Una serie tv che è una bomba!
Spesso Netflix si muove per trend, che spesso crea in prima persona. Qualche mese fa è uscito Mindhunter, un’ottima serie tv che segue le avventure del primo profiler dell’FBI, intento a studiare la psicologia di diversi serial killer per poi gettare le basi di una profilazione scientifica dei criminali, discostandosi dal concetto canonico di movente. Un’ottima serie basata su una storia vera di nuove scienze e psicopatici, per stringere. Manhunt: Unabomber, prodotta da Discovery Channel e distribuita in Italia da Netflix, si muove sugli stessi binari: la nascita di una nuova disciplina, la linguistica forense, durante le indagini per scoprire chi si nasconde dietro Unabomber, uno dei criminali più sfuggenti della storia degli States. I punti in comune tra i due lavori di Netflix e Discovery Channel sarebbero infiniti, e probabilmente proprio per questo la storia di Unabomber è stata messa in ombra dagli importanti nomi dietro Mindhunter.
Manhunt: Unabomber è però una serie davvero bella di quelle che escono un po’ in sordina perché mal piazzate “nel palinsesto”, prendendo in prestito un’espressione della televisione tradizionale, ma che grazie al passaparola degli abbonati è diventata una delle serie più viste dell’ultima settimana.
Per questo motivo, ci siamo dati al binge-watching della serie per voi e ve ne scriviamo a 4 mani.
Siamo nella metà degli anni ’90, l’America è tenuta in scacco da un uomo che, da quasi dieci anni, continua ad inviare pacchi e lettere bomba verso obiettivi apparentemente non collegati tra loro: un rompicapo che neanche l’FBI, coi suoi migliori agenti riesce a risolvere. Ogni approccio tentato dagli agenti, sembra portare ad un vicolo cieco: seguendo il protocollo estremamente rigido per cui solo le prove concrete possono condurre ad una pista ed essere presentate a processo, dopo anni di ricerche inutili, l’FBI si trova sempre daccapo e senza la minima idea su come procedere. Fa a questo punto il suo ingresso uno dei protagonisti della storia: si tratta di Jim Fitzgerald (Sam Worthington), criminal profiler prodigio che ha appena ricevuto una menzione d’onore a Quantico. Attraverso la decostruzione e ricostruzione linguistica dell’idioletto rintracciato nelle tante lettere di Unabomber, l’agente Fitzgerald comincia a tratteggiare un profilo che va nella direzione opposta rispetto a quello finora avanzato dall’FBI, e muove i primi passi in quella disciplina che prenderà, solo dopo la risoluzione di questo caso che ne avvallerà la scientificità, il nome di linguistica forense. Vero turning point della serie è proprio questo nuovo profilo: l’FBI brancolava nel buio, convinta di stare cercando un meccanico poco scolarizzato, mentre il nuovo profilo descrive un uomo con un’importante carriera accademica ed almeno un dottorato in matematica, preso ad Harvard in un preciso arco di tempo, sempre detraibile dall’analisi delle lettere e del manifesto, inviato da Unabomber alle maggiori testate del Paese, dal titolo “La società industriale e il suo futuro”.
La serie, che abbiamo detto essere tratta da una storia vera, si muove su due principali linee temporali: la prima è quella in cui si svolgono le indagini, a metà degli anni ’90 fino alla cattura, quando Unabomber era già attivo da quasi un decennio; la seconda è quella in cui si svolge il processo, quasi due anni dopo la cattura del sospettato, ultima occasione di confronto tra Fitzgerald e Ted Kaczynski (Paul Bettany), l’unico vero sospettato di essere Unabomber. Ritroviamo una sorta di dualismo fatto di incontri e di scontri anche tra i due protagonisti, Fitz e Ted: entrambi due outsider, cresciuti in ambienti differenti, ma entrambi convinti di potere e di volere fare la differenza nel mondo, non rendendosi conto di quanto questo faccia loro terra bruciata attorno. Da una parte un poliziotto che ha lavorato per tutta la vita nella squadra anti graffiti della sua città natale e che si ritrova tra le mani una possibilità di rivalsa: risolvere uno dei casi più difficili di sempre della storia del terrorismo americano; dall’altra un uomo dal quoziente intellettivo di parecchio al di sopra della media, che dopo aver trangugiato un rifiuto dietro l’altro, vede finalmente all’orizzonte l’occasione di vedere riconosciute le sue idee sulla società e su come la tecnologia stia irrimediabilmente corrodendo le fondamenta di questa, a partire dai rapporti.
I due, però, non si incontrano solo sul terreno degli outsider: entrambi, Ted prima e Fitz dopo essere influenzato dal manifesto di quest’ultimo, scelgono di vivere isolati nei boschi, senza elettricità e contatto col resto della collettività.
Vengono due storie umane commoventi, a conferma del fatto che dietro ogni “cage of rage” c’è sempre una storia dolorosa e difficilmente comprensibile dall’esterno. A questo provvedono le brillanti prove attoriali dei due attori, soprattutto di Bettany che restituisce al pubblico l’immagine di un uomo pieno di rabbia e sofferente, ma insieme ferito e comprensivo, che non avendo capito come gestire i rifiuti accumulati, il suo genio e la sua malattia mentale, si ritrova vittima di questo impulso a distruggere ed autodistruggersi.
I due uomini arriveranno, seppur da punti di partenza diversi, ad una stessa conclusione: non è possibile liberarsi in toto del sistema in cui la società ci costringe e categorizza sin dal giorno in cui nasciamo, rendendoci automi e pecore, come lo stesso Ted specifica più volte nel corso delle puntate.
Come ogni opera che si impernia sui personaggi, Manhunt: Unabomber può vantare due attori principali di spessore, che perfettamente riescono a rendere il ventaglio di emozioni, psicosi e turbamenti che definiscono i due personaggi principali. A fianco di questi abbiamo Chris Noth nei panni del supervisore della task force dell’FBI impiegata in questa caccia all’uomo, e 3 donne che si alternano al fianco di Fitz, ma che appaiono fioche quando sullo schermo sono presenti i due protagonisti. Nonostante questo appare fisiologico come, in un racconto che mette al centro determinati personaggi piuttosto che altri, i primi abbiano semplicemente più spazio di manovra al netto delle particolari capacità attoriali dei singoli.
Verdetto
Manhunt: Unabomber è una di quelle belle serie tv che non ti aspetti, per poca cura nel marketing piuttosto che per limiti del prodotto stesso, e che grazie a Dio vengono infine salvate dal passaparola. Ben recitata e costruita, forte di una storia vera a fare da scheletro al tutto, il racconto della caccia a Unabomber scorre via senza stridii, in una cavalcata avvincente. Consigliata a chi? A tutti, chiaramente. E poi, data la struttura potenzialmente antologica di Manhunt, non ci dispiacerebbe vederne altre!