la sintesi della nostra vita come esseri senzienti. È un’esperienza, quella dell’amore e della conseguente perdita, che forgia praticamente tutti i caratteri e che noi esseri umani, nel particolare, viviamo con una gestazione abbastanza lunga. Ecco, un sunto molto asciutto della condizione umana. Vivere, anzi sopravvivere, agli stati alterati delle nostre emozioni imparando ad amare, odiare, a conquistare, a distaccarsi, fondamentalmente a perdersi in sé stessi per poi venirne fuori. Siamo bozzoli, bachi che filano sentimenti al posto della seta.

Se vi dirà bene ne verrete fuori forti, incrollabili, incedibili. Realisticamente, e il più delle volte, sarete semplicemente adulti, con alle spalle esperienze più o meno belle e tante fragilità

https://www.youtube.com/watch?v=Bf12qwPWDVI&t=16s

Questo è il motivo fondamentale per cui tutti, ma proprio tutti, dobbiamo delle scuse a Bojack Horseman. Tutti. Nonostante qualcuno voglia sentirsi più hipster di altri, con frasi tipo “conoscevo Bojack da prima che diventasse mainstream”, sappiate che le scuse dovranno essere unanimi e sentite. E per inciso, “mainstream” significa tutt’altro. Perché è difficile non ammettere che con l’uscita della prima stagione, questa perla di talentuosissima scrittura fu archiviata per lo più come “l’ennesimo show per adulti messo su per farsi anche quattro risate”.

Che pensiate a Groening o a McFarlane, sappiate che nessuno dei due c’entra un cazzo. Che stronzi siamo stati, che “inutili pezzi di merda”. Bojack Horseman non è semplicemente uno show per adulti, ma è forse il più complesso e sfaccettato viaggio alla ricerca di sé stessi che la TV possa offrirci in salsa animata. Bojack Horseman è la parabola perfetta per comprendere, capire, per qualcuno anche solo costeggiare, il concetto di “condizione umana”. Ed ora che siamo alla quarta stagione, ora che questa è finalmente disponibile in tutto il mondo, chi vi scrive si rende conto che questo show sa colpire così duro e così forte da lasciare non storditi, ma impietriti.

Ti hanno mai dato un pugno in pancia? Un pugno ben assestato sul plesso solare è qualcosa di atroce. Se chi tira il colpo sa dartelo come si deve, la sensazione è quasi come quella di un improvviso conato di vomito. Il respiro non si affanna, letteralmente si blocca. Il dolore del colpo si concentra in un punto preciso, più o meno alla bocca dello stomaco, e poi si espande di colpo a raggiera. Cadi spesso in ginocchio, perché il colpo ti piega in avanti, come in posizione fetale e tu, per un attimo, vivi un’apnea profonda e straniante. Un colpo in pancia ben assestato può ucciderti, ma diciamo che il più delle volte ti dà “semplicemente” un dolore così profondo da lasciarti senza aria. Ecco, Bojack Horseman è generalmente come un pugno al plesso solare. I suoi episodi ti lasciano così, di merda e dolorante, ed il paradosso è che più te ne spari, più nasce in te una sorta di masochismo che ti obbliga ad andare avanti.

Complice è una scrittura che mescola sapientemente humor completamente fuori di testa a tematiche adulte, profonde, di un grigio intenso. Tutte ancorate ad un concetto, ed uno soltanto: non ci sono tanti vincitori nella vita di tutti i giorni, ma ci sono tantissimi sconfitti. Perché talvolta puoi anche essere il protagonista di uno show, e avere il nome che svetta in locandina, ma questo non significa automaticamente che tu sia un vincente, né che meriti un “happy ending”. Paradossalmente Bojack Horseman, ancor meglio di serie come The Simpsons, riesce, nel mare tragico del suo nonsense ad essere una serie intimista e, ancor meglio, forse verista, nella misura in cui concretizza attraverso i suoi personaggi tutta una serie di riflessioni sulla quotidianità, sul mondo vero, che noi stessi viviamo. Perché al di là dei momenti sopra le righe, di personaggi con fattezze animali, o di piani assolutamente irrealizzabili nella realtà, il potere di Bojack è quello di condensare nella mezz’ora scarsa dei suoi episodi, una trama orizzontale che analizza alcuni dei più conclamati problemi della vita di tutti: inadeguatezza, depressione, morte, amore, distacco, lutto.

“E sogno un’arte reproba

che smaga il mio pensiero

dietro le basse imagini

d’un ver che mente al Vero”

(Arrigo Boito)

La quarta stagione segue questa linea orizzontale ed è forse quella che ad oggi è in grado di colpire più duro. Quella che, senza dubbio, metterà alcuni di voi sotto Xanax, specie se fruita in binge watching dall’inizio alla fine. Bojack è scomparso, e dopo la lunga cavalcata che lo ha condotto persino agli Oscar, la stella di Holliwoo è sulla bocca di tutti. Da un anno a questa parte tutti si chiedono dove sia finita la star di Horsing Around e semmai ritornerà in scena. Del resto, avevamo lasciato Bojack in uno stato di profonda depressione, complice la morte di Sarah Lynn che, in piena overdose, era spirata proprio tra le braccia del suo “padrino”. E dunque: dov’è Bojack Horseman?

Lo show si diverte, non senza rischi, a farci vivere l’ansia dell’assenza del suo beniamino negandoci la sua presenza addirittura nella premiere della stagione, in quello che è un episodio totalmente incentrato sulla corsa alla carica di Governatore di Mr. Peanutbutter, con tutte le conseguenze (nonsense) del caso. Bojack comparirà solo nel secondo episodio, in giro per l’America alla ricerca di sé stesso e, ancora una volta, del suo posto del mondo. Nel mentre, il carrozzone dei suoi coprotagonisti farà il suo corso, vivendo la propria vita, scontrandosi con le proprie emozioni e i propri problemi. Nulla è lasciato al caso, e tutti gli aspetti del racconto si legano, pian piano, ad una matassa centrale. Un lavoro certosino, di fino, che si riserva persino dei momenti cupi, macabri, autenticamente grandguignoleschi.

La quarta stagione si accolla ogni possibile rischio, e lo fa con assoluta nonchalance, complice una scrittura granitica, che nel tempo ha dato ai suoi personaggi uno spettro emozionale tanto ampio da fare invidia a show ben più rodati nel tempo. Bojack, in sole quattro stagioni, ha fatto molto più (e meglio) di tanti altri, sicché arriviamo a quest’ultima season con tantissimi retroscena sul carattere di praticamente tutti gli attori a schermo. Eppure, nonostante una conoscenza così profonda, lo show continua a sorprendere e a scavare, andando a fare luce su quello che è un aspetto ad oggi solo costeggiato, e mai prima d’ora così approfondito: le cause della depressione del suo protagonista.

Diversi sono gli episodi che vi spezzeranno il fiato, ma in particolare il sesto vi darà una visione chiara di cosa significhi sentirsi inadeguati e di cosa voglia dire essere depressi. Avere a che fare con una voce interiore che ci vuole mediocri, fallaci, inutili a noi stessi, in netto contrasto con quella volontà, ormai assopita, che vorrebbe aiutarci a conquistare una vita dignitosa ed appagante. Tutto questo condensato in 25 minuti, in un gioco di incastri a dir poco perfetto che va poi, in fin dei conti, ad analizzare chiaramente quello che è il senso dell’essere genitori. Una prospettiva che lo show, in sole 12 puntate, analizza a puntino da ambo i lati: essere genitori, ma anche essere figli. In una ruota continua che schiaccia il suo protagonista sotto l’incommensurabile peso dell’eredità paterna.

Difficile non fare spoiler a questo punto. Difficile anche non perdersi in una pozza profonda e densa di inquietudine. Guardare Bojack è come passare la giornata a guardare slasher movie che non fanno a pezzi corpi umani, ma sentimenti. Senza sangue, senza interiora appese ai muri, ma comunque capaci di squarciare quella che è la nostra naturale comfort zone. Perché dovreste vederlo? Perché è catartico, terapeutico, nietzschiano? Forse. O forse perché tutto ciò è semplicemente bellissimo, tale da lasciare, anche nel più arido, il germoglio di un pensiero, di una riflessione, di uno spunto al miglioramento di sé stessi. Bojack Horseman è il corrispettivo moderno della tragedia greca. Che attraverso la visione della follia, del dolore, della “condizione umana”, arricchisce gli uomini e li rende più saggi. Quantomeno più coscienti di cosa voglia dire vivere. Questo perché, parafrasando uno dei personaggi della serie, lo stravagante assistente di Princess Carolyn, Giuda, Bojack Horseman “non dice niente tanto per dire. Sceglie con cura le sue parole, con un occhio alla precisione e uno alla convenienza”.

A questo punto sta a voi guardarlo, stupidi pezzi di merda.

Copertina dell’articolo realizzata da Carlo Cid Lauro