È possibile trovare dei punti in comune nel lavoro di uno dei più poliedrici autori giapponesi contemporanei?
ella scena dello sviluppo giapponese, non c’è dubbio che una delle personalità più influenti e importanti che la storia dei videogiochi recente ricordi, è Shinji Mikami. Un autore che con il suo contributo alla serie Resident Evil ha sicuramente rivoluzionato il genere del survival horror, ma che in realtà, analizzando a fondo la sua carriera di game designer, si rivela un personaggio estremamente eclettico. Basti pensare che il suo debutto nel mondo dello sviluppo nei primi anni ’90 lo vide al lavoro su titoli targati Disney come Goof Troop o Aladdin su Super Nintendo. Significativi, vista la qualità elevata di questi Tie-in sopra la media per l’epoca, ma anche molto lontani da quella figura votata all’horror con cui è stato superficialmente etichettato dai videogiocatori meno attenti negli anni. Talmente istrionico nel suo talento creativo che è difficile riconoscere un fil rouge autoriale concreto nelle sue opere, forse impossibile, eppure può essere interessante indagare sulla forma mentis e su quei punti fermi che fanno da fondamenta per tutti i videogiochi da lui diretti. Il primo aspetto da considerare è il rapporto tra narrazione e giocatore, non è un caso se i suoi giochi hanno sempre l’imprinting –seriosi o meno che siano- da B-movie.
La genesi di un gioco di Mikami nasce sempre dall’inamovibile esigenza di mettere l’interattività al primo piano, ecco quindi che da Residen Evil a Vanquish, il concept parte sempre da un obiettivo ludico, dallo studio di un gameplay da mettere in primo piano a cui il contesto si deve giocoforza adeguare. Spesso questi sono super affascinanti ma sempre funzionali e subordinati all’esperienza attiva del giocatore. Nella conclusione delle sue avventure c’è sempre un expoit finale che deve essere il tripudio e l’incoronamento delle dinamiche di gioco, anche a discapito del tenore della storia. Molti accusano Resident Evil 4,o The Evil Within, di cedere troppo il passo ad un epilogo rocambolesco, di allungare il brodo e rovinare il ritmo delle esperienze più o meno compassate fino a quel punto e in linea con la cifra stilistica del genere trattato. Ma il punto è che anche quando si tratta di horror, prima di spaventare, il gioco deve DIVERTIRE, ed è importante infine toccare l’apice delle meccaniche di gioco prima di quello narrativo.
Divertimento e passione sono 2 parole chiave per lo sviluppatore giapponese, laddove ogni suo progetto nasce dalle personali attitudini di chi ama miscelare elementi diversi ma intimamente sentiti. Mikami ama gli anime e i manga d’azione, le arti marziali, è appassionato di cinema di genere e di wrestling, ecco perché i suoi personaggi sono sopra le righe, ecco perché possiamo ritrovare nei suoi titoli mille influenze più o meno evidente, e perché non è poi tanto strano vedere un Leon finire gli avversari con un suplex degno di Kurt Angle. Ove si crea coinvolgimento, anche surreale, tra il giocatore e il prodotto che stringe tra le mani, tutto è lecito.
Una passione che passa anche per il medium stesso con cui si confronta professionalmente: God Hand nasce dall’esigenza di dare un degno erede a Final Fight. Proprio in veste di giocatore, la delusione per l’evoluzione del franchise dopo aver provato Final Fight Streetwise spinse Mikami a declinare finalmente il genere del beat’em up a scorrimento verso una deriva innovativa e brillante. E poco importa se il budget a disposizione per questo progetto così personale era risibile. Giochi come questo o P.N.03 erano veri indie d’avanguardia, erano lo stendardo della rivendicazione di seguire la propria vena creativa, per un autore come detto, poco incline alle esigenze politiche e commerciali che muovono l’industria del videogioco, sebbene quando costretto a seguirle, comunque capace di sfornare pietre miliari del videogioco. Risulta pertanto totalmente filologica la sua avversione ai seguiti, come ci si aspetterebbe da una mente così emancipata dagli obiettivi aziendali che muovo l’economia di qualsiasi forma di capitalismo, compreso il medium videoludico.
Con la conclusione del progetto di Resident Evil, solo una totale rivoluzione del franchise, l’idea di poter lavorare ad un videogioco totalmente nuovo, nelle fondamenta, poteva decretare il ritorno di Mikami al timone, che vede il “more of the same” come un mantra bandito dalla propria filosofia artistica. Questo ci porta ad un un nuovo sottile concetto importante nella ludoteca firmata Mikami: l’IMMERSIONE. Quasi un ossimoro nominarla in una pletora di opere che tutto prevedono tranne che una qualsivoglia forma di realismo, eppure l’immersione del giocatore per Mikami ha sempre assunto connotati sottili e non scontati. Non tutti sanno che Resident Evil inizialmente doveva essere un gioco in prima persona, feature purtroppo scartata per l’incapacità di Capcom di gestire un motore 3D adeguatamente nei tardi anni ’90. Ma se sembra banale come idea oggi legare la prima persona ad un’avventura horror, ormai più che sdoganata da decine di giochi che fanno qualcosa di simile, nonché dalla stessa serie Resident Evil con il settimo e ottavo capitolo, all’epoca era una chiara manifestazione della capacità di decostruire i generi di Mikami, per riscriverli in maniera intrigante e potenzialmente evolutiva.
Da qui le commistioni improbabili ma esplosive di generi e meccaniche, l’horror e la prima (mancata) persona, il beat’em up personalizzabile di God Hand, lo shooter frenetico che si sposa con il rhythm game e dinamiche da action puro con P.N. 03 e Vanquish. Sebbene possiamo considerare anche questo nuovo stimolante approccio agli archetipi videoludici come qualcosa che crea immersione, vorrei tornare un attimo alla prima persona di Resident Evil, evoluta in seconda persona, seguendo lo stesso proposito, in Resident Evil 4. Per Mikami la prospettiva del giocatore è importante, la vicinanza con l’azione di gioco fondamentale, e va applicata in tutti i casi possibili, anche i più improbabili, come God Hand che infatti condivide lo stesso stratagemma. In Vanquish l’immersione si declina in maniera ancora diversa, e ancora una volta, si ravvisa partendo da quello che il gioco NON è potuto essere, in questo caso però, il prodotto finale ha assecondato le esigenze del suo director invece che allontanarsene per ostacoli di vario genere. Vanquish doveva essere un gioco su larghe mappe, più hack and slash, probabilmente con un componente più strategica e chiaramente un comparto tecnico più asettico in grado di gestire l’azione campale che presentava al giocatore.
Ma per Mikami il feeling estetico e tattile con i suoi giochi è fondamentale, ecco quindi che riducendo la portata, trasformando il titolo in uno shooter sofisticato ma lineare, ha potuto concentrarsi sui dettagli dell’ambiente, sulla verve stilistica, sull’appagamento visivo delle animazioni e del cozzare tra fiumi di piombo rovente e metalli, corazze, armature, ed elementi robotici e artificiali di ogni tipo. Probabilmente in tutto questo, The Evil Within è l’eccezione che conferma la regola, seppur solo in parte. Si tratta dell’unico caso in cui Shinji Mikami è tornato sull’action survival horror in maniera molto derivativa, se escludiamo la strepitosa opera di restauro fatta con Resident Evil Rebirth.
Certo c’era bisogno di lanciare nella maniera più efficiente possibile il nuovo studio Tango Gameworks, quindi è una mossa comprensibile ma per chi vi parla, è abbastanza chiaro si sia trattato di un progetto nato più per rispondere ad una domanda del mercato, che il frutto di una pura esigenza creativa: quella dei molti appassionati che chiedevano a gran voce un nuovo “Resident Evil” da Mikami. Anche qui però non si tratta di un vero e proprio tradimento delle proprie linee guida, seppur il leitmotiv di The Evil Whitin è abbastanza riconducibile a Resident Evil 4, la dimensione dell’orrore è completamente nuova, e il contesto narrativo completamente diverso. In questo caso il viaggio quasi onirico nel grottesco mondo del gioco è la scusa per buttare di peso il giocatore dentro un luna park degli orrori che non si risparmia nulla in termini di visionarietà e varietà. E non ho utilizzato la parola Luna Park a caso, trattandosi tanto per cambiare, di una esperienza fatta prima di tutto per intrattenere, perché anche la paura, il grottesco, può anche divertire, e come lo sanno tutti i cinefili amanti dell’horror, lo sa bene anche come Mikami. Tendenzialmente Shinji Mikami rimane un autore che non ha mai forzato la creatività, e se consideriamo anche tutti gli spunti trattati fino a questo momento sul suo operato, è chiaro che non sia uno di quei creativi che sforna un gioco all’anno, anche perché molto spesso si tratta di giochi rivolti a una nicchia e non alle masse, nonostante il successo stratosferico dei capitoli di Resident Evil curati da lui.
Ecco probabilmente perché tra un’occasione e l’altra di dar vita ad una nuova idea di gioco, Mikami si è prestato volentieri anche ad altri obiettivi nella sua carriera e fornire prezioso supporto ad altri director, come Kamiya quando si trattò di portare a casa il progetto Resident Evil 2, o Suda51 per titolo come i bellissimi Killer 7 e Shadow of the Damned, e a nuovi e giovani talenti, che possono contare su Tango Gameworks come trampolino di lancio. Kenji Kimura, director del prossimo Ghostwire Tokyo, è proprio uno di questi. Sotto la supervisione di Mikami, e grazie ad una sua influenza tangibile nel concept del titolo, mi aspetto grandi cose, non lo posso negare. Rimane il fatto che sebbene possiamo solo rallegrarci che il poliedrico e inimitabile autore giapponese possa lasciare in eredità la sua visione del medium a molti altri sviluppatori che ne possono seguire le orme artistiche, noi “Mikamiani” convinti, non vediamo l’ora che la prossima scintilla scaturita direttamente dalla mente del Maestro in persona prenda vita e ci regali una nuova perla che vada ad arricchire quello splendido mondo che è panorama videoludico nipponico.