Quanto c’è di vero e quanto di inventato nella serie di Kojima?
Benvenuti nella terza e ultima parte della discussione tecnologico-etico-speculativa che il miglior Metal Gear di sempre è stato in grado di tirarci fuori. Ci siamo dilungati su aspetti che mai ci saremmo sognati di esplorare partendo da un videogioco, e questo a dimostrazione del fatto che i videogame sono una cosa seria, un mezzo di comunicazione potente e variegato, pieno di sfaccettature che ha tanto da mostrare e ancor di più da dimostrare, per tutti quelli che come noi e voi hanno il coraggio di sbirciare. Stracciamo l’ultimo velo e scopriamo quanto è stato profetico Hideo Kojima nella sua reinvenzione della realtà.
Buona lettura.
Armi biologiche a target genetico
Kojima e soci hanno davvero dato il meglio di loro per creare un’arma biologica ‘intelligente’. Il FOXDIE è un retrovirus in grado di attaccare e attecchire solo se la cellula ospite ha un determinato corredo genetico. Altrimenti il germe è praticamente inoffensivo.
Il suo funzionamento è inoltre un piccolo trattato di nozioni scientifiche e mediche mischiate per sembrare veritiere, con un grande fondo di verità: i retrovirus, esattamente con il FOXDIE, penetrano nel nucleo delle cellule bersaglio e ne alterano il DNA, permettendo quindi la sintesi di nuove proteine, o inducendo le cellule a comportarsi in maniera aberrante, fino alla trasformazione tumorale vera e propria. Nel caso del FOXDIE, il DNA alterato produce una proteina dal nome di TNF Ɛ, Tumor Necrosis Factor Ɛ. Una volta in circolo questa proteina raggiunge il cuore, dove si lega a specifici recettori. Questo legame attiva una cascata enzimatica che si risolve con il suicidio (apoptosi) delle cellulle cardiache. A livello macroscopico, il soggetto colpito subisce un infarto a coronarie indenni… e muore.
Nel corso della saga, Snake viene infettato da questo virus a sua insaputa, appositamente modificato affinché colpisca lui con un tempo di incubazione indefinito. Oltre lui, altri personaggi verranno in contatto con questa spaventosa arma biologica, con esiti altalenanti.
E nel nostro mondo reale, dobbiamo avere paura di una cosa del genere?
Se fate una ricerca veloce, vi imbatterete in un articolo del 1998 che ha fatto un po’ il giro del mondo, seminando un po’ di panico e sollevando un discreto polverone. Si era nel pieno della follia da armi biologiche, con l’Iraq continuamente accusato di nasconderne miliardi e miliardi da qualche parte. E in questo clima di discreta paranoia il Post se ne uscì con un articolo in cui dichiarava che secondo alcune fonti assolutamente ineccepibili, gli Israeliani stavano mettendo a punto un’arma a target genetico, da usare contro i vicini Palestinesi. Ci fu un po’ di finimondo, fin quando poi un certo Doron Stanitsky intervenne: era solo un maledetto racconto che lui aveva scritto e spedito a un giornale palestinese ben 2 anni prima!
La cosa interessante della vicenda è che comunque, l’opinione pubblica, i giornalisti, i lettori e gli umani medi hanno subito pensato che una cosa del genere fosse non solo plausibile ma anche fattibile facilmente. Senza considerare che comunque, geneticamente parlando, Arabi e Israeliani sono molto vicini, quasi cugini, condizione per cui la precisione dell’arma genetica andava un po’ a stemperarsi.
Non tirate un sospiro di sollievo però. L’incubo di un’arma del genere esiste e il problema è stato sollevato già diverse volte, in seno a diversi gruppi di studi tra cui la British Medical Association. L’attenzione si è riaccesa nuovamente grazie agli studi eseguiti da un gruppo di ricerca tedesco, il Sunshine Project, che ha riconosciuto centinaia se non migliaia di sequenze uniche del DNA che distinguono i vari ceppi etnici. Queste sequenze sono chiamate Polimorfismi dei Singoli Nucleotidi e potrebbero purtroppo essere il bersaglio dei retrovirus programmati per ricercarli e attivarsi una volta trovati. Kojima in questo caso ha sondato un abisso che potrebbe tremendamente diventare realtà, perché il vero problema come sempre non è la tecnologia in quanto tale, ma l’uomo che la deve utilizzare.
Microchip impiantabili
Nel deplorevole MGS 4, i soldati nemici imbracciavano delle armi ID-locked, cioè utilizzabili solo se si aveva l’identità che l’arma riconosceva. Il sistema di riconoscimento era un mix di Nanomachines e chip impiantati nei soldati e nei fucili stessi e rappresentava un modo sicuro per evitare che eventuali nemici si appropriassero dell’arsenale sul campo di battaglia.
Nella realtà, tutto questo ancora non sta accadendo, non abbiamo dei chip impiantati sottopelle, anche se alcuni tra noi credono fermamente il contrario. C’è però una verità di fondo che contorna questa storia. In ambito militare e civile la ricerca in questo senso è molto serrata e si sono raggiunti tanti ottimi (per modo di dire) risultati: IBM e Applied Digital Solutions, per esempio, hanno realizzato dei chip della grandezza di un chicco di riso anallergici, impiantabili sottocute che potrebbero contenere i nostri dati anagrafici, il nostro gruppo sanguigno e altre notizie degne di nota. In più potrebbero fungere da sistema di rilevamento GPS, permettendo alle autorità di rintracciarci in ogni momento. L’Esercito americano, e in particolare l’Aeronautica, sta spingendo affinché i soldati siano sottoposti a questi impianti, cercando di estendere l’invito alla popolazione civile.
Sicuramente una cosa di questo genere fa saltare fuori scala tutti gli allarmi anti-paranoia che abbiamo, facendoci pensare all’annullamento della privacy, al controllo da parte di governi superiori di tutte le nostre azioni, fino a restrizioni di ogni genere: tutto grazie a un chip sottocutaneo. Non siamo ancora pronti per una cosa del genere e credo che mai lo saremo…
Metal Gear
Il vero protagonista della saga, per quanto ci siamo affezionati a Solid e collaboratori, resta sempre il carro armato semovente e cattivo: il Metal Gear. In qualunque accezione e in qualunque guisa l’abbiamo combattuto, il suo aspetto è sempre stato aggressivo, la sua stazza imponente e il la sua potenza inarrivabile: un vero mostro di tecnologia distruttiva dal design futurista e slanciato, governato da una spietata intelligenza artificiale.
Se credete che sia tutta una invenzione di Kojima, beh, avete ragione a metà. Per sua stessa ammissione, il game designer concepì l’idea di un carro armato semovente dotato di braccia e testate nucleari negli anni 80 quando imperversava la guerra fredda e tutti erano terrorizzati per una guerra atomica su larga scala. C’è da dire che un progetto del genere, non così tecnologicamente avanzato, va da sé, era stato pensato e realizzato dall’esercito americano negli anni 60. Era un carro armato enorme, dotato di braccia e ‘mani’ composte da due uncini prensili, capace di movimenti di precisione. Alto ben 3 metri e mezzo e pesante oltre 70 tonnellate, il Beetle (questo il suo nome d’arte) si muoveva su cingoli (non era bipede…) e non aveva nessuna funzione bellica. Il suo scopo era quello di aggiustare e sistemare gli enormi bombardieri nucleari che gli americani stavano progettando in caso di guerra atomica. Per questo, la macchina era stata concepita per resistere all’esposizione di enormi quantità di radiazioni, tanto che poi, passato l’incubo delle guerre nucleari fu impiegata per la pulizia e il mantenimento di siti altamente contaminati da radiazioni.
Oggi, la cosa più vicina al Metal Gear a cui possiamo pensare è, MegaBot, il robot americano che ha sfidato la sua controparte giapponese in una sfida all’ultima rotella. E se proprio la cosa vi interessa, potete sempre partecipare al crowdfunding…
Octocamo e la Scatola di cartone
MGS IV si apriva mostrando una delle più belle invenzioni della serie, quella dall’effetto ottico più sorprendente: la tuta mimetica dinamica. Ispirata alla capacità del polpo di imitare il fondale marino per scappare dai predatori o per attirare le prede, la OctoCamo (Octopus-Camouflage) rappresenta il Graal di tutte le truppe d’assalto, un tessuto leggero, malleabile, che si modifica in base all’ambiente circostante, controllabile dal soldato.. e che si stira da solo.
Nel mondo reale una tale bellezza tecnica ancora non esiste, anche se dal 2006 a oggi sono stati fatti dei progressi inauditi. Il 2006 è stato l’anno di svolta grazie alla pubblicazione di John Pendry (Imperial College di Londra), David Shuring e David Smith (Duke University), in cui i tre enunciarono i principi della Transformation Optics e la dimostrarono successivamente nel campo delle microonde. Secondo gli autori, il passo successivo sarà quello di piegare al nostro volere le onde dello spettro visibile, creando quindi il primo sistema di camuffamento perfetto.
E forse in qualche modo, HyperStealth, un’azienda canadese, già leader nel settore delle mimetiche e contrattista dell’Esercito Americano, è riuscita nell’intento di creare il mantello di Harry Potter. Già nel 2010, il CEO Guy Cramer aveva presentato un materiale, lo SmartCamo, capace di sorprendenti effetti ottici, ma ancora comunque in qualche maniera acerbo e non del tutto perfetto. La dimostrazione live dell’efficacia di questa invenzione fu comunque bloccata dall’Esercito degli USA, forse perché evidentemente interessato all’articolo. Sulla base di questa esperienza, nel 2012, HyperStealth ha presentato il suo Quantum Stealth , il non plus ultra della mimetizzazione, capace di imitare ogni pattern, ogni asperità e ogni tipo di terreno possibile, rendendo praticamente invisibile chiunque lo indossi.
Che finalmente abbiamo per le mani il mantello di Harry Potter?
In realtà il vero dispositivo di mimetizzazione, quello totale e ineguagliabile sia nella saga di MGS che nella realtà, resterà sempre la scatola di cartone. Inutile girarci intorno: una volta ‘inscatolati’, siamo completamente invisibili, irrintracciabili, è come se non esistessimo. State ridendo? Davvero? E allora tutti quelli intorno a voi che ci vivono nelle scatole di cartone? Li avete mi visti? Li avete mai notati? No?
E allora erano perfettamente mimetizzati con l’ambiente…
Conclusioni
Che bella chiacchierata che ci siamo fatti, e non posso far altro che ringraziarvi di esser arrivati fin qui. Abbiamo percorso un sacco di secoli di storia, scavando dietro notizie apparentemente banali e trovando connessioni tra un gioco e invenzioni ed eventi storici reali. Credo che un viaggio del genere sia bello farlo, almeno una volta ogni tanto, giusto per riscoprire in maniera leggera e amena la massima di Newton: siamo nanomachines sulle spalle dei giganti…
Se vi siete persi le parti precedenti dell’articolo, eccovi i link: