Dentro la mente umana
“Come si può anticipare un folle senza capire come ragiona?”. Questo si domandano i due protagonisti della serie, Holden Ford e Bill Tench, per giustificare a Shepard, il loro capo a Quantico, sede operativa dell’FBI, ciò che stanno facendo.
Solo che, dietro la possibile risposta ad una simile domanda, si nasconde quel complesso labirinto di idee, percezioni, sensazioni e ricordi che è la mente umana. E conoscerla potrebbe far sorgere altri interrogativi, capaci di minare la stabilità e la solidità delle convenzioni su cui si fonda non solo la società, ma la nostra vita di tutti i giorni. È esattamente questo il leitmotiv di tutte e dieci le puntate che compongono Mindhunter, nuova produzione televisiva targata mamma Netflix, sbarcata il 13 ottobre 2017 sulla piattaforma.
https://www.youtube.com/watch?v=7gZCfRD_zWE
1977. Holden Ford (Jonathan Groff) è un giovane ventinovenne, agente del Federal Bureau of Investigation, specializzato – in qualità di negoziatore – nel mediare quando un criminale prende in ostaggio delle persone da barattare in cambio di richieste. In seguito ad un fallimento nel corso di un’operazione, viene sottratto al lavoro sul campo e assegnato alla formazione delle matricole. Tuttavia non ottiene i risultati sperati e decide di ritornare all’università per aggiornarsi. Questo lo porta in contatto con tante realtà accademiche diverse, in un periodo dove materie come psicologia e criminologia sembrano vivere una nuova giovinezza. Stuzzicato da tutti questi imput, decide di valutare se sia possibile applicarli a quelle categorie di criminali che esulano dagli schemi consueti. L’incontro con Bill Trench (Holt McCallany), un agente veterano che va da un capo all’altro del paese per insegnare i moderni metodi d’indagine alla polizia locale, gli permetterà di affinare le sue intuizioni e di dare il via ad una rivoluzione copernicana nell’ambito investigativo. Rivoluzione a cui presto si aggiungerà, in qualità di consulente, la dottoressa Wendy Carr (Anna Torv), psicologa affermata ed esperta del settore, interessata dalle prospettive individuate da Ford.
In questa epoca d’oro della televisione, sempre più serie vengono accostate ai loro concorrenti del grande schermo, a volte con paragoni poco lusinghieri per il cinema. Anzi, ultimamente l’impatto si è fatto più pesante, perché costringe la settima arte a riflettere su quello che, per sua stessa natura, non può fare, sui suoi difetti connaturati, soprattutto per quanto riguarda la gestione della narrazione, il dilatamento temporale che è pregio assoluto delle produzioni televisive.
Dilatamento che spesso consente possibilità inevitabilmente negate al cinema: una costruzione approfondita, narrazioni ampie, sviluppi complessi e soprattutto un diverso meccanismo di fruizione. È infatti impensabile che uno spettatore seduto in sala possa sopportare un ritmo così cadenzato, un avanzare rilassante e ipnotico come quello che ammira, estasiato, sul divano di casa, magari con un computer a tenergli caldo il basso ventre. Se decenni fa un simile affiancamento era più che un’eresia, oggigiorno costituisce la normalità, oltre che un terreno d’incontro fruttuoso per entrambe le parti. Certo, esiste modo e modo e orizzonti diversi di qualità, ma è innegabile che le differenze di fattura siano state quasi del tutto livellate. Se poi dietro ad una di queste serie TV si trova un colosso come Netflix e un professionista dal calibro di David Fincher allora parlarne diventa irrisorio, nonché futile.
Tra l’altro, Fincher non è estraneo al mondo della serialità televisiva, avendo diretto i primi due episodi dell’acclamatissimo House of Cards ed essendo stato coinvolto in qualità di produttore esecutivo. Ruolo che, tra l’altro, condivide in Mindhunter con la star di Hollywood Charlize Theron. Due numi tutelari di un certo peso che vigilano sullo show creato da Joe Penhall, autore australiano nato a Londra già noto per The Road, coadivuato dalla sceneggiatrice Jennifer Haley. Provenienti entrambi dal mondo del teatro, per la serie hanno presto spunto dal celebre saggio Mind Hunter: Inside FBI’s Elite Serial Crime Unit, scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas, opera sulla nascita della moderna psicologia criminale e della profilazione che ha, di fatto, sconvolto un’epoca. Un’epoca dove gli omicidi erano ancora considerati raptus di follia isolati e i crimini dovuti a “malvagità congenite” situate nella mente dei trasgressori. Infatti la serie è ambientata nello stesso periodo del libro, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, quando una definizione come serial killer era tutta da inventare, i registratori erano grossi quanto un laptop e l’America stava vivendo gli ultimi postumi della rivoluzione sessuale e della guerra in Vietnam.
Scelta che, oltre ad essere perfettamente resa sulla scena e nei dettagli, risulta azzeccata perché consente di analizzare a fondo un periodo storico poco trattato, dalla narrativa in generale, a cui la lente retroattiva del duemila può dare molto. Piano piano, ci si accorge che da quei decenni concitati derivano tante delle formule e delle parole che oggi usiamo con scioltezza, termini e concetti a cui siamo abituati ma che, allora, erano rivoluzionari quanto l’invenzione della lampadina.
Trascurando un attimo il contesto, Mindhunter – come ci aspetterebbe dal nome – è una serie che si basa tutta sulla “mente”, laddove mente va ad intendere non solo le capacità cerebrali ma anche il carattere, il pensiero, l’inconscio, le pulsioni e gli interessi, sia per quanto riguarda i protagonisti che i criminali con cui dialogano. Da una parte abbiamo i due personaggi principali che, nonostante all’inizio si mostrino come la riproposizione di uno stereotipo (gli agenti sottovalutati uniti da un caso fortuito), lentamente acquisiscono profondità e spessore.
Holden Ford e Bill Tench, nei primi episodi appaiono simili figure monodimensionali. Ci troviamo di fronte il tipico giovane fremente, voglioso di spaccare il mondo, trovare nuove strade e un po’ ingenuo, collega del classico buon soldato stanco del suo lavoro e degli orrori con cui ha tutti i giorni a che fare. Tuttavia, con l’avanzare della storia, tirano fuori una complessità fatta di manie, dubbi, nevrosi e paure, tanto che alla fine non sembrano poi così diversi dei cosiddetti “folli” con cui hanno costantemente a che fare. Ma questa rivelazione non è suggerita allo spettatore né nascosta, quanto piuttosto diviene un’atroce consapevolezza che obbliga i nostri protagonisti a guardarsi dentro, a domandarsi se la devianza che vanno cercando nel tentativo di disinnescarla prima che diventi fatale non sia già dentro di noi, fin dalla nascita, che sia un qualcosa di naturale, una malattia covata all’interno della stessa società, forse perfino della razza umana in generale. E c’è chi, di fronte ad una simile rivelazione, sceglie di scappare, nascondersi, ignorarla, e chi invece ne è inevitabilmente attratto, tanto da venire contagiato.
Temi articolati, costruzione e approfondimento psicologico, un viaggio di conoscenza che si fa strumento per capire noi stessi e orrori che ti avvelenano con la certezza che il loro germe è già sotto la tua pelle. Mindhunter non solo racconta tutto questo, ma lo fa con una regia che è puro Fincher diluito in ben dieci puntate (pur se, specifichiamo, ha diretto i primi e gli ultimi episodi), fluida e silenziosa, una fotografia fatta da colori freddi, da grigi chiari e scuri, che sembrano voler replicare il cromatismo di un vero cervello umano, scenografie asettiche, gelide, pulite. È veramente difficile trovare un difetto a questa serie raffinata ed eccelsa sotto ogni punto di vista. Perfino le sequenze riempitive, dove l’occhio della telecamera si concentra un attimo su vicende laterali che vedono al centro i comprimari, sono tutto meno che inutili, perché spesso al loro interno si trovano significati capaci di mettere in pratica e di mostrare le conseguenze delle scene dove si scoprono i misteri oscuri della mente. Se c’è una lacuna che quasi tutte le serie televisive moderne hanno è che i riempitivi sono spesso puro contorno, buono solo ad allungare il brodo per preparare il terreno agli eventi che seguiranno perdendo un po’ di tempo. Mindhunter invece ne fa il suo vanto, nascondendoci tanti piccoli messaggi che poi si rivelano chiarificatori per comprendere il quadro complessivo. Se proprio volessimo cercare il pelo nell’uovo, ci sarebbe da segnalare un pilot un po’ stancante, confusionario, che per buona parte trae in inganno per sbaglio senza dare le giuste indicazioni necessarie per la storia che sarà. E anche una gestione non proprio uniforme della durata delle singole puntate, che variano dai 60 ai 32 minuti con troppi salti. Per il resto Mindhunter è uno di quei prodotti che, quasi per magia, ti cattura. E rischia di ridefinire ancora una volta il concetto di serie televisiva.
Verdetto:
Mindhunter è una serie interessante e sottile, bellissima e raffinata. A dispetto di un pilot pasticciato e truffatore, merita tutte le ore che richiede la visione e anche molto di più. L’ideale è aspettare la seconda e la terza puntata per prendere subito il via, ma da quel momento in poi sarà impossibile non rimanere ipnotizzati da un prodotto di così grandiosa fattura.