“Per essere persone che dovrebbero amare incondizionatamente, abbiamo davvero un sacco di condizioni”

Pensate ad un mondo dove la caducità delle relazioni umane e l’inafferrabilità delle emozioni la fanno da padrone, dove l’Io viene annichilito dalla passività dell’esistenza e per poter riuscire a creare qualcosa bisogna superare la plasticità delle catene sociali che ci intrappolano.

Cary Joji Fukunaga ha deciso di dare alla luce, assieme a Netflix, una miniserie di pregevole fattura, volta a ricordarci proprio quanto possa avere valore l’interazione umana e la comunicazione in un’epoca dove l’apparenza prevale sulla sostanza e la comunicazione è ipocrita.

Maniac, creatura di Fukunaga composta da 10 episodi totali, è un mondo a noi tristemente familiare, quasi contemporaneo, dove un’effettiva collocazione temporale è impossibile, abitato da anime soggiogate dalla società nichilista che si nutre della “vacua concretezza” della forma, erranti in un moto perpetuo dove l’inconscio è incapace di sognare.

Tra queste anime dal passato sfregiato vi sono anche Annie ed Owen, rispettivamente interpretati dal premio Oscar Emma Stone e Jonah Hill (The Wolf of Wall Street), entrambi fortemente provati da situazioni familiari e personali disastrose, desiderosi di dare una concreta svolta alle proprie vite prendendo parte al programma di una nota casa farmaceutica ideato per curare la depressione che affligge la stragrande maggioranza delle persone del pianeta, attraverso un viaggio nei meandri della mente.

 

Non voglio soffermarmi troppo sulla genialità di Hill, il quale riesce con disarmante semplicità e delicatezza a mostrarci schizofrenia e BPD, o sull’incredibile bravura di Emma Stone (numero uno assoluta nell’Olimpo di Hollywood in questo momento) che ci dona una ragazza fragile, borderline, senza seguire i soliti cliché triti e ritriti, incapace di scappare dai fantasmi del suo passato, ma in grado di farci sciogliere ogni volta che vediamo delle lacrime incorniciare il suo viso di porcellana.
D’altronde il cast scelto dal cineasta padre di True Detective, L’alienista e Beasts of no Nation, partiva con i pronostici del risultato a proprio favore (rispettando tali aspettative), ma è qualcos’altro che, a livello di regia, ha affascinato tutti i Netflix addicted.


Maniac infatti, nonostante un inizio affascinante, seppur leggermente ingarbugliato ed estraniante, pronto tuttavia a partire del tutto dopo la terza puntata, mantiene una consistenza nebulosa, ma esageratamente tangibile, dall’inizio alla fine.
Sarà il tema della mente e della cura della depressione, saranno gli universi onirici attraversati dai nostri protagonisti (che si alterneranno tra mondi fantasy, polizieschi e spaccati grotteschi), sarà la fotografia fortemente influenzata dalla cultura vaporwave (Stranger Things ringrazia), ma l’illusione costante, o trip che dir si voglia, che ci fa vivere Fukunaga mantiene una concretezza vivida, capace di inanellare in continuazione domande e rebus pronti ad essere risolti in un crescendo finale di emozioni.

Le meravigliose ambientazioni che si alternano sullo schermo, con un dentro/fuori le menti di Allie ed Owen, in combinazione con ambienti interni labirintici, ostici, a rappresentare la vita complicata che li attende fuori, e gli esterni “liberi” sinonimo di fuga, sono perfettamente bilanciati, tanto quanto i colori adoperati nella fotografia.
La palette di Maniac prevede molti grigi “cittadini”, intervallati da viola, blu, verde e altri colori fluo tipici della corrente vapor, sia per estremizzare il contesto del subconscio, sia per aumentare la costante alienazione dello spettatore, il quale, nonostante si troverà a dover ostracizzare la propria anima dall’ambiente presente su pellicola, dovrà per forza di cose cedere all’idea di essersi ritrovato almeno una volta nella vita in queste realtà estranianti.

La sperimentazione del cineasta di origini giapponesi non si limita a trasportarci in un’ambientazione distopica degna dei migliori racconti di Dick, ma va oltre, proponendoci uno spaccato di una realtà dove coloro i quali sono devoti alla causa del riuscire a trovare una cura per i “mali dell’umanità” finiscono essi stessi vittime dei suddetti mali.
Il sistema, infatti, ha inghiottito anche i vari James K. Mantleray (Justin Theroux) ed Azumi Fujita (Sonoya Mizuno), creatori del progetto che ingloberà la Stone ed il suo compagno di viaggio, ponendoli sullo stesso identico piano dei soggetti di studio, destrutturando nuovamente il mondo che ci appare sullo schermo, riallineando i pezzi del puzzle a proprio piacimento.
Un mondo dove persino gli apparenti, asettici computer iniziano a comprendere il significato di “essere umani”.

Ovviamente un simile viaggio non può non avere una degna colonna sonora, ed in questo caso è Dan Romer il genio e l’estro dietro la creazione di queste meravigliose sinfonie che ci accompagneranno durante tutta la proiezione.
Una costante dicotomia sonora che alterna attimi di thanatos distruttivi, caratterizzati da archi in costante crescendo e fagotti dai toni riecheggianti nell’infinità degli spazi della mente, e nei limiti delle strutture reali, contrapposti alle dolci sonorità di piani, xilofoni e flauti pronti a conciliare gli attimi di apertura, i confronti piacevoli, i riavvicinamenti costanti di queste due anime frastagliate.

Maniac è molto più di una semplice serie TV: è un mondo a sé, dove i protagonisti daranno vita al doloroso e sofferto cammino per scacciare i propri demoni.
Ed in sostanza entra di diritto nell’elenco dei Must di casa Netflix, offrendoci un incredibile viaggio onirico, iniziato non solo per farci scoprire gli angoli più remoti della mente umana, ma anche per riscoprire il valore dei legami umani, ora vuoti e vani, seppur non completamente perduti.

Il tutto viene condito da una regia potente, affascinate, quasi sperimentale per la sua capacità di attingere da vari stili, una fotografia ed una colonna sonora avvolgenti, e due eccezionali artisti in grado di mostrarci creature perse e sofferenti destinate a trovarsi, tornando a dare importanza ad un abbraccio o uno sguardo amichevole.
Perché d’altronde si sa, se due anime sono nate per incontrarsi, non possono far altro che viaggiare insieme.

maniac

Se vi è piaciuto Maniac…

Se siete rimasti affascinati dal mondo di Maniac, non potete fare a meno di vedere un piccolo capolavoro come Eternal Sunshine of the spotless mind, con Jim Carrey e Kate Winslet.
Invece, se non siete sazi di meravigliose storie d’amore capaci di farvi sognare, con la sensazionale Emma Stone come protagonista, dovrete assolutamente avere l’opera che l’ha consacrata definitivamente ad Hollywood: La La Land. Per concludere, tornando ad ambientazioni distopiche e fotografia vapor, seppur cambiando totalmente genere, ma non la forza del “trip”, The Neon Demon (qui la recensione) del cineasta norvegese Refn è la scelta migliore da fare.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.