Mindhunter 2 è più lenta e riflessiva della prima, ma non è assolutamente un difetto
Mindhunter, la serie TV prodotta – tra i vari – da David Fincher, era stata senza ombra di dubbio tra i migliori prodotti Netflix del 2017, e sicuramente tra i più originali degli ultimi anni. La seconda stagione non vuole essere da meno e ripercorre la stessa strada tracciata dal primo Mindhunter, ma lo fa in maniera molto più lenta e compassata, che esalta l’abile scrittura dietro lo show ed anche le straordinarie e intense performance attoriali.
Siamo alla fine degli anni ’70 e il reparto FBI dedicato alla profilazione criminale, pur restando nello scantinato del bureau, ha fatto passi da gigante convincendo i piani alti circa la sua importanza non solo nello studiare i casi risolti, ma nel cercare di fermare i serial killer.
Mentre continuano infatti ad intervistare i pluriassassini e i folli, arrivando persino a parlare con Charles Manson (curiosamente interpretato da Damon Herriman, come in C’era una volta a… Hollywood), il loro aiuto è richiesto per cercare di fermare l’interminabile serie di omicidi di Atlanta, dove qualcuno ha ucciso circa venti bambini di origine afroamericana.
La psicologia dei protagonisti
Mindhunter 2 si barcamena tra queste situazioni approfondendo al contempo la sfera privata dei suoi protagonisti, molto più di quanto fatto nella prima stagione. Si apre con Holden Ford (Jonathan Groff) legato ad un letto d’ospedale dopo un terribile attacco di panico dovuto ad un abbraccio col serial killer Ed Kemper. L’empatia che si trova costretto a provare con alcuni di questi assassini sconvolge la mente dell’agente e tutta la stagione verte sul suo particolare cammino emotivo e professionale, che inizia a percorrere binari paralleli sempre più pericolosamente distanti tra loro.
Gli innegabili passi avanti fatti dal comparto speciale del bureau e in particolare dl’agente Ford, che assume dei connotati quasi soprannaturali tale è la sua bravura nel riuscire a profilare gli assassini, non portano alla stessa pista battuta dalla mente dell’uomo Holden, sempre più sconvolto e turbato col rischio di minare la propria sanità psichica. Un vero gioiello di script è il momento in cui l’agente, durante l’inseguimento del sospettato, si dà il nome in codice Modello T, come la Ford: impossibile non vedere riferimenti all’intervista avvenuta in precedenza a David Berkowitz, soprannominato Il killer della Calibro .44, come la pistola che usava per gli omicidi.
Discorso diverso invece per Bill Tench (Holt McCallany), molto più razionale del collega e sicuramente più ancorato alla realtà terrena e al concetto di prova materiale, sebbene la sua dimensione venga totalmente sconvolta dagli eventi nefasti nella sua vita familiare. Il figlio adottivo Brian ha assistito all’omicidio di un bambino di due anni, perpetrato da altri ragazzini suoi amici, e naturalmente questo fatto getta Bill e sua moglie nello sconforto e nella paura, causando seri problemi anche al loro matrimonio, con le continue assenze lavorative dell’uomo che di certo non aiutano a ricucire il tutto.
Le differenze del modo di vivere, essere ed agire dei due protagonisti si riflettono sul metodo di approcciarsi al lavoro, e nonostante tutto è proprio questa diversità a renderli complementari e a fare in maniera che l’uno sia fondamentale per l’altro, tra i voli pindarici di Holden e l’aderenza alla realtà di Bill.
C’è poi spazio anche per Wendy Carr (Anna Torv), della quale ci vengono finalmente svelati dettagli della vita privata e sentimentale, facendoci scoprire di più su un personaggio fino a quel momento glaciale e impermeabile, e aprendo al tema dell’omosessualità ancora malvista nel periodo in cui è ambientata la serie TV.
Come nasce il crime
Tutti questi aspetti antropologici si incastrano poi con i casi e la psicologia dei criminali, e ciò che – in maniera ancor più evidente rispetto alla prima stagione – emerge da Mindhunter 2 è la sperimentazione di quelle tecniche di profilazione comportamentale care agli amanti del crime, che qui assumono pertanto una forma embrionale, quasi mostrandoci anche la nascita di un genere televisivo. Vista in quest’ottica, Mindhunter è una serie ancor più entusiasmante.
Anche sul piano tecnico si tratta di uno show ineccepibile, con pochi difetti. Mancano forse quei guizzi – tipici di Fincher – di un montaggio frenetico, palesatoci soprattutto nei primi episodi della prima stagione, ma la calma è il leitmotiv di Mindhunter 2 e si riflette anche su questi comparti, e dal punto di vista stilistico sembra riprendere Zodiac molto più che in quella precedente.
Una tavolozza scura, tra il grigio e il fango macchia totalmente le nove puntate dello show, restituendoci una degna atmosfera anni ’70-’80, ma soprattutto un clima noir con pochi raggi solari e la cupezza degli uffici, degli scantinati e di molte scene notturne. Suoni avvolgenti e una soundtrack piena di inquietudine, fanno poi la loro parte nel donare un perenne senso di turbamento.
È così che Mindhunter 2 esce dal carcere, per descriverci come nasce un genere che, nonostante la natura macabra, affascina e ammalia le persone, vuoi perché viene considerato una sorta di palestra emotiva che esorcizza le nostre paure, vuoi perché la mente umana a volte è ben più complessa di quel che crediamo. Come Holden Ford insegna.