Mondo di sofferenza:
eppure i ciliegi
sono in fiore.
L’haiku di cui sopra esprime in maniera calzante, pur nella sua caratteristica brevità, la splendida ed effimera illusione creata dal cosiddetto mondo fluttuante. Con versi simili a questi, i poeti del periodo Edo, così come altri artisti dell’epoca, descrivevano e delineavano le vie dei quartieri “dei fiori e dei salici”, dove bellezza, eleganza e passione si intrecciavano ad amori tragici e condizioni drammatiche. Infatti, il termine “mondo fluttuante” viene tradotto dalla parola giapponese Ukiyo ed è curioso constatare l’opposizione semantica con il suo omofono, che invece significa appunto “mondo di sofferenza”. Quest’ultima espressione veniva utilizzata per indicare il ciclo di rinascita dal quale i Buddhisti cercano di liberarsi per raggiungere l’illuminazione, dunque è facile comprendere l’allusione ai quartieri di piacere: essi erano luoghi dove dimenticare tutto il resto, grazie alla loro atmosfera patinata e alle mura che li circondavano, distaccandoli dal resto della città e dalla vita quotidiana dei loro avventori.
Nel XVII secolo vennero a crearsi numerosi hanamachi (“città dei fiori”) e yūkaku (quartiere del piacere), che si distinguevano per la presenza di figure piuttosto diverse ma confuse tra loro nel corso dei secoli. Questo accadde anche a seguito della diffusione del soggetto nipponico nelle arti europee dell’epoca, in particolare attraverso correnti artistiche come il Giapponismo, che influenzò soprattutto pittori impressionisti e post-impressionisti (citiamo Monet, Manet e Van Gogh, tra i più famosi). Per questa ragione ancora oggi subiamo il fascino seducente di geisha e oiran, due tipi di lavoratrici simili e al contempo profondamente diverse e che in Occidente abbiamo erroneamente assimilato l’una all’altra solo perché entrambe appartenenti al mondo fluttuante, e tra le quali, invece, possiamo fare una netta distinzione grazie ad alcune opere pervenute in tempi recenti.
Geisha e Oiran: due ruoli ben distinti
Non si può negare che tra tali opere, nonostante le controversie sorte in seguito alla sua pubblicazione, venga subito alla mente Memorie di una geisha di Arthur Golden. In questo racconto, osannato dal pubblico ma dai contenuti molto romanzati e non sempre realistici, la figura della geisha viene tratteggiata spesso in maniera ambigua, tanto da farla passare quasi come una prostituta d’élite, cosa assolutamente non vera. A questo proposito, nella conseguente autobiografia di Mineko Iwasaki, arrivata in Italia con il titolo Storia proibita di una geisha, la donna specifica una delle numerose differenze tra una geisha e una oiran: entrambe affrontavano un rito chiamato mizuage che, seppur in entrambi i casi veniva “sponsorizzato”, era di natura completamente diversa. Per la prima, il mizuage sarebbe stato una cerimonia per divenire una maiko (apprendista geisha), insomma un passaggio di grado; per la seconda sarebbe consistito nella vendita della sua verginità ad uno dei clienti (spesso samurai o commercianti) della casa in cui abitava e veniva istruita (okiya), in un incontro organizzato direttamente dal proprietario.
Tuttavia, ne Il mondo dei fiori e dei salici, un’altra autobiografia scritta dall’ex geisha Sayo Masuda, l’autrice afferma di aver subito il mizuage esattamente come accadeva per una prostituta e di averlo ripetuto per altre quattro volte, in quanto il padrone della casa ritenne potesse essere redditizio.. Infatti, il denaro per questo rito serviva, tra le altre cose, a pagare in parte il debito che ogni ragazza contraeva con l’okiya. Sia geisha che oiran (queste ultime a differenza delle altre yūjo, comuni meretrici senza istruzione) ricevevano lezioni di danza, musica con koto o shamisen, calligrafia e poesia, per essere in grado di intrattenere i propri clienti in maniera appropriata. Apprendiamo questa somiglianza dal manga Sakuran di Moyoco Anno, recentemente pubblicato in Italia da Dynit, nel quale la protagonista Kiyoha viene cresciuta per diventare una oiran, possibilmente la migliore della propria casa. Questo perché se la geisha doveva prendersi cura delle maiko al suo seguito, insegnando loro i modi per approcciarsi elegantemente al cliente come una sorella maggiore, la oiran aveva il dovere di mantenere non solo sé stessa ma anche le proprie kamuro, bambine serve che in seguito avrebbero potuto diventare hikkomi, cioè apprendiste cortigiane.
Non era tutto rose e fiori
Nonostante queste e altre differenze, che possiamo constatare anche dalle stampe rappresentanti il mondo fluttuante, dette ukiyo-e, geisha e oiran erano accomunate sicuramente da uno stile di vita difficile e faticoso, sia dal punto di vista fisico che quello psicologico.
Era comune, ad esempio, che le bambine vendute dagli zegen (“reclutatori” se così si può dire) o dalle loro famiglie tentassero la fuga, come racconta Mineko Iwasaki o come prova a fare diverse volte Kiyoha in Sakuran. Gli orari di lavoro, inoltre, erano estenuanti, poiché entrambi i tipi di intrattenitrici terminavano di lavorare quasi all’alba e per tutto il tempo indossavano pesanti strati di kimono e voluminose ed elaborate acconciature. Trasgredire a una qualche regola voleva dire ricevere punizioni corporali e, se il proprio debito era troppo grande, avrebbero potuto vivere tutta la loro vita in quei quartieri, cosa ancor più tragica se si pensa all’alto tasso di morti per malattie sessualmente trasmissibili come sifilide o peritonite causata da gonorrea. L’unica speranza era riuscire ad avere un danna, un protettore e finanziatore che poteva saldare i loro debiti, liberandole così dal legame con l’okiya. Tuttavia, era difficile che questi potesse eventualmente portarle via da lì, poiché si trattava quasi sempre di uomini sposati, i quali al massimo potevano decidere di tenere queste donne come loro concubine o semplicemente continuare a finanziarle per affermare il proprio status di clienti abbienti.
Le esperienze di Mineko Iwasaki e Sayo Masuda sono opposte anche per quanto riguarda la fine della loro vita da geisha: la prima ebbe modo di ritirarsi all’apice della sua carriera di sua spontanea volontà, percependo diverse inadeguatezze nel sistema cui apparteneva e che non riusciva più ad accettare. In seguito all’abbandono del proprio ruolo, poté sposarsi e avere un figlio a poco più di 30 anni; la seconda invece fu liberata dal suo danna ma, dopo la fuga da quest’ultimo, passò molti anni in grosse difficoltà finanziarie, accompagnati da problemi con l’alcol, la perdita della sua unica amica e compagna e altri tentativi di suicidio. Probabilmente, il vissuto di Masuda, molto diverso per certi versi da quello di Iwasaki, le causò comprensibilmente un crollo psicologico che non riuscì mai a superare.
Cosa rimane?
Purtroppo, questi scorci del mondo fluttuante, che ci mostrano fondamentalmente di lusso e piacere apparenti, non permettono al mondo occidentale di poter comprendere appieno le necessità culturali e storiche che avevano portato alla nascita di hanamachi e yūkaku: in tempi antichi, le donne dovevano rimanere sottomesse ai loro uomini e per questo serviva, tra le altre cose, che fossero poco istruite. Ciò non permetteva loro di portare avanti conversazioni interessanti, che gli uomini cercavano dunque nelle geisha, di gran lunga più colte. Soprattutto le geisha avevano e hanno ancora un codice di segretezza che rende ancora poco chiari molti loro rapporti, specie dopo così tanti anni e con il mestiere che sta via via scomparendo. Forse è per questo e altri motivi che tutto ciò che ci è pervenuto fino a qualche decennio fa risulta essere una malinterpretazione che ha portato noi occidentali a non comprendere del tutto la cultura dietro questi mestieri.
Eppure, nonostante il loro lato più oscuro e negativo, questi quartieri e il senso di perdizione che suscitavano hanno portato alla creazione di qualcosa di altrettanto affascinante come stampe, quadri e poesie, dalla bellezza malinconica come le abitanti di quei luoghi. Si può solo sperare che questi non siano altrettanto effimeri, così che oltre al puro piacere estetico stimolino la ricerca delle vere tradizioni legate al mondo fluttuante, tutt’altro che esotico come abbiamo sempre creduto.