Il male di vivere
La regista franco-algerina Nicole Garcia porta sul grande schermo un adattamento dall’opera letteraria di Milena Agus, Mal di pietre, romanzo del 2006.
Per fare centro si affida ad una delle migliori attrici del panorama internazionale, nonché probabilmente la più adatta per un ruolo ed una storia del genere, ovvero l’eccezionale Marion Cotillard.
Dal 13 aprile le nostre sale accoglieranno dunque Mal di pietre, un’opera drammatica distribuita da Good Films, presentata in concorso all’ultimo Festival di Cannes.
Una sbiadita fotografia degli anni ’50
La vicenda è ambientata in un piccolo paese nella Francia del sud, durante gli anni ’50. Gabrielle è una giovane donna che vive di passione e istinto, emozioni che mal si coniugano con la rigidità e i principi etici di un tempo ed in particolar modo della sua famiglia, che non sopporta gli atteggiamenti della loro figlia maggiore. Per ovviare al “problema” decidono di darla in sposa a Josè, un uomo semplice, onesto, senza troppi grilli per la testa e proprio per questo considerato la persona ideale per porre un freno all’indole di Gabrielle, che però – naturalmente – in tutta risposta detesta la decisione presa dai genitori.
Dopo un periodo di “assestamento” in cui la donna sembra aver trovato una propria dimensione nelle mura domestiche, le vengono diagnosticati i calcoli renali (il mal di pietre, appunto) e viene quindi mandata in una clinica per curarsi.
Qui incontrerà Andrè, e la sua vita prenderà nuovamente un percorso instabile.
In un contesto ambientale così articolato, come vedremo presto, sarà difficile far emergere la storia e la psicologia dei personaggi, ed infatti Nicole Garcia si addentrerà in una strada alquanto dissestata.
La Cotillard e poco più
Portare in scena un’opera del genere e riuscire a superare i dogmi del melò non è cosa facile, e prevede una ricetta assai complessa da cucinare.
Per la prima ora infatti le emozioni restano intrappolate nella macchina da presa, non riescono a uscire, dando vita ad un pericoloso parallelismo tra la condizione di Gabrielle e quella dell’opera in sé, entrambe bloccate e frenate da un muro che si pone dinanzi al loro desiderio di andare oltre ed esprimersi liberamente.
È chiaro sin da subito che la scelta della Cotillard come protagonista è vincente, perché le sue abilità attoriali superano ogni difficoltà e trovano sempre un modo per far emergere un film dal pantano in cui rischierebbe, altrimenti, di affondare totalmente. In una trasposizione complicatissima come il Macbeth di J. Kurzel, l’attrice francese riuscì (insieme ad un altro interprete maestoso come Fassbender) a coinvolgere lo spettatore pur in un contesto attanagliante e macchinoso, e qui – anche se in vesti totalmente diverse – fa lo stesso con la sua Gabrielle. Ci vuole un po’ di tempo, ma quando la caratterizzazione della donna prende forma la nostra attenzione è rivolta al modo in cui la storia possa evolvere, e a quanto l’indole di Gabrielle possa riuscire a tirare le fila del racconto.
Purtroppo però Mal di pietre è tutto qui. Oltre alla grandezza della Cotillard e all’ottima performance di Louis Garrel, non c’è molto che non sia la turbolenta forza delle emozioni e il ritratto esclusivamente psicologico dei protagonisti, in particolar modo di Gabrielle, il cui andamento altalenante e le corse folli monopolizzano l’opera rendendola però troppo poco attraente. Un simpatico paradosso, considerando quanto sia invece attraente in tutto e per tutto la nostra protagonista, da lasciarsi amare dal pubblico pure nei momenti di assoluta precarietà psicologica.
Il male di Gabrielle pervade il film, lo si percepisce da subito e si sviluppa con effetti a tratti devastanti. Il suo malessere fa a cazzotti col suo desiderio d’amare, al punto di trovarsi invischiata in un altro contradditorio: la necessità di sentirsi speciale, di sentirsi apprezzata è il vero leitmotiv, ma è talmente forte nella donna da esserne spaventata, da fuggirne sia nella sua vita quotidiana sia in quella realtà fittizia che la sua mente sta cercando di creare.
Al suo fianco c’è un marito che resta nell’ombra, che non batte ciglio di fronte ai gesti inconsulti della donna, e fa di tutto per tenersela vicino.
L’intreccio amoroso di Mal di pietre è sui generis, ma – come detto – parte tutto dalla condizione di fragilità di Gabrielle e dal suo particolare background.
La fotografia opaca e scarsamente saturata si sposa perfettamente con il contesto che si vuole rappresentare, partendo dall’epoca dei fatti narrati per finire al genere trattato.
Tutto questo però non fa che contribuire a quella sensazione di claustrofobia in cui a volte Mal di Pietre sembra voler intrappolare lo spettatore, facendolo sporadicamente uscire per poi richiuderlo in un antico cassone pieno di polvere e nel quale si riesce a percepire solamente l’odore di stantio.
Mettendo la testa al di fuori, e guardandoci attorno, vediamo quattro mura con una carta da parati vecchia ed impolverata, e in lontananza sentiamo i lamenti di Gabrielle.
Per uscire da lì, e dalla telecamera, ci vuole qualcosa in più di un’attrice bellissima e straordinaria come Marion Cotillard.
Verdetto:
Mal di pietre è un’opera drammatica in cui la regista Nicole Garcia si affida esclusivamente alla vena artistica della protagonista, la favolosa Marion Cotillard, sapientemente scelta per il ruolo.
Non c’è molto altro purtroppo al di fuori della narrazione della condizione psicologica della donna, e percepiamo spesso la sensazione di trovarsi intrappolati all’interno di quattro mura con una carta da parati vecchia ed impolverata. Ci guardiamo attorno e vediamo solo Gabrielle, che è un bel vedere, ok, ma non c’è molto altro.