Luoghi spirituali in Giappone: un rapporto complesso immerso nella natura
Quando si pensa al Giappone, in genere vengono in mente due ordini di immagini: megalopoli all’avanguardia dove l’uomo si eclissa nell’umano o, al contrario, luoghi ameni e spirituali dove l’uomo ritrova se stesso nell’assenza di segni del suo intervento. Questo, almeno, dalla prospettiva di noi osservatori o cercatori dell’esotico: vi è infatti un che di più profondo nel legame che unisce la natura agli abitanti dell’arcipelago, che ancora sopravvive nonostante i recenti sviluppi economici l’abbiano messo a dura prova.
Nel suo seminale Dogs and Demons – The Fall of Modern Japan, ormai quasi vent’anni fa Alex Kerr – uno dei padri della nipponistica contemporanea – lamentava la brutale cementificazione delle aree rurali più caratteristiche, nel silenzio dell’opinione pubblica e nell’indignazione di (pochi) intellettuali che non si erano lasciati abbagliare dalle promesse dei burocrati: è così che il doken kokka – lo «Stato costruttore» – è riuscito a divorare la Valle di Iya, a puntellare di tetrapodi la barriera corallina di Okinawa e ad azzerare la biodiversità del patrimonio boschivo, provvedendo in compenso profittevoli (?) dighe e collegamenti carrabili.Eppure, dicevamo, quel legame sopravvive grazie alla ritualità e al folclore, entrambi al centro dei disegni di soft power di quegli stessi governi che, approfittando di un quadro normativo estraneo ai diritti di terza generazione, del verde hanno fatto scempio.
Si tratta tuttavia di una comunione uomo-natura che non per forza si muove attraverso forme codificate – i famosi matsuri per esempio –, e che anzi è riuscita a mantenersi genuina in virtù della sua informalità, anche se non in maniera altrettanto sentita da regione a regione.
Nello shintō, la «Via degli Dèi» che costituirebbe la religione “autentica” di Yamato, il divino alberga nell’organico come nell’inorganico, con una predilezione per l’abnorme (l’albero più alto, la roccia più grande…) che si inserisce armoniosamente nel gruppo.
Attenzione però: i kami – gli dèi, appunto – non aspettano i nostri comodi, e si presentano nella loro dimora solo a patto di un sentito incontro – a volte paritetico, a volte dove la loro presenza si fa soverchiante – con il fedele. Certo anche lo shintō, tra templi lignei e kannushi (sacerdoti), si è dato delle istituzioni, ma la sacralità continua a risiedere là dove l’uomo non è protagonista e abbisogna di gesti semplici.
I luoghi spirituali del Giappone più importanti sono da sempre presenti nelle produzioni pop
In questo breve viaggio cercheremo di mettere in luce il significato più profondo dei luoghi spirituali del Giappone, considerando l’impatto sulla pop culture e il contributo che quest’ultima ha dato a risvegliare coscienze spesso sopite in tema di ambientalismo.
Il fiume
Neanche a dirlo, in questo ambito il contributo maggiore l’hanno dato probabilmente i film dello Studio Ghibli, i cui fondatori non hanno mai tradito gli ideali di gioventù. Un primo spunto interessante giunge dal personaggio di Haku de La città incantata (2001), spirito del fiume che salvò Chihiro quando, bambina, stava per affogare. Come suggeriscono i poteri di trasformazione del ragazzo-drago, il fiume è figura del transeunte, del volubile corso degli eventi che può rivoltarsi contro l’uomo ma anche della serena consapevolezza del carattere effimero dell’esistenza.
È al fiume, tra i luoghi spirituali del Giappone, che bisogna rivolgersi per stornare le calamità naturali dagli insediamenti degli uomini, ed è seguendo la corrente placida ma inarrestabile del fiume Sanzu che costoro lasceranno questo mondo: un’immagine a suo modo rassicurante che Il quaderno canguro (1977) di Abe Kōbō ribaltava, popolandone le sponde di bambini defunti intenti a costruire torri di ciottoli, prontamente abbattute dagli aguzzini infernali. Fiume che non è né origine (sorgente) né fine (mare), habitat di spiriti ambigui (i dispettosi kappa) come di nutrimento (i pesci) per il villaggio, che pretende osservanza delle norme non scritte e grande curiosità per indicare i segni del cambiamento.
Il mare
Al polo opposto, tra i luoghi spirituali del Giappone, il mare è refrattario a ogni tentativo di conoscenza. Se nella tradizione greco-latina l’esplorazione dell’ignoto, nonostante lo stigma dell’hybris, è alla fine premiata, nella concezione maleo-polinesiana – secondo alcuni antropologi il sostrato più antico della religiosità nipponica – ciò costituisce una prevaricazione in quanto lo stesso pelagus (ovvero il “mare profondo”, quello che non si presta al sostentamento dell’uomo) è dimora degli dèi.
La mancanza di una dimensione verticale – che permane invece nella visione altaica, appartenente ai culti Ainu – è dunque compensata, sul piano orizzontale, dal tabù del transito, corroborato dalla minaccia dei mostri degli abissi. Figlio della violazione di questo tabù è infatti il kaijū più amato della storia del cinema, emerso per ristabilire l’ordine turbato dagli esperimenti nucleari; ed è curioso notare come nei film successivi – Il ritorno di Godzilla (1966) di Fukuda Jun, o ancora Furia di mostri (1971) di Banno Yoshimitsu – Godzilla, sempre meno interessato alla distruzione di Tōkyō, si dedicherà invece alla lotta contro i nuovi abomini generati dalla scienza. “Abominio” è anche, con tutte le attenuanti del caso, la piccola eroina di Ponyo sulla scogliera (2008), che con la sua scelta d’amore mette a repentaglio la stabilità dell’ecosistema marino e non, dimostrando quanto sia importante rispettare il binomio timore/rispetto all’origine del lungo isolazionismo (anche storico) del Giappone.
La foresta
Tornando sulla terraferma, la foresta è uno dei luoghi spirituali in Giappone dove le probabilità di incontro ravvicinato tra umano e soprannaturale aumentano, grazie alla varietà di spiriti (yōkai) che la popolano. Protetti dai giochi di ombre creati dai raggi solari attraverso il fogliame – il giapponese ha un termine apposito, komorebi –, si sentono a loro agio arrivando ad assumere forma animale (volpi, cervi) e a interagire col tagliaboschi o cacciatore di turno, al quale spetta il dovere di ritirarsi non appena esaurito il suo compito.
Se in Principessa Mononoke (1997) la reazione della comunità silvana è così violenta, lo si deve infatti all’avidità della regina Eboshi che continua a strappare ettari alla loro casa: ultimo baluardo tra il villaggio (dominio della tecnica) e la montagna (invulnerabile ai tentativi di colonizzazione umani), la foresta ammette il prelievo di risorse ma in un contesto di continua compensazione, poco al di sopra della mera sussistenza. Troppo spesso associata alla morte e all’orrorifico da certo immaginario occidentale – si salva Van Sant con Sea of Trees (2015) –, l’autoctono non percepisce l’oppressione della “selva oscura” né il senso di smarrimento delle fiabe dei Grimm, quanto un sentore di ascetismo: può isolarsi per riscoprire le proprie radici – questo, almeno in un primo momento, lo scopo dei terroristi del film di Kore’eda Hirokazu Distance (2001) –, consapevole che la via del ritorno è alle sue spalle.
La montagna
Invita invece a un ascetismo più radicale la montagna, eletta dal buddismo a luogo di salvezza nel Periodo Insei (1086-1192 ca.), quando il mappō – la «Degenerazione della Legge», ovvero l’apocalisse – minacciava di cancellare l’umanità dimentica degli insegnamenti del Dharma.
Le scuole esoteriche iniziarono a fare a gara per accaparrarsi le vette più impervie – principalmente nelle aree di Kumano e Yoshino –, ove sottoporsi a digiuni e privazioni con cui ottenere poteri straordinari. In realtà, il buddismo non faceva altro che rileggere un paesaggio sacro inscrivendovi la propria simbologia: ben prima dell’arrivo dei primi sutra dalla Corea, le comunità rurali avevano saputo instaurare un rapporto di convivenza, fondato sulla consapevolezza che la dura roccia sarebbe stata sempre impenetrabile, chiusa ermeticamente a custodire le anime degli antenati.
Senza considerare il caso particolare degli eremiti, era comunque consentito recarvisi per la pratica dell’obasuteyama, l’abbandono consensuale degli anziani e degli infermi onde evitare la contaminazione dei membri sani della famiglia: una pratica al contempo crudele e umana, tra le più abusate dalla letteratura – l’arcinoto romanzo di Fukuzawa Shichirō – e dalla settima arte – gli adattamenti di Kinoshita prima e Imamura poi. Diventata in seguito icona nazionale nella specie del rassicurante profilo del Fujisan, la montagna è semmai luogo dell’abbandono – del Sé nel buddismo, dell’impuro nella tradizione popolare – e del compromesso mancato, in quanto il rapporto di forza è unidirezionale. Eppure, è da quegli stessi picchi scoscesi che in estate le anime dei nostri cari verranno a farci visita in sella a zucchine e ortaggi, in occasione della festa del bon.
Altro che sakura…
Abbiamo qui cercato di ricondurre a quattro poli fondamentali la geografia di una religiosità di fatto molto più vasta, caratterizzata da manifestazioni libere e soltanto in parte vincolate a determinati stili architettonici o culti. Sono pochi i toponimi famosi fin qui citati, ma lo scopo era proprio questo: un invito a scoprire la bellezza del Giappone non nei paesaggi da cartolina, ma nelle piccole – sempre più piccole, purtroppo – realtà locali che spuntano un po’ ovunque sul territorio, depositarie di quel bagaglio di tradizioni di cui abbiamo trattato.