Quando il “cinecomics” diventa Italiano…

Roma. Un pregiudicato di nome Lorenzo Ceccotti sta scappando a piedi dagli sbirri quando, per nascondersi, decide di gettarsi nel Tevere. Una volta elusi i suoi inseguitori, nel tentativo di uscire dall’acqua, Lorenzo finisce in un bidone pieno di rifiuti tossici. Una volta riemerso, si rende conto di aver sviluppato un’incredibile resistenza ma soprattutto una forza sovrumana. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità ma questa lezione, Lorenzo, la imparerà troppo tardi, quando un gruppo di criminali gli porterà via tutto ciò a cui teneva.
A Roma, però, nasce una leggenda. Il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, diciamolo subito, è qualcosa di prodigioso. Il prodigio deriva dal fatto di aver reso credibile un film sui supereroi realizzato in Italia, in periferia, con un budget un migliaio di volte inferiore a quello di un qualsiasi film dei Marvel Studios e similari.

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Un qualcosa che era stato tentato solo da Gabriele Salvatores con l’ottimo Il ragazzo invisibile che, però, si era rivelato più un cinecomic d’autore che un prodotto di genere, lontano dall’intrattenimento puro che è in grado di regalare Lo chiamavano Jeeg Robot. E’ il trionfo del cinema di genere e quindi, anche del cinema italiano? Sì, soprattutto del cinema italiano. Mainetti dimostra come un cinema diverso, di qualità, sia realmente possibile. Basta avere un briciolo di talento, un’idea precisa di quello che si vuole trasmettere allo spettatore e soprattutto basta saper rubare con gli occhi. Perché Jeeg Robot è figlio del cinema di Stefano Sollima, di Luc Besson (il protagonista, più che Hiroshi Shiba, somiglia a Leon, soprattutto per il suo nutrirsi esclusivamente di un unico alimento, un budino alla vaniglia in questo caso), di Quentin Tarantino se vogliamo. Lo chiamavano Jeeg Robot è tanti generi diversi che si intrecciano senza però trasformarlo in un ibrido senza senso. Questo è un cinefumetto a tutti gli effetti, con il classico antieroe in cerca di redenzione, una nemesi a lui speculare e una storia d’amore per niente banale che muove tutto l’ingranaggio del film. Di fatto la bravura degli attori, tutti, va sottolineata per capire come questo prodotto sia un trionfo su tutta la linea. Claudio Santamaria sta dentro il personaggio in maniera splendida, riuscendo a conferirgli carattere e spessore. Luca Marinelli, già apprezzato per l’impressionante prova in Non essere cattivo di Caligari, è semplicemente mostruoso. Il suo è un cattivo cool e bastardo come il Joker di Heath Ledger, tanto che la scena la ruba in più di un’occasione. Ultima ma non ultima la splendida prova di Ilenia Pastorelli, forse l’attrice con il ruolo più difficile di tutto il film. E qui va fatto un plauso a Nicola Guaglianone per aver saputo creare un personaggio femminile atipico e assolutamente mai banale, che riesce ad essere il motore trainante della pellicola, bilanciandone la parte puramente godereccia con quella drammatica e giustificando con un espediente raffinatissimo il collegamento di storia e personaggi con il mitico anime di Go Nagai.

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E poi c’è la regia di Mainetti; il regista romano osa, spettacolarizza, esagera e talvolta (molto di rado) sbaglia ma fa tutto con un unico scopo: intrattenere lo spettatore riuscendo, al contempo, a raccontare una storia che tiene, dall’inizio alla fine, dando vita a inquadrature e sequenze iconiche, come nella migliore tradizione hollywoodiana. Tra bancomat scardinati e termosifoni piegati a mani nude, Lorenzo Ceccotti “se pia Roma” come il Libanese di Romanzo Criminale, spacca tutto come Hulk in The Avengers, tra Tor Bella Monaca, Cinecittà e lo Stadio Olimpico (proprio allo stadio olimpico, durante Roma-Lazio, si consuma lo scontro finale, esagerata citazione del mitico confronto tra Bruce Lee e Chuck Norris nel Colosseo in Il furore della Cina colpisce anche l’occidente) e “non è amico de nessuno”. Ma ci sono anche la colonna sonora pop anni ’80, con Anna Oxa e Loredana Bertè, le esplosioni incontrollate di violenza, Salvatore Esposito di Gomorra la serie che fa il Genny Savastano di Gomorra la serie, la spada alata e il giorno delle tenebre, che quando arriva rivela la vera natura degli eroi, che preferiscono salvare la gente invece che fare le rapine, pure con le scarpe di camoscio.

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Lo chiamavano Jeeg Robot è uno di quei film che ti fa uscire dalla sala appagato, col sorrisetto stampato in faccia e la voglia di conservare il biglietto del cinema. Perché si respira l’aria di un evento unico, quasi irripetibile (speriamo di no). A chi pensa che il cinema italiano sia ormai in coma irreversibile consigliamo di vedere film come Senza nessuna pietà, Suburra, Non essere cattivo e ovviamente Lo chiamavano Jeeg Robot. Un nuovo cinema (italiano) è possibile, basta solo dare gli strumenti giusti in mano a gente che sa usarli, come Mainetti e soci.

Simone Bravi
Nasce nella capitale dell'impero tra una tartaruga ninja, un Mazinga e gli eroi del wrestling dell'era gimmik. Arriva a scoprire le meraviglie del glorioso Sega Mega Drive dal quale non si separa mai nonostante l'avvento della PlayStation. Di pari passo con quella per i videogame vanno le passioni per il cinema, le serie Tv e i fumetti. Sembra Sheldon di The Big Bang Theory ma gli fanno schifo sia Star Trek che Star Wars. E' regolarmente iscritto all'associazione "Caccia allo Juventino".