Lost girls su Netflix: il caso degli omicidi di Long Island
La regista Liz Garbus porta su Netflix il film Lost girls, adattamento del romanzo d’inchiesta di Robert Kolker sul serial killer di Long Island: Mari Gilbert è una madre che guida e sprona incessantemente le forze dell’ordine a cercare la figlia scomparsa, Shannan, e nel frattempo fa luce su una serie di omicidi irrisolti di giovani escort. Per la donna la sparizione di Shannan è strettamente collegata a queste morti, ma la polizia agisce diversamente non avendone prove certe.
Una premessa simile porta lo spettatore ad approcciarsi alla visione di Lost girls come farebbe per qualsiasi thriller legato a storie di omicidi e di serial killer, aspettandosi di scoprire chi sia l’autore di simili barbarie, cosa sia successo veramente, quali misteri si annidino nella torbida faccenda.
E invece Liz Garbus mescola le carte in tavola, concentrandosi su aspetti sì estremamente importanti, ma secondari nella gestione di un thriller. Perché, di fatto, Lost girls non lo è.
Le difficoltà di una documentarista
Quest’opera parte dalla storia degli omicidi per concentrarsi sulla diversità di trattamento ricevuto da parte di istituzioni e autorità a seconda del proprio ceto sociale, della propria condizione economica, e soprattutto di come alcune donne, in particolar modo chi vive situazioni assai difficili come Mari Gilbert, non vengano ascoltate e lasciate da sole a combattere con i loro drammi.
Lost girls è quindi un film girato da una donna, che racconta di donne e parla alle donne, ma anche (e forse soprattutto) agli uomini e a chi non vuole ascoltare il loro grido d’aiuto.
Messaggi estremamente importanti, abbiamo detto; ma come si ripercuote tutto questo nella gestione di un film che parte da una serie di omicidi?
Si rimane alquanto interdetti nelle prime fasi, perché di fronte ad un inizio che ci pone davanti alla sparizione di una ragazza, il ritrovamento di quattro giovani donne uccise, filmati di telecamere che vengono cancellati, strane telefonate e ripetuti spunti interessanti, Liz Garbus non ci consegna un thriller ma socchiude la porta per mostrarci cosa ci sia nella stanza accanto. Lasciandoci, di fatto, a bocca aperta.
La storia, del resto (e parliamo di fatti reali, quindi non spoileriamo nulla), è legata ad omicidi irrisolti, nessuno sa ancora oggi chi sia davvero il serial killer di Long Island, per cui la scelta della regista in quest’ottica ha più di un senso. Eppure guardando Lost girls si ha la costante sensazione che il film, pur proseguendo perfettamente lungo i binari tracciati dalla Garbus, si soffermi troppo tempo alle stesse stazioni, fino a perdersi poi in una galleria senza fine.
Chi prova a farlo uscire dal tunnel è sicuramente una irriconoscibile e abbrutita Amy Ryan, che interpreta perfettamente il ruolo di una donna e una madre distrutta, consumata da una vita difficile durante la quale ha dovuto mandare in affidamento una figlia a cui non poteva più provvedere, la stessa figlia che ora è scomparsa e probabilmente morta. Un dramma inimmaginabile nel quale si trova anche l’altra figlia Sherre, interpretata da quella Thomasin McKenzie che già avevamo conosciuto ed apprezzato in Jojo Rabbit e ne Il re.
Interpretazioni forti che trasmettono il dramma familiare, supportato dalla fotografia cupa (ed eccezionale) di Igor Martinovic, con quelle stesse sfumature grigio-bluastre che il direttore aveva già utilizzato in House of cards e The Night Of.
Ma tutto questo si perde troppo spesso in un racconto statico, che batte sempre sugli stessi punti e oltre a fornirci gli stimolanti spunti di riflessione già chiari dal principio, non riesce a sviluppare una trama coinvolgente, complice probabilmente anche la deformazione professionale di Liz Garbus, una eccellente documentarista ma non altrettanto a suo agio con il thriller o con il drama.