Il giusto teorema del dolore
Manchester by the Sea è un film uscito nelle sale statunitensi alla fine del 2016 ma che in Italia verrà proiettato a partire dalla metà di febbraio (l’uscita è prevista il 16, per essere precisi).
Il film, prodotto dagli Amazon Studios, si apre con uno spaccato della vita di Lee Chandler, tuttofare che vive a Boston e che si barcamena con una serie di lavoretti saltuari – dal traslocatore all’idraulico – mentre la quotidianità delle persone con cui entra in contatto, captata attraverso brandelli di conversazione – scorre placida e serena.
Bastano pochi minuti al regista, Kenneth Lonergan, a far comprendere allo spettatore quanto la vita di Lee sia regolare, piatta, monotona. La definizione giusta potrebbe essere vuota, se non fosse che il protagonista della pellicola ha una innata capacità di farsi scivolare addosso le cose. O almeno così crediamo, all’inizio del film.
Il primo vero accadimento che rompe l’equilibrio iniziale e dà avvio alla storia è la morte del fratello del protagonista a causa di un attacco di cuore: nonostante la diagnosi di una malattia cardiaca degenerativa non avesse dato grandi aspettative di vita a Joe – appunto, il fratello di Lee – la sua morte arriva come un fulmine a ciel sereno e costringe il protagonista a tornare nella sua città natale. Così come Lee torna a casa, allo stesso modo lo spettatore fa un viaggio nei suoi ricordi, scoprendo – grazie a dei frequenti flashback – la sua storia.
Le rivelazioni daranno modo al pubblico di entrare maggiormente in contatto con Lee e con il suo passato, mentre il ragazzo è costretto dagli accadimenti a fare i conti con i luoghi da cui è andato via – quasi in esilio volontario – e soprattutto si trova a dover fare da tutore al nipote Patrick, rimasto solo dopo la morte del padre.
Mentre i dialoghi, soprattutto quelli in macchina, tra Patrick e Lee sono molto divertenti, i temi trattati da Manchester by the sea attraverso i sempre più lunghi flashback, ci raccontano di un dolore impossibile da metabolizzare e di quanto possa essere difficile mettersi alcuni avvenimenti dietro la spalle.
Uno dei meriti che vanno riconosciuti al regista, è quello di aver trattato argomenti difficili e crudeli senza mai scadere nell’affannosa ricerca della lacrima facile: il lutto, il dolore associato alla scomparsa e alla separazione, la paternità e in generale la genitorialità vengono rappresentati in una maniera talmente distaccata da esserci trovati, più volte, a immedesimarci in Lee e nella sua apparente imperturbabilità. Pochissimi sono stati i momenti in cui, in sala e sullo schermo, sono state versate delle lacrime. E dire che tutto si può dire di questo film tranne che non sia profondamente doloroso.
A sottolineare i passaggi più intensi, le (piccole) evoluzioni di Lee e della storia, ci sono delle toccanti scene mute, scandite solo da un coro quasi liturgico. I silenzi, in questi attimi, trasmettono alternativamente l’intensità dell’imbarazzo, la profondità delle ferite lasciate dalla vita e il veloce fluire dei pensieri.
Questi momenti, da soli, valgono il prezzo del biglietto.
Casey Affleck, nei panni del protagonista Lee, è sorprendente in questa interpretazione: poche espressioni, sempre accigliato e cupo, incapace di guardare il suo interlocutore negli occhi, si ritrova a essere padre (di nuovo) senza né volerlo né sentirsi in grado di farlo, a gestire (di nuovo) un lutto lacerante e a percorrere (di nuovo) le strade di una città da cui è scappato.
L’attore protagonista e il suo comprimario Lucas Hedges (il nipote Patrick) reggono da soli il film sulle spalle, con i loro dialoghi brillanti e il dualismo padre-figlio (pure essendo zio e nipote e pur avendo spesso le parti invertite, col nipote che dimostra più maturità e senso pratico dello zio). Non per niente sono entrambi candidati agli Oscar nelle categorie rispettivamente del migliore attore protagonista e miglior attore non protagonista.
Le altre nomination sono per Michelle Williams (attrice non protagonista), bravissima nel ruolo dell’ex moglie di Lee e per il regista Kenneth Lonergan (miglior regia e miglior sceneggiatura originale), che con il suo lavoro pulito e senza sbavature e grazie anche alla fotografia di Jody Lee Lipes è riuscito a ricreare egregiamente la malinconia e il dolore dei personaggi anche nelle scene e nelle ambientazioni del film.
Prima di chiudere, ci teniamo a tranquillizzarvi: anche se Manchester by the sea può sembrare un’opera eccessivamente travagliata, la sensazione che si prova all’uscita del cinema è molto più simile a una catarsi da seduta psicoanalitica, quando grazie all’elaborazione di un lutto ci si sente più forti di prima. Anche solo per questa capacità di raccontare e incantare il pubblico, andrebbe visto e consigliato.
Verdetto
Manchester by the Sea è un film sul dolore, il senso di colpa e l’impossibilità di dimenticare le ferite del passato che nonostante i temi dolorosi non cerca mai la lacrima facile dello spettatore. Casey Affleck interpreta magistralmente Lee, un ragazzo chiamato più volte a confrontarsi con i grandi temi della vita, dall’elaborazione del lutto all’assenza, passando per la genitorialità e le responsabilità che ne derivano. Una pellicola tutta racchiusa nella prima scena: una barca, il mare e il cielo grigi, due fratelli e un nipote il la cui sofferenza e supporto reciproci comporranno la trama portante della storia.