Colpo di scena: non fa schifo.

Difficile parlare di antipatia quando si pensa ad un gioco. In genere le aspettative possono essere più o meno positive, e al massimo si può rimanere delusi dalla qualità finale. Metal Gear Survive però è lo sfortunato simbolo di tutto ciò che ha fatto arrabbiare i fan della famosa saga di Solid Snake e Big Boss: l’allontanamento forzato di Kojima dalla serie e lo sfruttamento senza alcun riguardo né eleganza del suo lavoro, per creare qualcosa di talmente derivativo, e allo stesso tempo talmente diverso da quello che era Phantom Pain, che risulta quasi dissacrante. Metal Gear Survive quindi è partito con il piede sbagliato già dal suo annuncio, e ora che finalmente è uscito, e noi di Stay Nerd lo abbiamo sviscerato per decine di ore, siamo pronti a spiegarvi perché, pur in mezzo a scelte indiscutibilmente poco felici sul piano stilistico e creativo, Metal Gear Survive in fondo, abbia anche qualcosa di buono da dire.

Terra di nessuno

Survive, a dispetto del nome, prende totalmente le distanze con Metal Gear Solid 5 e nelle premesse della storia, trova gli unici punti di congiunzione. Una ricostruzione “pseudostorica” (questa è la bizzarra definizione che usa il gioco nel suo prologo) ci introduce il nostro avatar, (creato con l’editor non dissimile da quello visto in MGS5), che milita tra le fila dei soldati della Motherbase che persero la vita durante l’attacco finale al quartier generale di Big boss alla fine di Ground Zero. In maniera piuttosto ambigua però, scopriremo di non essere veramente morti, ma anzi portatori “sani” di un misterioso virus che trasforma gli esseri umani in “vaganti”, una sorta di zombie, creature dalla natura ignota che cominciano ad infestare la nostra realtà, comparendo in varie parti della Terra assieme a strani wormhole che sembrano collegare il nostro mondo con un’altra dimensione.

La terra che invece sta al di là di questo wormhole viene chiamata Dite, ed è una landa desolata, polverosa, in cui però curiosamente, troviamo vegetazione, flora e fauna. E poi detriti, macerie, rovine, roba che dal nostro mondo piomba in questo attraverso varchi dimensionali che si aprono e chiudono in continuazione, e altra ancora che pare essere già qui da tempo immemore, definendo un paesaggio che pare famigliare, fin troppo. Inutile infatti nascondere l’ovvio, nemmeno gli sviluppatori stessi ci provano più di tanto.

Il progetto Survive nasce infatti sull’impianto base di Phantom Pain, su tutti gli assets e su tutto quello che c’era già di pronto e servito dal Fox Engine: modelli, strutture, fisica. La coerenza vuole che questo sia giustificato dal fatto che, secondo Konami, questo sia uno spin-off di PP. La realtà dei fatti è che il titolo si discosta talmente tanto e in tutto e per tutto dal titolo di Kojima, che sulle prime, questa cosmesi pare impropria e inappropriata, tanto più che in maniera piuttosto pigra, si inventa poco o niente di nuovo, salvo qualche rara e eccezione. Ma giocando, fortunatamente, questo genere di (lecite) pippe mentali ad una certa si possono archiviare e pensare ad altro. A cosa di preciso? Lo vediamo subito.

Questione di vita o di morte

Insomma, veniamo trasportati in questo Dite, conosciamo Reeve, un militare arrivato qui prima di noi, e scopriamo, con una “supercazzola incrociata” tra lui, una intelligenza artificiale del luogo, e un certo Goodluck (il tizio identico a Laurence Fishburne che ci ha spedito in questa dimensione) che il nostro compito è scoprire cosa è successo alla squadra Caronte, inviata qui prima di noi per indagare sul virus e sulla provenienza di questi mostri/zombie, e nel mentre cercare di recuperare i dati con le informazioni scoperte, e perché no, trovare un modo di tornare a casa. Non solo, come giocatori scopriamo anche dell’altro. Questo gioco, a dispetto di quanto la campagna marketing ci aveva fatto pensare, o almeno quanto io ingenuamente credevo, non è “multiplayer centrico”, al contrario il fulcro dell’esperienza sta nella campagna in singolo, che ben viene separata dalle partite in cooperativa, del tutto estemporanee all’avventura principale, seppur ne condividono le risorse. E proprio queste sono il vero centro nevralgico di questo titolo. Tutto ruota intorno a loro: la nostra sopravvivenza, la trama bislacca (che spesso cerca di scimmiottare in maniera un po’ maldestra lo stile di Kojima), la nostra crescita, e il gameplay. Si tratta infatti di un gioco fortemente legato ad una componente survival nel senso più puro del termine. Sotto il nostro controllo avremo un personaggio in tutto e per tutto simile al vecchio Venom Snake in quanto a movenze e possibilità d’azione (di base ovviamente), ma dalle condizioni fisiche estremamente precarie.

Fame e sete infatti saranno una costante, e sulle prime, una vera seccatura. Dovrete “tirare avanti” procacciandovi la poca selvaggina presente a Dite e bere acqua sporca, con il rischio di prendervi una intossicazione. Più fame avrete, più l’energia massima a vostra disposizione diminuisce. Più siete a corto di liquidi, minore sarà il quantitativo di stamina su cui potrete contare. Questa sensazione di precarietà sarò una determinante strategica molto importante da tenere in considerazione durante le nostre spedizioni, in quanto vi costringerà a pianificare molto bene i vostri movimenti. Sarà necessario infatti tornare spesso al campo base, perché solo qui potrete trattare a dovere cibi e (con il tempo) bevande, ma non solo. Queste spedizioni, che si dividono tra missioni secondarie e richieste principali per far progredire la trama, hanno degli obiettivi simili che si ripetono, e che aumentano di difficoltà man mano che vi si chiede di spingervi sempre oltre questa mappa inesplorata (e inizialmente, non visibile nella sua interezza).

Le sub quest sono zone contrassegnate di blu in cui vi viene indicata la presenza di animali, di superstiti che potrete portare al vostro campo base, utili da reclutare per seguire i vari settori che andranno poi a svilupparsi fornendo nuove risorse, o recuperare la preziosissima energia kuban, valuta universale che insieme ad altri materiali, è necessaria per costruire, aggiornare, migliorare, o riparare il vostro equipaggiamento. Le missioni proposte della intelligenza artificiale invece sono quelle che fanno progredire la vostra ricerca sui misteri di Dite, e spesso consistono nel reperimento di dati abbandonati in zone pattugliate dai vaganti, oppure vi si chiederà di attivare nuovi dispositivi di teletrasporto wormhole o escavatori. In questo caso, si fanno largo le meccaniche da tower-defense. In queste fasi, si attiveranno delle ondate di vaganti (ce ne sono di cinque o sei tipologie nel gioco, ma per lo più vedrete i classici “zombie” antropomorfi) e per un certo tempo dovrete proteggere l’obiettivo, grazie all’ausilio delle numerose unità difensive che potete sviluppare, tra barricate, staccionate, e strumenti molto più avanzati come ad esempio torrette mitragliatrici automatiche. La sfida è sempre piuttosto ben calibrata e settata verso l’alto, e difficilmente riuscirete a sopravvivere in queste sezioni senza utilizzare tutte le vostre scorte di equipaggiamenti in inventario. Su questo versante del gameplay, sicuramente il più dinamico  e coinvolgente del gioco, si basa anche il multiplayer del gioco.

In maniera slegata dalla campagna principale, è possibile entrare in una lobby dove poter organizzare partite con amici o una squadra di 4 elementi improvvisata con il matchmaking. La lobby è il vostro punto di contatto con il gioco in singolo. Qui infatti potete accedere a ogni accessorio, indumento, gadget e arma sviluppata nella campagna, non solo, esattamente come al campo base avrete accesso a tutti i banchi da lavoro per le modifiche prima dell’inizio della partita e ovviamente potrete ripristinare anche le unità di difesa che andrete a consumare durante la missione co-op. Anche perché pure materiali e energia kuban recuperata rimangono comunque in comune. Al momento, l’offerta multigiocatore è limitata alle sole missioni di recupero, in cui a seconda della difficoltà scelta (sbloccabili con i propri progressi personali) dovremmo fronteggiare tre ondate di Vaganti di variabile pericolosità. Cercando ovviamente di proteggere il dispositivo. Essere coordinati ovviamente gioca a proprio vantaggio, ma anche riuscire a ricoprire autonomamente il proprio ruolo dà i suoi frutti, e rende questa modalità non necessariamente soddisfacente solo da un gruppo di persone che comunica tra loro. Anche perché la vera differenza la farà il grado di sviluppo di ogni giocatore per il proprio personaggio. Se inizialmente da soli si è poco efficaci, a livelli più alti il contributo di ogni giocatore può diventare significativamente determinante in virtù degli strumenti  avanzati di difesa con cui può aiutare la causa, come lame rotanti sul terreno o letali torrette automatiche.

Alla fine di ogni partita si vincono equipaggiamenti, un punteggio ed energia kuban a seconda della valutazione del team, e in base ai propri meriti personali, anche qualche premio extra. Tutta roba che torna utile nella propria avventura principale, vista e considerata la comunione dei beni prevista dalle modalità di Survive. Le missioni di recupero co-op sono di per sé piuttosto ripetitive. Poche mappe e modus operandi sempre uguale, che viene rinfrescato solo da alcuni semplici obiettivi secondari, come il recupero di materiali grezzi in giro per la mappa. Fortunatamente, la sfida cambia così tanto tra una difficoltà e l’altra che comunque il divertimento non manca, e il senso di precarietà che trasmette ogni fase di difesa del proprio “quartier generale” rende le sessioni adrenaliniche e coinvolgenti. 

Il senso di precarietà infatti è uno dei fattori per cui alla fine, Metal Gear Survive riesce in qualche modo a convincerci, pur non brillando certo per creatività sotto nessun aspetto. Torniamo un attimo alla campagna in singolo. Oltre alla fame e la sete, dovrete spesso fare i conti con le riserve di ossigeno, in quanto moltissime zone della mappa sono situate all’interno di aree contaminate e irrespirabili. Cosicché dovremmo viaggiare con una bombola che ovviamente minuto dopo minuto, esaurirà la sua utilità. Tutte queste componenti, unite alla deteriorabilità delle armi e il limite numerico delle proprio unità di difesa o munizioni, danno un senso d’urgenza ad ogni spedizione che la struttura di gioco sostiene bene, senza rendere l’esperienza frustrante ma anzi donandogli un quid in più. Ecco quindi che con l’obbligo di pianificare i propri percorsi, di cui abbiamo brevemente parlato prima, l’azione di gioco risulta poco dispersiva e il ritmo sostenuto, nonostante la mappa poco stimolante a livello esplorativo e la sostanziale monotonia delle azioni di gioco, complice anche un sistema di combattimento che varia a seconda del proprio stile e delle proprie armi, ma che risulta sempre piuttosto semplice veloce e funzionale.

Quello che può sembrare un difetto infatti, nella prospettiva del gioco diventa invece un punto a favore. Survive NON è uno stealth.  È possibile sgattaiolare senza farsi vedere, ma la cosa è proposta in maniera blanda e l’utilità sempre marginale. Inoltre, avendo a che fare con dei semplici essere senza cervello, non esistono strategie complesse per agire nell’ombra e più che distrarli e colpirli alle spalle, in quest’ottica non potrete mai fare più di tanto.  Ma questo perché Survive, nonostante l’urgenza e la sopravvivenza sopracitate, incita palesemente ad un approccio action contro tali creature, basti considerare le decine di gadget e armi che il gioco permette di creare con il solo scopo di tenere a bada più vaganti possibili. Senza considerare che il farming di energia Kuban ricavata dai cadaveri dei Vaganti, è una delle componenti fondamentali del gioco. Se Survive comunque riesce in qualche modo a divertire per le oltre 30 ore di gioco previste per concluderlo (e  considerando un po’ di end game), è soprattutto per un sistema di progressione che funziona bene e con un grado di complessità adeguato.

Materiali, energia kuban, reperimento di nuovi equipaggiamenti da riparare, personalizzazione, costruzione di vari reparti del campo base, crescita personale delle skill del proprio personaggio: tutte queste variabili presenti sin dai primi momenti del gioco non smettono mai di intrecciarsi tra loro, rendendosi tutte utili nella generazione di nuovi contenuti. Ogni materia grezza ha più utilizzi, ogni skill può rilevarsi utile con determinate armi, addirittura equipaggiamenti ormai scartati e inutili posso avere nuovamente senso se smantellati o destinati alle squadre che manderete in ricognizione nelle varie aree di gioco (in stile Peace Walker). C’è un riciclo continuo di elementi che non si esaurisce mai, e questo rende sempre stimolante continuare a giocare con l’unico scopo di veder crescere il vostro avatar e di superare con sempre maggior efficacia le condizioni estreme di questo territorio. Survive vi fagocita all’interno di questo circolo vizioso e riesce a non farvi pensare alla relativa povertà concettuale e stilistica del titolo, riuscendo a stuzzicare la vostra voglia “giocare per il gusto di farlo”, senza innescare mai qualche cortocircuito tra gli ingranaggi della progressione che improvvisamente, faccia crollare quest’unico solido perno che sostiene l’intero progetto.

Un ultimo appunto sulle micro transazioni. Sono presenti e i loro effetti sul gioco sono anche piuttosto pesanti, permettendovi di schierare più squadre in ricognizione, di avere più slot in inventario o ricevere per un certo tempo un extra di materie prime. Fanno però parte di quei vantaggi che velocizzano e facilitano le cose, ma non precludono né sviliscono alcun aspetto del gameplay. A mio avviso si può giocare ignorandole completamente in totale tranquillità.

Verdetto

Metal Gear Survive è un gioco cinico, calcolatore e senza cuore. Riesce ad “offuscare” lo sguardo del giocatore con un’arguzia quasi “maliziosa”. Un sistema gestionale ottimamente calcolato, una struttura di crescita del personaggio e sviluppo dei propri mezzi e strumenti, che ricompensa ogni progresso del giocatore, riescono a far dimenticare per parecchie ore la povertà concettuale di questo titolo. Survive infatti, paradossalmente ha avuto il coraggio di stravolgere Metal Gear, ma allo stesso tempo ci va con i piedi di piombo nell’inserire nuove idee all’interno del contesto creato, sia sul piano della sceneggiatura (pretestuosa e dimenticabile fino a quasi la sua conclusione, dove fortunatamente acquista un po’ di carattere) sia su quello del gameplay. Cerca di fare quindi poche cose, ma di farle quanto meno in maniera solida e convincente. Inutile ribadire per l’ennesima volta quanto questo gioco abbia poco a che fare con le opere di Kojima. Se proprio vogliamo fare dei paragoni, possiamo dire che tutto sommato sfrutta bene l’eredità gestionale degli ultimi capitoli della serie (Peace Walker e Phantom Pain), ma male -o più correttamente- per nulla, quella “tactical espionage action”, svilendo totalmente le meccaniche stealth che hanno sempre fatto parte della saga.

L’antipatia quindi per questo titolo palesemente derivativo, dai discutibili meriti creativi, infinitamente inferiori agli standard con cui la saga ci ha abituato, che si presenta come “la pecora nera” di un brand altrimenti privo di anelli deboli, è in qualche modo compensata da un’altrettanta palese diversità di intenti. Uno spin-off troppo stravagante per riuscire ad entrare nell’immaginario che ci siamo costruiti su questa serie, ove anche  i capitoli più fuori dagli schemi, come ad esempio Revengeace, hanno sempre avuto quanto meno un grande carisma che li imparentasse con gli episodi principali. Carisma a cui questo Survive, titolo che usa impropriamente il nome Metal Gear, manca. D’altro canto, a voler esprimere un giudizio tanto freddo e calcolatore quanto si rivela la natura di Survive, non possiamo fare a meno di notare che il titolo va a coprire un genere che su console latita, quello dei survival e dei tower defence, e che lo fa con mestiere e consapevolezza dei propri obiettivi, declinando il tutto in una salsa action dal sapore non così disgustoso come potreste pensare. Incredibilmente quindi, si tratta di un gioco che trova il suo senso di esistere. Che questo sia sufficiente per sorvolare sulla sua genesi e sullo scomodo nome di cui si fregia, è una domanda a cui potete rispondere solo voi.

 

Davide Salvadori
Cresco e prospero tra pad di ogni tipo, forma e colore, cercando la mia strada. Ho studiato cinema all'università, e sono ormai immerso da diversi anni nel mondo della "critica dell'intrattenimento" a 360 gradi. Amo molto la compagnia di un buon film o fumetto. Stravedo per gli action e apprezzo particolarmente le produzioni nipponiche. Sogno spesso a occhi aperti, e come Godai (Maison Ikkoku), rischio cosi ogni giorno la vita in ridicoli incidenti!