Catabasi nel mito della magia nera, tra evocatori, scheletri e morti viventi
La paura è qualcosa di strano. Da un lato essa è sentimento, sotto molti punti di vista, sano e razionale, che ha permesso agli esseri umani di conservarsi e progredire. Dall’altro è un istinto feroce, che porta le persona a temere cose innocue e causa scatenante di tensioni e conflitti.
Quante volte, da bambini, ci siamo ritrovati di fronte ad essa? Incarnata in varie forme, da oggetti, situazioni e luoghi diversi per ognuno di noi, ma che suscitavano in ognuno di noi le stesse reazioni, narrata nei racconti che ci accompagnavano verso il sonno. Crescendo, abbiamo trovato nuove storie con cui confrontarci, nuovi modi di intendere la paura, ma una costante con quelle favole che ci venivano narrate da bambini è rimasta: figure che dalla paura traggono il loro potere, così come da due delle maggiori cause scatenanti di essa, la morte e l’oscurità: i negromanti.
Oggi è impossibile non pensare all’intero genere fantasy e alla sottocultura derivata da esso senza pensare alla figura di questi esseri malvagi, antichissimi, capaci di piegare le leggi del tempo e della vita al loro volere per poterne fare ciò che desiderano. Eppure, come spesso accade nella letteratura, il “ruolo” del negromante non nasce dall’oggi al domani, ma è frutto di un percorso e di un’evoluzione lunga secoli, che ha differenti manifestazioni in ogni angolo del globo e che si è tradotta, per noi, nel brivido che ci corre lungo la schiena a sentir parlare del Negromante di Dol-Guldùr, nell’esorcizzare questa paura costruendoci un mazzo nero di Magic, fino ai giorni più recenti, scegliendo il negromante nel corso delle nostre partite a Diablo II… e ben presto in Diablo III. Proprio in occasione di un recente test della nuova classe del capolavoro Blizzard, abbiamo allora ripreso la nostra copia del Necronomicon (quella giusta delle tre), e ci siamo spinti in un viaggio oltre il velo dell’esistenza in cui, se vi va, vorremmo ci accompagnaste. Una discesa nell’incubo: una catabasi, un viaggio dentro quell’abisso da cui il negromante trae la sua forza e la capacità di incutere terrore in tutti noi. Un viaggio che per molti, irretiti dal fascino di questa figura oscura, potrebbe essere senza ritorno.
Una storia tra inferno e terra
La negromanzia è strettamente legata alla morte: nei fatti, essa si manifesterebbe nel corso dei secoli come un tentativo da parte degli esseri umani di richiamare sulla terra gli spiriti dei defunti per poter ottenere dei vaticini, ovvero degli scorci del futuro. Nel tempo il suo concetto è stato ampliato a quello di magia nera, allo stringere patti con divinità maligne e demoni allo scopo di aver in cambio della propria fedeltà potere e conoscenza.
Nella maggior parte delle culture questa pratica era condannata, visto che solo gli dei potevano governare le anime e richiamarle dall’aldilà, ma ciò non toglie che essa fosse comunque diffusa. La morte è una paura umana ancestrale: da sempre noi esseri umani l’abbiamo rispettata e sfidata, talvolta persino bramata. Ma soprattutto temuta.
Un timore che si è manifestato in centinaia, forse migliaia di forme diverse. Forse è dovuto al fatto che i morti sono e saranno sempre più dei vivi. Forse perché la morte, o meglio ciò che essa rappresenta, è qualcosa di estraneo alla vita, e tutto ciò che viene dopo di essa non può che essere spaventoso e alieno alla nostra mente. Ed è così che, poco alla volta, l’idea di figure capaci di avere un controllo sulla morte si è fatta strada nel mondo. A diverse latitudini, in luoghi molti diversi nel mondo, possiamo trovare figure di divinità evocate con lo scopo di richiamare i defunti e ottenere da loro conoscenze, potere o semplicemente conforto per un lutto per cui non si era pronti.
Questa pratica può comunque distinguersi in due diverse forme: una che potremmo definire “istituzionalizzata”, quindi perpetrata da un sacerdote che grazie al potere di una divinità riesce a richiamare i poteri del mondo sotterraneo per ottenere un vaticinio (ad esempio la Pizia, l’oracolo di Delfi, che diventava tramite del dio Apollo per ottenere delle previsioni sul futuro) e una “popolare”, nata dal basso tra la gente comune, come i “beneandanti” tipici del Friuli, pellegrini che nella tradizione locale avevano poteri sia buoni che malvagi, comparendo nelle storie sia come taumaturghi che come negromanti.
Dapprima la negromanzia nasce con l’idea di poter comunicare col defunto, chiamarlo a sé per poter avere conforto durante un lutto. Basti pensare a tutte quelle forme di sciamanesimo che già nella preistoria vedevano il cacciatore mettersi in contatto con lo spirito di un compagno defunto. Ma l’idea che il mondo degli spiriti fosse accessibile è rimasta radicata nella società umana anche in seguito, quando si è evoluta per creare civiltà, diventando talvolta, la base di culti fiorenti e fondamentali per quelle popolazioni, evolvendosi presto da qualcosa in più di una semplice comunicazione con l’aldilà. Richiamare i defunti, entrare in contatto con loro diventava un tentativo di ottenere conoscenze, in principio, mutandosi quindi in qualcosa di differente, una vera e propria ricerca del potere donato da entità degli inferi.
In Babilonia, ad esempio, erano molti i culti che si basavano sulla comunicazione con i defunti: i sacerdoti della Mesopotamia realizzavano riti volti a ottenere dei vaticini dagli spiriti, noti come Manzazuu o Sha’etemmu. Anche presso gli israeliti si compivano riti negromantici (benché venissero considerati come una profanazione e perciò considerati un peccato), come ci viene testimoniato dalla Bibbia: celebre è il passaggio in cui, su richiesta di re Saul, la Strega di En-dor, evoca lo spirito del profeta Samuele per conoscere il futuro (Sam 28,7-25). La tradizione ebraica riteneva che lo spirito del defunto restasse vicino alla propria salma prima di raggiungere Sheol per circa un anno, e che alcune persone potessero entrare in comunicazione coi defunti, facendo da catalizzatori, parlando quindi con la loro voce tramite la propria bocca.
Nella tradizione biblica sono molte le figure in grado di governare gli spiriti, alcune anche di spicco: tra questi vi sarebbe stato anche il saggio re Salomone, il quale avrebbe avuto la capacità di ricacciare i demoni negli inferi e di intrappolarli, costringendoli a edificare il Tempio. Le pratiche negromantiche non erano radicate solo nel Vicino Oriente: anche in Etruria erano molti i riti destinati a ottenere un contatto con l’aldilà: gli etruschi avevano la convinzione radicata che il mondo ultraterreno fosse qualcosa di materiale, simile alla nostra realtà, e che fosse possibile entrare in contatto con le diverse entità che lo abitavano: dei, demoni e spiriti, intesi come personaggi illustri del passato.
Questa tradizione era così radicata che sopravvisse anche in età romana. Ci sono giunte diverse testimonianze della presenza di numerosi maghi capaci di comunicare coi defunti e compiere diversi tipi di riti ben radicati nella società romana. Tra i reperti che ci sono giunti fino a noi ci sono le “tabulae defixiones”, tavolette di piombo su cui erano incisi dei malefici il cui scopo era quello di utilizzare i defunti come mezzo per affliggere una persona con una maledizione. In un certo senso, questo è il primo esempio moderno di negromanzia: richiamare i morti e sfruttarli per nuocere ai vivi. Le defixiones avevano diversi tipi di effetti, potendo colpire in maniera generica le persone destinatarie della fattura, fino a colpire solo determinate abilità o parti del corpo (una curiosità: spesso queste tavolette contenevano maledizioni volte a un particolare arto proprio del maschio; a buon intenditore…)
Gli spiriti, nella cultura romana, non erano solamente mezzi per diffondere una maledizione: essi erano visti come lo spirito dei propri antenati, ed erano spesso considerati come entità benevole e degne di essere venerate. Il passaggio al cristianesimo renderà questo genere di venerazione e pratiche magiche fuorilegge e motivo di condanna per chiunque le pratichi.
Il rito medievale e la caccia alle streghe
Nonostante questo, nel medioevo le figure di sedicenti maghi capaci di richiamare i morti sembrano proliferare. La cosa particolare è che anche figure che dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto vengono accusate di essere negromanti. Tra i più noti c’è il caso di papa Silvestro II. Il pontefice era in realtà un uomo di profonda cultura, con interessi che spaziavano dall’etica fino alla matematica, nutrito dagli studi presso alcuni dei migliori mentori del suo tempo. Un simile livello di conoscenze, nel tempo, si tradusse nella sua leggenda nera, quella che lo voleva come uno stregone che aveva ottenuto le suo conoscenza per aver legato a sé un demone chiamato “Meridiana”. Ovviamente tutto ciò era dovuto a tentativi di screditare la sua immagine per motivi politici: in particolare tra i sostenitori dell’Imperatore Enrico IV di Svevia, Silvestro era considerato il capostipite di un’intera linea di papi negromanti, volta a screditare Clemente VII.
Nel corso del medioevo le pratiche di magia negromantica si diffusero per tutto il vecchio continente, nonostante la formale condanna da parte delle istituzioni e della società. Per comprendere quanto fossero disprezzati i maghi, basta ripensare alla Commedia del Sommo Alighieri: Dante racconta il destino di maghi e indovini giunto nell’ottavo cerchio dell’inferno, le Malebolge (Inf. XX). Coloro che hanno cercato di sovvertire l’ordine naturale, tentando di compiere ciò che è proprio solo di Dio (la conoscenza del futuro, richiamare le anime e compiere perciò dei prodigi) si ritrovano ora con la testa girata di 180°, impossibilitati a guardare in avanti e costretti solo a guardare indietro: il contrappasso è palese.
Furono diversi i Concili episcopali che condannarono le pratiche negromantiche, dapprima come una forma di superstizione e in seguito, di fronte alla difficoltà di scardinare il fenomeno, come una forma di idolatria ed eresia. Può risultare contraddittorio, ma oggi sappiamo che buona parte dei negromanti medievali erano persone legate in qualche maniera alla Chiesa, spesso chierici, persone che avevano quindi preso gli ordini minori e quindi con meno obblighi rispetto alla maggior parte del Clero, pur facendo parte di esso. Richard Kieckhefer, noto medievalista americano specializzato in studi religiosi, ritiene che la spiegazione di questo paradosso risieda nella scarsa cultura dei chierici, capaci di rimanere facilmente affascinanti da pratiche mistiche. Questo si traduceva in una somiglianze delle pratiche di preparazione ai riti magici: preghiera e astinenza erano parte della negromanzia come della vita del chierico.
L’atto di eseguire necromanzia nell’età medievale era dunque molto diffuso, e prevedeva l’uso di cerchi magici, esorcismi e sacrifici come quelli mostrati nel Manuale di Monaco di Magia Demoniaca:
– i circoli magici erano solitamente tracciati a terra, ma anche scritti su stoffa e pergamena se destinati a essere utilizzati più volte, con rappresentanti oggetti, forme, simboli e lettere con richiami sia alla tradizione cristiana che al misticismo pagano; il loro scopo era sia quello di potenziare e proteggere ciò che era contenuto al loro interno, che di confinare qualcosa. In questo senso assumevano il doppio valore di protezione per il negromante e prigione per lo spirito o il demone evocato;
– gli esorcismi dei negromanti avevano sia la funzione di scacciare gli spiriti che quella di convocarli nel mondo materiale; di solito era impiegato il potere di parole e posizioni rituali per chiamare i demoni, accompagnato dall’uso di preghiere cristiane o versi biblici; queste formule possono essere ripetute in successione finché l’invocazione è completa;
– i sacrifici erano il pagamento per evocare demoni e spiriti; anche se come da tradizione pagana esso avrebbe richiesto la carne di un essere umano o un animale, la maggio parte delle volte l’offerta risiedeva solo in quella di un oggetto dal profondo significato: ad esempio si vedono diverse miniature ed acqueforti in cui lo stregone dona al demone una bibbia per riceverne un testo di magia nera, o una croce come simbolo della propria apostasia nei confronti dei valori cristiani.
Il confine che separa il mago dal mistico in questi anni si fa sottile. Spesso il presunto stregone non è altri che un uomo di cultura, capace di impressionare le persone con le proprie conoscenze dei fenomeni naturali e che per questo riesce a ottenere anche fama e un certo successo fino ad arrivare nelle corti dei potenti.
Anche nei secoli successivi, con l’inizio dell’età moderna, questo stato di cose non cambia: la regina Elisabetta I d’Inghilterra aveva un proprio mago personale, il celebre John Dee, il quale oltre a numerose conoscenze di fisica, matematica e astronomia, sarebbe stato anche occultista, astrologo e negromante, con la capacità di richiamare le anime dei defunti per riuscire a ottenere vaticini per il bene del regno. Ad esempio, la data prescelta per l’incoronazione della regina sarebbe stata studiata da Dee in base a complessi calcoli, al fine di propiziare al meglio il regno di Elisabetta.
L’età moderna vide un aumento della presa di posizione contro i fenomeni di negromanzia: la caccia alle streghe è uno degli effetti di un rinnovato vigore nella condanna di riti popolari che si traducevano in pratiche di superstizione. Anche l’ingresso dell’uomo nell’età dei lumi, tuttavia, non riesce a sradicare queste attività, che a ben vedere continuano ancora fino ai giorni nostri. Nel corso dei secoli abbiamo avuto diverse figure legate a culti esoterici e attività negromantiche che sono diventati particolarmente noti all’opinione pubblica.
Dal topos della catabasi al patto di Faust
La figura del negromante è inevitabilmente predisposta ad essere facilmente sfruttabile per il suo utilizzo nelle opere letterarie. Abbiamo già citato in un paio di occasioni alcuni riferimenti biblici, ma vere e proprie scene di negromanzia si riscontrano in tutta molte opere di letteratura sin dall’età antica. Un primo esempio potremmo trovarlo nell’Odissea di Omero, dove Ulisse, su indicazione della maga Circe, raggiunge gli inferi in cerca dei vaticini dello spirito di Tiresia, il cieco vate tebano. Qui al tema topico della catabasi (il viaggio negli inferi dell’eroe) si unisce un vero e proprio rito negromantico: Ulisse sacrifica un montone nero per i defunti, i quali, dopo averne bevuto il sangue, riescono a comunicare con lui, dandogli vaticini, informazioni e ammonimenti. Tiresia predice il suo ritorno in patria dopo numerose altre avventure e il modo in cui dovrà placare l’ira di Poseidone, Agamennone gli racconta della sua tragica morte e raccomanda di essere prudente al ritorno in patria, Achille gli ricorda di godere di ogni istante della vita. L’eroe incontra infine lo spirito della madre, a cui si ricollega la tradizione di comunicare con i propri cari estinti, e l’anima del compagno d’armi Aiace Telamonio, il quale rifiuta però di bere il sangue per comunicare con Ulisse, sdegnato dalla mancata assegnazione delle armi di Achille. Anche il defunto che rifiuta di comunicare, dopotutto è parte dei rischi della negromanzia.
Anche nella letteratura romana resta presente il tema della negromanzia, come nell’Eneide di Virgilio; anche qui alla catabasi dell’eroe si accompagnano una serie di riti per poter comunicare con i defunti, volti a conoscere il destino di Enea e della propria stirpe; ma non è nell’opera dell’immortale poeta mantovano l’esempio più di questa presenza.
Opera considerata a torto minore, è nella Pharsalia di Lucano che si consuma una delle scene di negromanzia più impressionanti e più simili alla concezione moderna del fenomeno che conosciamo noi. Il poema narra della fine della Repubblica Romana, con la guerra civile tra Cesare e Pompeo. Nel VI libro, il figlio di Pompeo cerca di conoscere quale piega prenderà il conflitto e chiede a tale scopo consiglio alla maga Erittone. La donna, per ottenere una profezia del futuro, richiama lo spirito di un soldato morto in battaglia, costringendolo a rientrare nelle proprie spoglie per poter parlare. Abbiamo qui un atto di negromanzia come lo intendiamo oggi: un corpo defunto viene riportato in vita dall’azione di una strega per ottenere informazioni sul futuro.
In epoca medievale riferimenti alla negromanzia sembrano fioccare un po’ in tutte le leggende. Oltre a tutte le leggende medievali radicate nella tradizione popolare (molto famose quelle che vedono gli architetti evocare spiriti e diavoli per completare opere di vario tipo, come il ponte Gobbo di Bobbio o il Ponte della Maddalena di Borgo a Mozzano), possiamo riscontrare riferimenti e scene di negromanzia diffusi per tutto la letteratura europea. Nelle lettere, oltre ai riferimenti presenti nella Divina Commedia sul fato dei maghi, sono presenti scene di negromanzia vera e propria nel testo di un anonimo autore germanico, il “Ludus de Antichristo” in cui il falso profeta riesce a convincere il mondo di essere il Messia compiendo dei miracoli tra cui l’apparente resurrezione di un morto.
Celeberrima figura della letteratura medievale, legata a doppio filo con i riti negromantici è quella di Merlino, il saggio stregone consigliere di Artù. Secondo le leggende, la nascita di Merlino sarebbe da imputare all’unione tra la propria madre, ancora vergine, e un demone, da cui deriverebbero tutti i poteri del mago, tra cui quello innato di prevedere il futuro. Ma è solo con l’età moderna che il mondo della letteratura conosce quella che è la più nota figura di negromante di sempre, il Faust.
Il personaggio sembra avere alcune basi storiche: potrebbe essere ispirato a Johann Georg Faust, un sedicente mago e alchimista itinerante di cui si hanno diverse notizie a cavallo tra il XV e il XVI secolo. La prima opera ispirata alla sua leggenda è un racconto tedesco privo di un autore. Di poco successivo (siamo alla fine del XVI secolo) viene messa in scena per la prima volta l’opera teatrale di Christopher Marlowe, “La tragica storia del Dottor Faust” (dove il personaggio è in realtà ispirato al già citato John Dee). La figura del dottor Faust (o Faustus) è quasi quella di un eroe romantico con una venatura titanista: arrivato al limite dei tutte le conoscenze umane e ancora desideroso di conoscere, Faust inizia a percorrere la strada della magia nera, arrivando ad evocare il diavolo Mefistofele. Con questo essere infernale come tramite, lo studioso arriva a stringere un patto con Lucifero: in cambio della sua anima immortale, Faust otterrà ventiquattro anni di vita mortale, durante i quali otterrà i servigi di Mefistofele come fosse un suo servo.
Il patto viene suggellato col sangue (nonostante un ultimo disperato intervento divino, grazie al quale la ferita che lo studioso si apre sul braccio si rimargina, mentre il suo sangue forma la scritta “Homo, fuge” /” Fuggi, uomo!”) ed è così compiuto. Tuttavia Faust non riesce a sfruttare questo patto, ritrovandosi in un’impasse per cui, da un lato, non può sottrarsi al patto (il suo più grande errore è quello di essere cieco di fronte alle possibilità di redenzione) e dall’altro non può sfruttarlo, anche per colpa dell’inaffidabilità di Mefistofele, il quale non sembra voler rispondere in maniera diretta e sincera alle sue domande. La figura del Faust verrà ripresa da innumerevoli altri autori, tra cui Johann Wolfgang Von Goethe, che riprenderà quegli ideali romantici già presenti nel Faust di Marlowe fondandoli però con altri tipici della corrente tedesca dello Sturm und drung.
Il Faust che nasce dagli scritti di Goethe è un personaggio complesso, talvolta difficile da identificare con la figura del negromante a cui siamo abituati tutti noi. Il canone del Negromante come stregone oscuro, attorniato da servitori diabolici e dotato di poteri apparentemente sconfinati, ha una delle sue massime espressioni nelle epopee high fantasy, iniziate con la stesura delle opere di Tolkien.
La moderna Negromantica, da Tolkien alla Rowling
Come successo per altri topoi del genere fantasy, il negromante viene codificato dalla figura di Sauron, in un processo mitopoietico che mescola tradizione storica e tradizione cristiana. Le origini di Sauron sono contraddittorie, poiché negli scritti di Tolkien sono diverse le sue origini: viene indicato talvolta come spirito, altre volte come un Eldar (un elfo, per i profani), ma nella versione finale de “Il Silmarillion”, egli è indicato come Maiar di Aulë il fabbro.
Irretito in tempi antichissimi dal primo signore oscuro, Morgoth, Sauron rimase fedele al suo maestro fino alla sconfitta, in seguito alla Guerra dell’Ira. Dopo un apparente pentimento, il futuro Signore di Mordor, assunse un aspetto gradevole nel tentativo di entrare nelle grazie dei popoli della Terra di Mezzo e governarli in maniera più sottile del proprio antico padrone, cercando di irretire i loro cuori ed entrare nelle loro menti. Anche al momento della sua prima sconfitta, quando il re di Numenor Ar-Pharazon il Dorato lo costringerà a prostrarsi e seguirlo in catene sulla propria isola, Sauron utilizzerà tutta la propria astuzia per soggiogare la mente del sovrano, arrivando al punto di convincerlo a creare un tempio dedicato a Morgoth.
Già qui vediamo numerosi riferimenti alla figura del negromante nella storia e nella tradizione: il saggio, irretito dalle lusinghe del potere (come i chierici che praticavano magia nera) che riesce a insinuarsi nella mente dei potenti, diventando loro consigliere, restando tuttavia per sempre legato al mondo degli inferi, a quell’Avversario che nella mitologia di Arda è rappresentato da Morgoth, il Valar caduto.
Con la caduta di Numenor prima e la sconfitta da parte dell’Ultima Alleanza poi, Sauron perde il suo corpo materiale, ma resta per sempre legato alla Terra di Mezzo grazie al potere dell’Unico Anello. A questa tradizione si rifanno tutte le figure successive del Lich, il negromante che grazie a un rito magico riesce a legare la propria anima alla terra per mezzo di un oggetto, il filatterio, permettendogli di ottenere una forma non morta che ne garantisca l’immortalità, jolly giocato da qualsiasi master pigro durante una sessione priva di plot twist soddisfacenti. Oltre a Sauron, un’altra figura di negromante giunto a questo risultato è lord Voldermort, il quale riesce a diventare immortale spezzando la propria anima in diversi frammenti relegati negli horcrux.
Dalla letteratura al videogioco
La fortuna di questa figura trascende molto presto la letteratura, per arrivare a tutti i mezzi di comunicazione moderna, dai fumetti (potremmo pensare agli Apostoli presenti nel manga Berserk, come un’interpretazione personale del mangaka Kentaro Miura della figura dei negromanti) fino ai videogiochi, dove l’unico limite sembra essere quello dell’immaginazione.
Negli anni il panorama videoludico ci ha regalato una miriade di stregoni oscuri con la capacità di controllare le forze dell’oscurità e piegare al proprio volere le leggi della natura. Tra tutti, è quasi impossibile non citare Zarok, nemesi di Sir Daniel Fortesque, che con i suoi poteri riesce a riportare in vita i morti, far sprofondare l’intera Gallowmere in una notte eterna, controllare dei demoni selvaggi (e animare delle gigantesche zucche carnivore…).
Sotto alcuni punti di vista, e tralasciando l’omonima classe già citata in apertura, considerando Diablo, potrebbe essere lo stesso villain dell’omonima serie videoludica egli stesso un negromante. Certo, rispetto ai personaggi analizzati finora Diablo non è un umano che ha ottenuto i propri poteri in cambio dell’anima o del servizio nei confronti di un essere superiore. Ma è bene ricordare da cosa trae la propria forza il terzo dei figli di Tathamet: dalla paura. In un certo senso, questo fa di Diablo un negromante puro, qualcuno per cui la paura stessa è il mezzo e il fine ultimo a cui ambire. E lo strumento perfetto per mettere sotto giogo il genere umano. Forse un volo pindarico particolarmente arzigogolato, ma visto che si è parlato solo di incubi lasciateci un attimo divagare. Perché in fin dei conti, quale che sia la sua incarnazione, il negromante era e resta una delle figure con cui ogni nerd ha sempre avuto a che fare. Dal cinema, passando per i fumetti, nei videogiochi e nella letteratura, i negromanti erano e restano figure terribili da affrontare, esseri capaci di evocare le peggiori paure dell’animo umano ma anche figure affascinanti, aberranti nella loro natura, ma pregne di quel mistero, di quello charme, che da sempre spinge l’uomo studiare ed interrogarsi sulle ombre che circondano l’esistenza. Il negromante è l’archetipo della più sincera fascinazione per l’ignoto, per il tema taboo della morte, che nella sua evidenza, e nel suo mistero, ci porta spesso a interrogarci sul senso della vita e che, come avrete capito, ha ispirato l’uomo sin dalla notte dei tempi. Una notte oscura, perché il buio copre tutti, indistintamente.