Mary Shelley: Il femminismo secondo Haifaa al-Mansour
Presentato in anteprima mondiale a Toronto nel settembre 2017, Mary Shelley – Un amore immortale arriva nelle nostre sale con quasi un anno di ritardo (al cinema in Italia dal 29 agosto), dopo essere approdato in quelle statunitensi nel maggio scorso.
La pellicola è diretta dalla saudita Haifaa al-Mansour, che si confronta per la prima volta con un’opera di respiro internazionale ed un cast di spessore.
La regista ci narra la storia della celebre Mary Shelley, al secolo Mary Godwin-Wollstonecraft (qui interpretata da Elle Fanning), e autrice di quell’opera leggendaria che prende il nome di Frankenstein (o Il moderno Prometeo). Lo fa con un racconto intimista, che parte dalla difficile fase post-adolescenziale della ragazza, che deve cercare di far convivere il suo amore per la scrittura e per le “storie di paura” con la mentalità chiusa dei primi dell’Ottocento, che vedeva la donna estromessa da qualsiasi tipo di forma artistica.
Concezioni purtroppo familiari ad Haifaa al-Mansour, in quanto prima regista donna dell’Arabia Saudita, e che di certo hanno pesato a livello strutturale e nel modo emozionale di narrarci la storia della Shelley, a partire dai suoi turbamenti, dall’infanzia difficile, sino alla volontà di uscir fuori dagli schemi quasi per necessità, proprio per contrastare i dettami bigotti della società. È fin troppo estrema la caratterizzazione della sua Mary Shelley, ma la regista ci fa presto intuire che gli atteggiamenti ribelli (che ovviamente vanno contestualizzati con l’epoca dei fatti) sono spesso esasperati dal contesto falsamente puritano in cui vive, e non sempre si sposano con un’indole che appare, in fondo, romantica e pacata.
Più che un reale racconto della vita della Shelley tutto questo ci sembra infatti un’allegorica visione della società, soprattutto dei paesi arabi, ma non solo. Haifaa al-Mansour prende in esame la particolare storia d’amore tra Mary e Percy Shelley (Douglas Booth), e nonostante a volte si lasci andare a qualche estremismo di troppo, raffigurando in maniera quasi macchiettistica le sfumature caratteriali di alcuni personaggi, come lo stesso Percy o Lord George Byron (Tom Sturridge), è proprio l’altalenante ma passionale rapporto tra i due amanti a rendere il tutto interessante, con lo spettatore che si gode lo sviluppo della love story come fosse in cima ad una montagna russa.
Purtroppo al di là di questo, non ci sono molti altri spunti che possano rendere intrigante il racconto, che corre in maniera troppo lineare su binari preimpostati e da cui la regista non esce quasi mai.
Il compito di portare a conclusione i 90 minuti dell’opera sta proprio al citato rapporto tra i due e ai personaggi che li circondano, e ad espedienti un po’ noiosi in quanto ripetitivi, come i futili discorsi tra poeti e compositori, alle tante bottiglie di vino e a quegli eccessi che la regista ci lascia intuire ma non ci mostra mai. Perché è tutto, appunto, troppo ordinario, misurato, compassato, ed alla lunga stanca.
È in questo contesto affascinante ma statico, ad ogni modo, che fuoriesce con fatica il femminismo. Quello di cui Mary Shelley diventa una sorta di icona, di pioniera, dipinta in un’accezione fin troppo beatificata della scrittrice, pressoché priva di difetti, al contrario di un ambiente chiuso e perfido in cui tutti i personaggi hanno una sorta di doppia faccia.
L’impronta eccessivamente teatrale data al film trova, se non altro, l’adeguata congiunzione con una scenografia curata nel dettaglio, e una fotografia mirabile affidata a David Ungaro, un altro di quelli che di gavetta ne ha fatta tanta ed ha maturato molta esperienza nel settore. Quando fai l’assistente operatore per un’opera gigantesca come Lès Miserables (2012), e il tuo occhio sa rubare a sufficienza, dirigere la fotografia in Mary Shelley è un gioco da ragazzi.
In ultima analisi, ci sentiamo di applaudire comunque la dolce Elle Fanning, che ormai da tempo non è più una sorella di, ma dimostra di volta in volta il proprio talento, in opere anche totalmente diverse tra loro (pensiamo a Mary Shelley e a Neon Demon, ad esempio), risultando sempre incredibilmente amabile e composta, ma efficace.
Verdetto
Haifaa al-Mansour, prima regista saudita donna, ci narra la storia di Mary Shelley, dal post-adolescenza alla storia d’amore tormentata con Percy, in quel mondo di inizio Ottocento in cui il ruolo della donna era relegato a mansioni casalinghe e non era certo prevista alcuna forma d’arte.
Il racconto di Al-Mansour però è sin troppo lineare e si perde nell’allegoria del femminismo, generando una staticità ed una teatralità che ben si sposa con la scenografia, la fotografia e gli eccezionali costumi, ma ci regala davvero poco altro.
Se vi piace Mary Shelley…
Dovete assolutamente recuperare Frankenstein, qualora non l’abbiate letto.
Se amate i film sulla vita dei grandi scrittori potreste recuperare Truman Capote di Bennet Miller (2005), col compianto P.Seymour Hoffman, o The Hours (2002), con una irriconoscibile Nicole Kidman nei panni di Virginia Wolf. Oppure, cambiando genere, un classico italiano: Il Postino, di Massimo Troisi.