Le paure più recondite della nostra infanzia si rimanifestano in Little Nightmares II
C’è un momento in Little Nightmares II dove dobbiamo scappare da un alto e inquietante uomo che ci insegue, The Thin Man. Nella breve sequenza, l’unico posto in cui potremo nasconderci è sotto a un letto. La più classica delle vignette horror: siamo dei bambini e ci ripariamo dall’uomo nero sotto quel posto che nella nostra infanzia ha sempre rappresentato un posto sicuro, protetto. È dove i nostri genitori ci rimboccano le coperte, ci raccontano una fiaba o ci cantano una ninna nanna. È dove ci rifugiamo quando stiamo male, quando non ci sentiamo di affrontare quella giornata di scuola. È anche dove, più avanti nella vita, passiamo la notte con chi amiamo maggiormente, facendolo o facendola entrare in quello che è sempre stato il nostro più intimo rifugio. Ma nel cuore della notte e soprattutto nella mente di un bambino, il letto rappresenta il luogo in cui ci nascondiamo dai mostri che tramano nel buio della nostra cameretta. È questo il tipo di sensazione che permane maggiormente per tutta la durata di Little Nightmares II, seguito del cult a basso budget del 2017. I due giochi sviluppati dal team svedese Tarsier Studios, e distribuiti da Bandai Namco, pur condividendo lo stesso immaginario narrativo sono molto diversi per quanto riguarda gli obiettivi delle singole opere. Il primo Little Nightmares raccontava la storia di Six, una bambina di nove anni rapita e portata all’interno di una grossa nave da crociera per essere servita come prelibatezza culinaria. Il mondo in cui ci troviamo è infatti un posto ostile per i bambini, che vengono attivamente cacciati e mangiati dagli adulti, rappresentati nel primo capitolo quasi sempre come animaleschi esseri senza controllo, un modo simile a come vengono dipinti da Hayao Miyazaki e lo Studio Ghibli ne La città incantata. Un inquietante serie di eventi che richiamano alla lontana l’immaginario burtoniano e delle storie per non dormire dei piccoli brividi.
Questo seguito è invece ambientato nella Città Pallida, un non luogo dove gli adulti continuano a tormentare i più piccoli attraverso modi che sembrano prendere un’impronta più istituzionale e burocratica, invece di seguire una più semplice tendenza alla gola e la lussuria come nel primo capitolo. Il gioco è suddiviso infatti in tre distinti blocchi tematici (se escludiamo il prologo e l’epilogo): scolastico, ospedaliero e televisivo. Quest’ultimo rappresentato in una chiave oscura da propaganda di stato simile a un regime orwelliano. Senza doverne fare una politicizzazione troppo diretta, è possibile intravedere nel titolo un discorso di sottofondo su come le istituzioni cercano di provocare terrore ai bambini invece di educarli, su come la sanità pubblica viene spesso lasciata al buio e a marcire, e su come la televisione sia diventata ormai una vera e propria droga nella vita delle persone. La Città Pallida sembra racchiudere al suo interno i caratteri fondamentali di una società di regime collassata su sé stessa, messa in scena dai Tarsier Studios come un deformato quadro dell’orrore proveniente dalle più recondite paure tipiche dei romanzi di George Orwell e Franz Kafka.
Little Nightmares, Playdead e il trial and error
E qui è necessario parlare anche di altre due opere, poiché dal mondo videoludico la serie di Little Nightmares prende molto spunto dai capolavori danesi di Playdead, Limbo e Inside, che (come ne ho discusso in questo video) sono ottimi esempi dell’applicazione della poetica kafkiana al videogioco. Playdead e Tarsier Studios sembrano essere gli unici team di sviluppo ad aver assimilato Kafka e averlo portato ai giocatori attraverso piccole opere dell’orrore a due dimensioni.
Ma non solo a livello tematico: anche le similarità a livello del gameplay sono moltissime, tra cui fra tutte spunta sicuramente la famigerata meccanica del trial and error, ovvero l’obbligo del giocatore di riscontrare un game over per poter capire come proseguire nell’avventura. Questa meccanica è spesso criticata e usata come sinonimo di cattivo game design, poiché lascia il giocatore in balia degli eventi senza dargli la concreta possibilità di rispondere reattivamente a quello che accade, ma in realtà sia i giochi del team danese che quello svedese sono in grado di “giustificare” il trial and error attraverso il mondo di gioco e il tipo di credibilità narrativa che costruiscono.
Little Nightmares II, ad esempio, è ambientato in un contesto strettamente onirico, un incubo, ed è quindi facile ricollegare la continua sconfitta e ripetizione delle stesse azioni come il più classico elemento distintivo dei brutti sogni. È possibile infatti, seppur in maniera un po’ forzata, leggere la meccanica come un semplicistico mezzo per veicolare quel tipo di impotenza, d’impossibilità di agire, che rende l’incubo un’esperienza così spaventosa. Quante volte in un brutto sogno sembra quasi come se ci trovassimo sopra una sorta di tapis roulant infernale, dove le cose che sono a portata di mano diventano improvvisamente irraggiungibili? In Little Nightmares II può accadere proprio questo: di sentirci bloccati in un tedioso loop poiché il gioco ci richiede un’unica enigmatica soluzione a un determinato problema capace di portarci all’istantaneo k.o.
Sicuramente se si fosse lasciato al giocatore un tipo di reattività più ampia la qualità generale dell’esperienza ludica ne avrebbe giovato, ma allo stesso tempo ci avrebbe forse donato quella maggior sensazione di potere che invece l’opera di Tarsier Studios cerca completamente di obliterare.
Le paure della nostra infanzia
Come abbiamo detto prima, Little Nightmares II ci porta in varie situazioni ben distinte a livello tematico, proponendo anche diversi cambiamenti nel gameplay in grado di tener alta l’attenzione del giocatore. L’intera esperienza gira intorno ai canoni classici dell’orrore che nel corso del tempo abbiamo identificato come appartenenti alle paure più infantili. Le varie vignette che l’opera ci propone non sono altro infatti che la più pura manifestazione dei terrori della nostra infanzia. È lo stesso tipo di ansia che si aveva a scuola mentre si cercava di copiare durante una verifica, mentre la professoressa estraeva a caso chi interrogare quel giorno, o mentre si cercava di non farsi scoprire da insegnanti e genitori quando si marinavano le lezioni.
È il tipo di paura puerile per il buio, per il mostro nell’armadio e per i strani rumori in cantina. Paure giovanili che ci portiamo nel nostro cuore per molto tempo, e che pensiamo di aver completamente eliminato durante l’età adulta. Little Nightmares II è in grado di offrirci di nuovo quei tipi di sentimenti perduti durante la crescita. Ci mette nei panni di un bambino per farci sentire un bambino: impotente e completamente succube del mondo degli adulti. Un mondo forse post-apocalittico e forse totalitario, ma senza ombra di dubbio impegnato in un’ossessiva caccia e distruzione dell’infanzia.
Si potrebbero interpretare i due giochi della saga di Little Nightmares come delle manifestazioni oniriche dei traumi dei giovani protagonisti, abusati dai nemici adulti e completamente schiacciati dal tipo di ambiente in cui vivono: le maniglie delle porte sono troppo in alto per essere raggiunte con facilità, i mobili sono di dimensioni enormi e vengono scalati dai protagonisti come se si trovassero in una spaventosa versione del gioco “floor is lava”.
Ma forse il più grande pregio dell’opera è proprio la non diretta dichiarazione d’intenti. È certo facile giocare la carta della libera interpretazione, ma allo stesso tempo relegare il tutto a un trattato psicologico sull’abuso è riduttivo. Abbiamo infatti percorso anche le chiavi di lettura delle istituzioni kafkiane e della messa in scena delle fobie bambinesche, ma tante altre sono concepibili. Il mondo del possibile costruito da Tasier Studios è un elegante pastiche degli stilemi dell’horror e un perfetto esempio di narrativa ambientale indiretta. Cosa accade tra le strade della Città Pallida può avere un significato diverso per qualsiasi giocatore, e va benissimo così. L’industria è talmente sommersa di opere prolisse nella loro narrazione che quando ci si ritrova davanti a questo tipo di prodotto è giusto lodarne l’abilità di raccontare attraverso l’ormai dimenticato show, don’t tell.
L’opera del team svedese è quindi un gioco obbligatorio per qualsiasi appassionato dell’orrore e non solo. Un titolo in grado di catapultarci in un mondo dalla direzione artistica unica e originale, in grado di offrire al giocatore momenti di puro terrore e divertimento, pur nonostante i saltuari attimi di frustrazione provocati dal trial and error. Più che degno sequel del primo capitolo, Little Nightmares II è un viaggio attraverso le paure che ci eravamo dimenticati di avere.