Michael Bay, il diavolo di Hollywood che non conosce mezze misure
on è che ci sia molto da fare: Michael Bay o lo si apprezza o lo si odia. Difficile trovare un punto di incontro a metà, una zona franca dove potersi mettere lucidamente uno di fronte all’altro e stilare una lista di pro e contro. Il ribattezzato Diavolo di Hollywood è fatto così, lanciato a mille nella continua rincorsa di un cinema iperbolico e senza compromessi, a suo modo altrettanto radicale, non so, dell’Empire che Andy Warhol girò nel 1965, un’unica lunga inquadratura dell’Empire State Building dalla durata di otto ore e cinque minuti.
E visto che parliamo di iperboli, la produzione di Bay di quell’Empire lì ne è tipo il rovesciamento totale, il riflesso in tutto e per tutto, a partire dal culto della dinamica e del movimento fino ad arrivare al totale inserimento nel flusso della fruizione commerciale. Un’idea di cinema fondata sul controllo, sulla capacità di delimitare gli steccati dello spettacolo pronto a esplodere davanti la macchina da presa che, checché se ne dica, nei film di Bay sa sempre dove posizionarsi e da quale angolatura catturare l’incedere dell’azione.
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Radicale nella maniera in cui è votata al sobbarcarsi il mormorio di una critica che non l’ha mai visto di buon occhio, complice sicuramente il fatto che nei film di Bay convivono quasi sempre un immancabile strato di didascalismo e un impulso registico che ne agisce al di sotto e forse pure al di sopra. Insomma, questo per dire che dall’esordio nel 1995 con Bad Boys fino ad arrivare ora con l’Ambulance che è nelle sale, il cinema di Bay è popolato da marionette leggibilissime, lapalissiane, dalla sfumatura nulla e messe al totale servizio dello strumento che fa muovere il tutto secondo un processo entropico che più prima che dopo porta ogni cosa a collidere. Ha pure un nome questo metodo di lavoro che si è fatto praticamente stile, Bayhem, gioco di parole tra Bay e mayhem, che intende un disordine portato all’estreme conseguenze.
Potremmo dire che calza a pennello e in superficie è così, ma a ben vedere il caos sprigionato sullo schermo da film come il celeberrimo Pearl Harbor (2001) non è altro che partorito dall’estrema consapevolezza di un grandeur fatto di fiamme ed esplosioni colte in quel momento da quei tre, quattro, cinque differenti punti di ripresa. Per capirlo basta forse prendere 6 Underground, la costosissima produzione (stimata attorno ai 150 milioni di budget) a marchio Netflix arrivata in piattaforma nel 2019, per lo più bistrattata a causa delle problematiche di sempre legate alla povertà della scrittura, all’eccessiva ripetitività delle dinamiche e anche proprio per la regia di Bay.
Un approccio al lavoro sull’inquadratura che qui abbandona l’ipermuscolare per cedere direttamente all’astratto, all’avanguardia, dove in un film di poco più di ore sono compresse oltre 7000 shots (su una media che in teoria si aggira sui 3000) che non superano mai i 2 secondi di durata. Un tour de force retinico che frammenta la narrazione visiva portandola alle estreme conseguenze, in un marasma dove lo sguardo non è più chiamato a comprendere o ricostruire, ma solo a percepire. I risultati sono chiaramente più che discutibili, ma è innegabile non riconoscere il fascino per un film che nella sua maniera è per davvero più dalle parti di un blockbuster di stampo sperimentale piuttosto che commerciale.
Che poi di successi nudi e crudi al botteghino Bay ne può vantare eccome, con incassi netti che sfiorano gli 8 miliardi di dollari con tutti quei film che si trovano a cavallo tra la sua carriera registica e quella di produttore. Poi è chiaro che è difficile apprezzare in toto una cinematografia condita spesso e volentieri da un ripiegare troppo su se stessa o il farcirsi di momenti di idiozia ai limiti del tollerabile; per un Transformers (2007) da lodare e venerare, c’è sempre un Transformers 5 – L’ultimo cavaliere (2017) per il quale farsi venire l’orticaria.
Ma nel mezzo di questi colossi a budget sconfinati ci sono appunto anche i vari Bad Boys che non hanno bisogno di presentazioni, il discreto The Island che è quasi un piccolo cult (2003), o 13 Hours (2016), con in particolare quest’ultimo che dietro tutta quella patina tra l’esaltazione dell’eroismo individuale statunitense e un machismo confezionato con lo stampino cela in verità uno dei migliori film d’azione del regista, permeato nel gusto della messinscena da chiare influenze di carattere videoludico.
Per trarre qualcosa dai film di Michael Bay forse l’unico vero modo è avere del pelo sullo stomaco. Uno scendere a patti che per andare a tastare con mano il cuore pulsante bisogna prima superare uno strato respingente di banalità, scelte a basso costo creativo e pure un pizzico di virilità tossica e probabilmente irrisolta. Sotto, sopra, di lato, c’è un signore del caos che governa con assoluta lucidità, che nei suoi termini sperimenta cosa si può fare con le immagini e al contempo si vota all’intrattenimento da popcorn e bibitona.