È molto difficile parlare di Mafia III. Non lo è per questione di retaggio, seppur la storia di Vito Scaletta sia indelebilmente attaccata addosso a molti giocatori. No, di Mafia III si parla a fatica perché aleggia nell’aria lo spettro del mai dimenticato GTA, che con il suo quinto capitolo ha imposto una sorta di “nuovo standard” per i titoli free roaming. La sconquassante ed esagerata narrativa di GTA V, unita alla sua corroborante varietà è tuttavia quanto di più distante ci possa essere da Mafia III e questo, per certi versi, è un bene ma comunque un problema. In fase di premesse, quando cioè si scrivevano anteprime e non recensioni, un po’ ce lo aspettavamo. Sapevamo che questo terzo capitolo non sarebbe potuto essere all’altezza della concorrenza e speravamo – come poi è stato e leggerete – che a fare la differenza fosse invece la storia, la trama, la caratterizzazione politica e sociale di un periodo storico difficilmente narrato nel mondo dei videogame. In questo Mafia III ci riesce, ce la fa ed anzi, in un certo qual modo la sua trama principale risulta persino più gradevole di molti altri prodotti di genere. Eppure, nonostante ciò, una serie di mancanze (e qualche cruccio tecnico) non permettono al titolo di eccellere, relegandolo ad un momento divertente, ma forse dimenticabile, della nostra carriera da videogiocatori. Vediamo perché.
Back from hell
1968: Ritornato dal Vietnam con più incubi che speranze, Lincoln Clay è un giovane afroamericano del ghetto di New Bordeaux. Un ragazzo orfano, vissuto per strada, e cresciuto tra amicizie che, nonostante giri loschi e malaffari, hanno sempre guardato con attenzione le necessità della comunità nera. Oppressa, osteggiata, schiacciata dall’odio dei bianchi e dall’indifferenza delle altre minoranze, la comunità afroamericana di New Bordeaux sopravvive alla giornata grazie all’occhio vigile del suo controllore e benefattore, Sammy Robinson, boss locale alla mercé ed al giogo del capofamiglia italo-americano: Sal Marcano. Cresciuto per strada, Lincoln ha trovato in Sammy più che un padre, ed ha dato alla causa dell’uomo tutto se stesso, facendogli da spalla ma anche da pugno, quando la situazione lo ha richiesto. Sotto l’egida pacifica di Sammy, l’Hollow, il ghetto, resta stabile, e solo occasionalmente in conflitto con gli Haitiani di Baka, desiderosi di sfruttare la piazza per lo spaccio della droga a buon mercato. Figliol prodigo sopravvissuto al Delta del Mekong, Lincoln non ci metterà molto a tornare alle vecchie abitudini, rivolte ovviamente al servizio verso la comunità e la sua gente, ma comunque mescolate alle richieste di Sal Marcano. La richiesta è semplice: un colpo, un ultimo enorme colpo alla locale banca federale per risolvere ogni problema, organizzato con gli amici d’infanzia tra cui proprio il figlio di Marcano, Giorgi. La rapina riesce, la fuga è rocambolesca, ma dopo i festeggiamenti la situazione va presto a rotoli e nonostante i buoni profitti ottenuti dal colpo, Marcano e i suoi fanno strage di Lincoln e della sua “famiglia”, apportando un duro colpo alla comunità nera e rimpiazzando, come loro, altri vari boss di New Bordeaux. Sammy e gli altri vengono freddati brutalmente, i loro resti arsi insieme al bar di Robinson, e la città intera finisce sotto l’egida dei Marcano, causando così un tumulto nell’intera comunità mafiosa. Tutti cadono, ma Lincoln Clay no. Ferito, umiliato, privato di ogni legame affettivo, il ragazzo prova a rimettersi in piedi e, grazie all’aiuto di un vecchio amico dei tempi del Vietnam, decide di utilizzare le tattiche apprese sotto lo Zio Sam a scapito dei vietnamiti per fare strage dei Marcano, con la stessa filosofia e la stessa strategia con cui qualche tempo prima aveva fatto la guerra ai Charlie: il terrore. Non per il gusto del crimine, non per il denaro, la guerra di Clay, fisica e psicologica, è solo questione di vendetta. Sua, e di quanti – come lui – sono stati oppressi e schiacciati da Sal Marcano nel suo lavoro di espansione territoriale.
Senza l’abito ingessato
Come dicemmo qualche tempo fa, la prima e più intrigante caratteristica di Mafia III è quella di prendere una certa distanza dai modi ingessati dei suoi primi due capitoli, spostando il setting e l’attenzione verso un contesto del tutto inatteso e con un protagonista che, ad una prima occhiata, non sembrerebbe “degno” di rappresentare un gioco simile. Lincoln Clay è infatti un giovane afroamericano, ex agente speciale in servizio durante la sanguinosa e inutile guerra del Vietnam. Un personaggio di strada, ma ovviamente diversissimo (e non solo per motivi etnici) dai più comuni “picciotti” solitamente rappresentati dalla serie. Eppure Lincoln, per quanto ex soldato, è comunque un personaggio ambiguo, per certi versi colluso, ma dotato di una morale profonda. Paradossalmente, la sua “onestà” e la sua devozione verso i suoi cari sono quanto di più simile ci sia al carisma che regolamentava la mafia di stampo classico degli anni ’20 e ’40. Lincoln, come uomo d’onore pronto alla guerra (una guerra che lo ha cambiato e che, in qualche modo, lo ha forgiato), diventa quindi un personaggio perfetto e funzionale con cui, specie grazie all’eccezionale narrativa del gioco, è facile sodalizzare ed empatizzare.
Non solo, Lincoln vive a New Bordeaux, una città immaginaria liberamente ispirata a New Orleans, nel cuore paludoso della Lousiana che mal vide la locale popolazione di colore e che aspramente ne osteggiò l’integrazione. Prima ancora di essere un uomo, Lincoln è dunque un “negro”, una parola che il gioco non esagera ma che non nasconde, riproponendo un contesto quanto mai realistico e, in tal senso, appagante restando, nonostante tutto, un racconto di mafia. Mafia III è una storia di mafia come lo era Serpico, come lo è The Departed. Un racconto che lavora sul tema per vie traverse, eppure visceralmente connesse con quello che l’immaginario collettivo ha costruito sin dai tempi de Il Padrino. Il risultato è quello di una storia profonda, che partendo da principi estremamente semplici finisce per parlare non solo di violenza ma anche di uomini, di razzismo, di lotta sociale. Senza le facili esagerazioni di cui spesso è schiava un certo tipo di narrativa, ma scegliendo invece una certa limpidezza che si esprime in gesti, dialoghi, ed anche sproloqui, a cui i personaggi si prestano con naturalezza, e con una buona abilità recitativa (complice, c’è da dirlo, un ottimo doppiaggio anche in italiano). La guerra tra bande, dunque, non si perde in facili stereotipi, ma cerca di rappresentare in modo storicamente attendibile quelli che furono i tumulti criminali (e razziali) che dominarono una buona parte dell’America negli anni ’60 e ’70, quando la differenza tra le razze si esprimeva ancora con i cartelli sulle porte, e con le rivoluzioni per strada.
Siamo lontani, per dire, dalle pompose esagerazioni di GTA V in cui la storia è quasi un pretesto per scimmiottare e criticare tutta una serie di atteggiamenti squisitamente americani. In Mafia III si mette da parte ogni cazzata per fermarsi a parlare un attimo, e seriamente, di cosa stesse succedendo in America in quegli anni. A volte sbattendocelo direttamente in faccia, altre volte lasciandolo ai sensi sopiti del giocatore, tramite un giornale radio, una chiacchierata dei passanti, un manifesto strappato attaccato ad un muro o utilizzando le note di una canzone pensata e composta tra le acque paludose del profondo sud. A ben guardare c’è tutto: dall’orgoglio ferito dei reduci dell’I.R.A. Irlandese all’affannosa ricerca di pace delle comunità nere, passando per la brutalità, per le paranoie comuniste, per il razzismo e la violenza per le strade. Ricordando i nomi mai dimenticati di anni di difficile gestione politica, lo spettro della WW2 e del Vietnam. Del difficile reinserimento dei soldati nella società, dei movimenti dei Black Panther, passando per nomignoli ed epiteti che suonano ancora oggi, purtroppo, come etichette del più esagerato e ingiustificato razzismo. Lo status sociale e politico proposto dal team di Hangar 13 si dà sempre una giustificazione, persino nell’uso delle sue volgarità che non sono mai “gratuite”, ma sempre e comunque giustificate dal contesto o dallo slang, e questa è quanto mai una novità. Un free roaming che esce dagli stereotipi per abbracciare un racconto realistico e intrigante, un lavoro che a pensarci bene è stato appannaggio di un solo grande, e unico, esponente: il mai troppo apprezzato Red Dead Redemption.
Mafia III, insomma, propone al giocatore una storia che val la pena di essere vissuta, e non solo per la complessità e la precisione con cui propone lo spaccato del profondo sud degli anni ’60, ma anche per le qualità con cui la storia è sceneggiata e recitata. La trama infatti, non procede semplicemente sui binari del vissuto in prima persona, ma propone spesso filmati (con motore di gioco) che in forma di flash forward, raccontano al giocatore con stile documentaristico, i fatti e le indagini che succederanno alla caduta dei Marcano. Con Interviste, riprese in tribunale con i testimoni della vicenda, Mafia III mette su un curioso, e registicamente impeccabile, documentario che in un certo senso spiega al giocatore le prossime mosse che si troverà a compiere, cogliendo l’occasione anche per raccontare dell’ascesa di Clay che resterà sempre omesso da questa fase del racconto, donadogli un’aura quasi sacrale o, se vogliamo, leggendaria, come ben si evidenzierà dalle numerose testimonianze dei suoi collaboratori. Si tratta di una trovata bellissima e intelligente, in verità già (malamente) sperimentata negli episodi precedenti, e che contribuisce, anche grazie ad alcuni filmati reali dell’epoca, a tinteggiare ancora meglio il tavoliere socio-politico dell’America del sessantotto. Non solo, perché il tutto si sposa divinamente con l’intero contesto storico per scelte registiche, di filtri, colorazioni e luci, testimoniando un impegno profuso nella ricerca stilistica e storica che è di diverse spanne sopra alla media proposta dal genere free roaming (e da buona parte del videogame “narrativo” odierno). Perché ribadiamolo ancora una volta: Mafia III è puro racconto interattivo, nel senso migliore del termine. Uno sceneggiato, una storia, un documento che testimonia un complesso gioco di vendette, intrighi e criminalità sotto cui scorre poi tutto il resto.
Piccioli e rispetto
Ma che c’è in questo resto? Nel resto ci buttiamo, purtroppo, un mare di ripetitività da cui il gioco, salvo rarissimi momenti, non riesce proprio a sganciarsi. A differenza di molti altri esponenti del genere, infatti, Mafia III offre un giro di incarichi veramente limitato, ulteriormente azzoppato dalla continua e prolissa routine con cui essi sono proposti. Detta in poche parole: lo scopo principale di Mafia III è quello di spezzare le gambe all’organizzazione di Marcano, che può contare dalla sua alcuni “generali” che, dopo essersi divisi la città, controllano diversi e numerosi racket. Lincoln non potrà ovviamente fare tutto da sé, ed ecco quindi che le prime ore le passeremo ad arruolare i nostri tre generali, ognuno specializzato in un ramo diverso del crimine organizzato. Cassandra, leader degli haitiani, controllerà ad esempio i giri di droga e armi; Thomas Burke, leader degli irlandesi, sboccato e scorbutico, con una propensione per le automobili metterà le mani sull’alcol e infine Vito Scaletta, granitico e cazzuto italiano, nonché protagonista di Mafia II, si darà da fare in estorsioni e protezione. Facendo collaborare, non senza grattacapi, queste tre eminenze del crimine locale, chi più chi meno motivato dalla voglia di rivalsa e dal desiderio di vendetta, Lincoln comincerà con loro a gambizzare i vari racket posseduti da Marcano e dai suoi, riconquistando la città a poco a poco, affidandone poi proventi ai suoi generali in cambio di utili favori. Detto così l’incipit è intrigante, e non ci meraviglieremmo se pensaste che una buona parte del gioco ruota attorno ad una componente gestionale o strategica. La realtà dei fatti è però molto diversa. Ogni racket dispone infatti di un fondo economico che, attraverso diverse missioni, avremo il compito di prosciugare. Quando i proventi del racket scenderanno a zero, il boss che lo gestisce verrà allo scoperto e potremo così affrontarlo per farlo fuori. Il gioco tenta in questo frangente di proporre diverse alternative (non tutte necessarie ovviamente) ma finisce comunque per regalarci sempre la stessa solfa: uccidi Tizio, segui Caio, minaccia Sempronio; i compiti contano, in tutto, su meno di 10 elementi diversi, occasionalmente mescolati o rimpastati per tentare di diversificare l’offerta che, viste le oltre 20 ore di gioco solo di storia principale, finiscono ben presto per mostrare il fianco alla noia.
Conquistato un racket decideremo quindi a chi dei nostri 3 sgherri affidarlo, facendo sì che essi non solo acquistino fiducia nei nostri confronti (che tradotto significa lo sblocco di ulteriori missioni secondarie), ma aumentino anche i soldi che periodicamente versano nelle nostre casse private. Non solo, come detto ogni generale disporrà di un certo numero di abilità che potremo sfruttare. Queste vanno dalla richiesta di una banda con cui assaltare il nemico, al richiamo della polizia alle nostre calcagna, e così via. Tali abilità attive potranno generalmente essere pagate con il denaro, ma all’aumentare della fiducia dei nostri soci questi potrebbero sentirsi in debito con noi regalandoci dunque un “favore” aka l’attivazione dell’abilità gratuitamente per un numero limitato di volte (generalmente 1). Questa serie di bonus in termini economici o logistici è, di fatto, l’unico accenno di profondità a quello che è altrimenti un sistema molto piatto e che avrebbe potuto, proprio in virtù dei concetti su cui si fonda il titolo, puntare a qualcosa in più, senza necessariamente strafare.
Certo, non mancheranno occasioni in cui dovremo rimettere in riga uno dei nostri, magari infelice di non aver ottenuto una zona che invece avremo assegnato ad un altro, ma la mancanza di un’ossatura più definita e la sostanziale assenza di un ritmo che non sia demandato esclusivamente alla trama, cominceranno a pesarvi già dopo 1 quarto delle ore totali utili al completamento del gioco al 100% (40 ore per completare tutto il gioco, missioni secondarie incluse). Un peccato se si pensa che a conti fatti Mafia III propone uno dei migliori “gunplay” offerti dal genere, ispirandosi chiaramente ai third person shooter con tanto di coperture e movimento dinamico tra le stesse, nonché un ottimo apparato di guida. Entrambe le componenti sono poi liberamente modificabili, sicché si può optare per un sistema di mira del tutto privo di assistenza, come per un feedback di guida il più vicino possibile ad un’esperienza simulativa o, volendo, arcade. Sparatorie, guide scavezzacollo ed un gran quantitativo di collezionabili su licenza (volumi di Playboy e di Hot Rod o riproduzioni di poster della propaganda comunista) spezzano però solo occasionalmente una monotonia che altrimenti, e purtroppo, è sin da subito lapidaria e snervante.
Cletus mafioso sciocco
Come se non bastasse la ridondanza dell’azione, la sfida offerta dal gioco si attesta su livelli molto bassi, con poche e sparute occasioni in cui la difficoltà si rende tale da richiedere un ripiegamento o, peggio, da decretare la nostra morte. Il punto fondamentale è l’IA che, restando in tema, è meno lucida del pensiero di un bifolco del profondo sud annebbiato dall’acquavite di contrabbando. I nemici di Mafia III sono stupidi, facili da abbattere e soprattutto da aggirare… e raggirare. L’IA è del tutto incapace di organizzare schemi complessi per metterci in difficoltà, tanto che in campo aperto i nemici non tentano di fiancheggiarci in alcun modo, limitandosi ad una insensata carica a testa bassa persino in situazioni in cui fra noi e loro si frappone un solo ostacolo perfettamente circondabile. A risollevare un po’ la situazione c’è una varietà di armi per i nemici (quanto per noi), che permette loro di infliggerci danni molto seri, nonché la progettazione di molte coperture cedibili che, dunque, crivellate dai colpi ci lasciano scoperti ma si tratta veramente di poca roba se si considera la facilità con cui si possono affrontare i nemici, pur essendo noi armati alla buona. Nelle sezioni stealth, poi, che per altro sono molto incoraggiate dal gameplay, la situazione è anche peggiore. Basta nascondersi dietro ad un muro e fischiettare come dei novelli Solid Snake per fare scempio di una moltitudine di nemici che, idioti quali sono, non si accorgeranno neanche dei cadaveri disseminati in giro, tanto che la funzione per occultarli spostandoli è relegata a un unico e mero divertimento: quello di scaricarli in acqua, quando possibile, per vederli sbranati dai coccodrilli.
Il vudù dei palazzinari
Dal punto di vista tecnico Mafia III si comporta bene… ma non benissimo. Il gioco non è al passo con i tempi per diversi motivi, primo su tutti una pessima ottimizzazione del codice in sé, che salvo i tipici bug da open world, soffre di un effetto pop up che spesso infligge persino i corpi solidi come muretti e palazzi, e non solo gli oggetti di contorno come spesso succede in altre produzioni parimenti “grosse”. Ci sono poi alcune scelte tecniche che fanno storcere il naso non poco, come delle animazioni del tutto assenti (la più eclatante è l’assenza di un’animazione di “tuffo” che vi obbligherà a cadere in acqua come pere cotte) o del mancato feedback del personaggio verso certi oggetti. Un test semplice può essere quello di farsi investire da un’auto, azione che pur infliggendoci danni lascerà Lincoln praticamente indifferente. Manca poi, per una precisa scelta di design (che non comprendiamo) un vero e proprio tasto di salto sicché, pur potendo scalare dei muri particolarmente alti (il nostro è alto, da biografia, circa 1.90) ci impedirà talvolta di superare un tronco per terra, e questo perché il comando per scavalcare gli ostacoli (tasto triangolo su PS4) non è in grado di riconoscerlo come tale in quanto troppo basso. Ora voi direte che è una cazzata, ma per tutta risposta vi invitiamo a fare un giro nelle zone acquitrinose del bayou che, già tortuose il giusto, diventano un vero e proprio calcio nei coglioni del giocatore quando per qualche motivo si deve procedere a piedi in punti della mappa altrimenti irraggiungibili ma disseminati di alberi caduti e tronchetti vari. Per fortuna, animazioni a parte, la costruzione del modelli e le relative espressioni facciali sono molto convincenti e si comportano più che bene nei numerosi momenti in cui la telecamera indugia su di loro per cut scene o simili.
Capitolo a parte lo fanno la città in sé e la relativa colonna sonora, due aspetti che come per il resto della produzione vivono a metà tra alti e bassi. New Bordeux è ben costruita, ed alterna gli scorci dell’Hollow (il ghetto), trasudanti di misticismo, mescolata a povertà e cultura voodoo, ai pantani ristagnanti del bayou abitati dai coccodrilli. Sono questi luoghi incantevoli che restituiscono bene l’idea ed il fascino di New Orleans ma che, purtroppo, mal si accostano ai restanti quartieri, i cui scorci si perdono in agglomerati di palazzine e edifici sterili e banalotti, in cui – dulcis in fundo – non è neanche possibile entrare, a causa di una interazione ambientale ridotta all’osso. Neanche la colonna sonora riesce davvero a fare la differenza, e per quanto essa contenga grandi esponenti del meglio dei tardi anni ’60, il numero di tracce è così “risicato” da essere spalmato su sole 3 stazioni radio. All’inizio non lo noterete, ma poi dopo la ventesima volta in cui scorrazzerete per le strade al suono di “Born On The Bayou” dei Creedence Clearwater Revival, vi renderete conto che siamo lontanissimo da quanto invece è più realisticamente stato offerto da altri esponenti del genere, uno su tutti (ovviamente) GTA.