I segreti della disinformazione – Quinta puntata
Nelle scorse puntate abbiamo visto cos’è la disinformazione, come si attua, su quali principi si basa e quali meccanismi utilizza per raggiungere l’obiettivo che si propone, ovvero quello di manipolare le opinioni e conseguentemente influenzare le decisioni che le persone prendono.
Abbiamo anche detto, e questo è un aspetto importante che non mi stancherò mai di sottolineare, che uno dei cardini della disinformazione è che la maggior parte della gente è convinta di non poter essere manipolata, ovvero che a credere nelle cosiddette “bufale”, termine usato in rete per alcune forme di disinformazione spicciola non particolarmente sofisticata, bisogna essere degli stupidi o quantomeno degli ingenui. In realtà la disinformazione è nata come forma di strategia militare per ingannare il nemico. Basti pensare a Sun Tzu o a Caio Giulio Cesare, che fecero ampio uso di quest’arte. Quindi, obiettivo della disinformazione sono gli analisti avversari, ovvero persone tutt’altro che semplici da manipolare. Se quindi una disinformazione ben disegnata e realizzata può ingannare un analista, allora non c’è alcun motivo per cui non possa ingannare ciascuno di noi. In quanto alle bufale, per quanto molte di esse siano tutt’altro che sofisticate, usano gli stessi meccanismi della disinformazione professionale e quindi sono un buon banco di prova con cui confrontarsi. Una “bufala” ben disegnata può ingannare anche una persona esperta e intelligente. Persino una dotata di un buon spirito critico. Proprio quel genere di persona che si riterrà quindi più al sicuro da questo tipo di manipolazione. L’arma più efficace, infatti, è quella che ti colpisce senza neppure che tu te ne sia reso conto.
In questa puntata parleremo di disinformazione attraverso il canale multimediale, ovvero per mezzo di immagini e video. Tutti voi avrete sentito almeno una volta l’affermazione “L’ho visto in televisione, quindi deve essere vero”, o una qualsiasi delle sue varianti. Si dice che un’immagine valga più di mille parole. È talmente vero, che un’informazione sotto forma di immagine vale sicuramente più di mille parole di disinformazione. Infatti, se un’informazione ben disegnata può essere così verosimile da convincere anche il più scettico di noi, quando questa informazione viene fornita sotto forma di immagine, la sua efficacia ne risulta amplificata di vari ordini di grandezza. In effetti la disinformazione per immagini si basa esattamente sugli stessi meccanismi che abbiamo già visto, come l’omissione, la selezione dei termini, la dissociazione, la decontestualizzazione e via dicendo. Se volessimo tuttavia riassumere tutti questi meccanismi sotto forma di una singola frase, forse il modo migliore per sintetizzarli è nella domanda “Cos’è che manca?”
In effetti, il meccanismo principe della disinformazione è quello di far concentrare il bersaglio su quello che propone e di fargli dimenticare tutto il resto. Se vogliamo evitare di cadere in questo trabocchetto, dobbiamo piuttosto chiederci cos’è che non è stato proposto, cosa non ci hanno detto, cosa non vediamo, cosa non sappiamo. Il problema è che l’altra colonna portante della disinformazione è rendere quanto proposto attraente, ragionevole, interessante ma, soprattutto, convincente, e quindi prevenire a priori la possibilità che qualcuno si ponga queste domande.
D’altra parte non si può, ogni volta che ci viene detta una certa cosa o che leggiamo o vediamo in televisione qualcosa, assumere che possa non essere ciò che sembra. Non camperemmo più, diventeremmo paranoici e soprattutto perderemmo un mucchio di tempo a verificare qualsiasi informazione ci venga proposta. Così siamo costretti, volenti o nolenti, a fare una selezione e, dato che non sempre questa può essere fatta in base alle nostre conoscenze, in quanto le cose che non sappiamo saranno sempre di più di quelle che conosciamo, fossimo anche dei geni, dovremo basarla su un meccanismo antico quanto il mondo: la fiducia nella fonte.
Escludendo quindi quei casi in cui siamo certi dell’affidabilità della fonte o abbiamo competenze tali da poter valutare noi stessi quanto ci viene proposto, come ci possiamo difendere dalla “disinformazione per immagini”, in tutti gli altri casi?
Attenzione, chiarisco subito un punto: sto parlando di immagini e filmati non ritoccati, ovvero non alterati in qualche modo, del tutto originali. È evidente che se l’immagine o il video è stato in qualche modo elaborato, è possibile far vedere letteralmente qualsiasi cosa. E se pensate che non sia possibile fare un filmato in cui state facendo sesso con un’amante tradendo il vostro coniuge, vi invito ad andare al cinema a vedere cosa oggi si è in grado di fare in termini di effetti speciali. Questa puntata, quindi, si concentrerà sull’uso dell’immagine inalterata, assolutamente reale, e nonostante questo perfettamente adeguata a fare disinformazione.
Iniziamo con immagini statiche, ovvero con foto, come quelle che si vedono sulle riviste, sui giornali o in rete. I cosiddetti “scatti”. Ogni immagine mostra qualcosa, ma per essere un elemento efficace di disinformazione deve essere contestualizzata. Ci sono molti modi di contestualizzare un’immagine. Il più semplice è una didascalia, ma può far parte di un articolo, di un reportage formato da molte altre immagini, di un documentario o di una notizia al telegiornale. In ogni caso l’immagine da sola non basta. Quindi il primo passo per analizzare uno scatto è proprio quello di eliminare tutto ciò, ovvero di estrarre l’immagine dal contesto e di farsi la fatidica domanda: cosa non so?
Per prima cosa, una volta che ho eliminato tutto quello che possono aver detto di quell’immagine, non so probabilmente quando è stata scattata. Ovviamente nell’immagine ci possono essere degli elementi che possono posizionare nel tempo lo scatto. Ad esempio, la Roma degli anni Cinquanta o New York negli anni Venti, o l’Iraq contemporaneo, ma a meno che nell’immagine non ci sia un calendario, un orologio, una data o un altro elemento che possa contestualizzarla meglio nel tempo, come una Torre Eiffel ancora in costruzione o il quartiere Spina di Borgo prima che venisse demolito per realizzare via della Conciliazione a Roma, difficilmente saremo in grado di posizionarla all’interno di una linea temporale. Quando un’immagine è stata scattata può essere rilevante, in molti casi, sia in senso relativo che assoluto. Ovvero, può essere importante sapere “quando” ma anche semplicemente sapere se “prima di” o “dopo di” qualcos’altro. Consideriamo ad esempio l’immagine qua sotto. In rete la si trova spesso associata a un presunto articolo pubblicato sul Time nel 1955 che trattava del modello di perfezione femminile dell’epoca.
In realtà è un’immagine dell’attrice porno Cindy Renée Volk, in arte, Aria Giovanni, ed è stata scattata nel 2004. Di per sé non c’è alcun modo di capire dall’immagine quando effettivamente questa foto sia stata scattata e, tutto sommato,che essa sia originale o meno potrebbe essere secondario rispetto all’informazione fornita, peraltro verosimile. Tuttavia è proprio così che funziona la disinformazione. Sopponiamo che io voglia sostenere una tesi di qualche tipo, ad esempio una visione estremamente maschilista della donna negli USA nel dopoguerra, cosa peraltro abbastanza verosimile, presentata però dal Time, cosa che magari non ha mai fatto. Mi basterebbe riportare alcuni passaggi del presunto articolo assemblando estratti selezionati da articoli presi da altre riviste dell’epoca con una vera copertina del Time del 1955, come questa.
Aggiungendo l’immagine già menzionata di Aria Giovanni, e una serie di commenti opportunamente scelti ad arte per instillare nel lettore l’idea che intendo sostenere. Ogni singolo elemento, di per sé non dimostra nulla. Inoltre non è così eclatante o inverosimile da spingere il lettore a investigare ulteriormente. Se poi pubblico il tutto su un sito femminista, il gioco è fatto, perché chi leggerà quel sito lo riterrà già affidabile sull’argomento e non penserà che possa essere una notizia inventata, ovvero non si farà la fatidica domanda di cui sopra. Ho scelto volutamente per questo esempio il “femminismo” perché ha tutte le caratteristiche per essere il perfetto cavallo di Troia: è un movimento di emancipazione, quindi “positivo”, per cui associare ad esso una notizia vorrebbe dire proteggerla. Chiunque infatti cercasse anche solo di metterla in discussione verrebbe accusato di maschilismo o quantomeno di non essere “politicamente corretto”, e quindi verrebbe immediatamente contrastato o per lo meno ignorato. Una buona disinformazione ha sempre bisogno di una corazza formata da qualcosa di buono, di positivo, di inattaccabile. C’è stata una manifestazione contro un disegno di legge oggettivamente discutibile proposto dal governo? La manifestazione è fallita per l’ignavia della gente? Bene, si pubblica un’immagine in rete che mostra un’inquadratura di una piazza gremita e si afferma che è stato un successo. Chiunque a quel punto faccia notare che l’immagine in realtà non è stata scattata a quella manifestazione, sarà accusato di essere reazionario e filo-governativo e questo renderà ancora più inattaccabile l’immagine stessa. Il bello della disinformazione, infatti, è che può essere utilizzata per sostenere qualcosa di valido ed essere comunque falsa. Chiunque quindi, cerchi di ristabilire la verità, sarà accusato di voler attaccare non solo quello specifico elemento, ma tutto l’impianto, che potrebbe al contrario essere del tutto veritiero. La disinformazione quindi si fonda sul “mimetismo”, acquisisce cioè caratteristiche simbiotiche con informazioni vere, facendosi proteggere da esse e allo stesso tempo rafforzandole. Ma torniamo alle nostre immagini. Abbiamo parlato del “momento” dello scatto o anche della ripresa, se vogliamo estendere il discorso ai filmati. Questi sono ancora più efficaci dei singoli scatti perché danno l’impressione di essere più difficilmente falsificabili. Le riprese di una folla a una manifestazione: piazza vuota o piena? Quando sono state fatte? All’inizio, quando c’era ancora poca gente? Nel bel mezzo del comizio? Alla fine? O sono addirittura immagini della stessa piazza ma di un’altra manifestazione, che con quella non c’entra nulla? O più facilmente ancora, un montaggio di riprese fatte in due o più manifestazioni diverse? Tenete presente che se anche venissero viste dalle stesse persone che hanno partecipato a quella manifestazione, neppure loro potrebbero necessariamente dire quanto ci sia di vero e quanto di falso in esse, perché nessuno ha in questi casi una visione d’insieme. Se sei in mezzo alla folla davanti al palco, non ti rendi conto di cosa può succedere dietro. Ci sono stati degli scontri? Le riprese dicono di sì, in una strada che si affaccia sulla piazza. È vero? In effetti avevi sentito del clamore, dei rumori come di scontri. Magari era solo un incidente stradale, o una coppia che litigava, ma adesso hai visto le riprese e quelle dicono che si sono verificatieffettivamente degli scontri: si vede la polizia, si vedono i manifestanti, magari qualcuno che lancia qualcosa. Quindi deve essere vero. Anzi, sicuramente è vero, perché vuoi che sia vero: eri lì, ne facevi parte, e se ci sono stati degli scontri il tuo racconto è più interessante, “tu” sei più interessante quando lo racconterai agli amici. E così diventi un testimone di qualcosa che non hai visto. In perfetta buona fede!
La decontestualizzazione temporale è quindi un’arma potente, ma lo è anche quella spaziale. La foto mi mostra un’immagine, ma cosa non mi mostra? Cosa c’è fuori dai bordi dell’immagine? Cosa c’è alle spalle del fotografo o in secondo piano, sullo sfondo, nascosto da ciò che mi viene mostrato? Potenzialmente tutto. Ed è qui il problema. Non posso saperlo, a meno di non trovare altre foto dello stesso evento da altre angolazioni, punti di vista, con differenti inquadrature, magari più ampie. Chiaramente non sempre questo è possibile e chi fa una buona disinformazione si assicurerà di farla catturando momenti e inquadrature difficilmente confutabili in quanto nessun altro le ha riprese. Un esempio di decontestualizzazione siatemporale che spaziale è la seguente foto, che doveva dimostrare come le politiche socialiste abbiano messo oggi in ginocchio il Venezuela portando a una crisi di tali proporzioni da rendere introvabile qualsiasi prodotto sugli scaffali dei supermercati.
In realtà la foto è stata scattata nel 2005 in Texas. Il bello è che la notizia in sé è vera, ovvero il Venezuela è davvero in crisi e gli scaffali di molti supermercati sono davvero vuoti, ma la foto comunque non riguarda il Paese sudamericano. Quindi ci troviamo di fronte a un “peccato veniale”, una falsa “foto di repertorio”, ma lo stesso meccanismo può essere utilizzato in modo molto più infido per costruire falsi reportage.
Un falso reportage, infatti, non è mai fatto di foto tutte false o decontestualizzate. Al contrario, l’elemento di disinformazione potrebbe essere uno solo su decine di foto, ma messo nel modo e nell’ordine giusto, potrebbe dare all’intera sequenza un significato completamente diverso. Ad esempio, un paio di macchine bruciate in un reportage di una manifestazione che è avvenuta in modo del tutto pacifico, potrebbe dare dell’evento una visione del tutto differente. Ma come procurarsi il materiale che ci serve? Tanto per cominciare, dagli stessi canali di informazione, prendendo una foto scattata in un momento o in un luogo diverso, come abbiamo visto. Poi ci sono i fotogrammi tratti da film. Singole scene, non particolarmente famose, possono essere riutilizzate nel giusto contesto per mostrare di fatto qualsiasi cosa. Questa è un’immagine tratta dal film “Cristo Rey” di Leticia Tonos del 2013, girato nella Repubblica Dominicana.
Viene spesso presentato in rete come uno scatto fatto da un reporter di una madre che sta difendendo suo figlio ad Haiti. Ovviamente, a meno di non aver visto il film, che non ha avuto una distribuzione internazionale rilevante, pur essendo stato nominato per un Oscar nel 2015 come miglior film straniero, è difficile scoprire l’inganno. La migliore fonte resta, tuttavia, l’evento stesso. Si tratta solo di saper cogliere l’attimo, tagliare la scena. Una stessa persona, durante un convegno, mostrerà decine di espressioni diverse: ora interessato, ora annoiato, ora divertito o serio, ora persino leggermente addormentato. Uno scatto ne fissa solo una. Voglio dare di un personaggio famoso un’immagine negativa? Scatto quando fa una smorfia, si gratta la testa o si mette addirittura le dita nel naso. Chi non lo ha mai fatto, ogni tanto? Voglio darne un’immagine positiva? Quando ride o scherza, quando mostra interesse o ha una posa plastica, statuaria. Ognuno di noi passa per queste pose ed espressioni ogni istante. Basta aspettare il momento giusto. Voglio far vedere che la città è sporca? Da qualche parte un cassonetto troppo pieno o con i sacchetti a terra lo troverò, se cerco bene. Voglio dimostrare che è pulita? Volete che non trovi una piazza per la quale è appena passato un mezzo della nettezza urbana che ha lavato il selciato, magari di prima mattina?
Voglio far vedere che un certo Paese è di fatto uno Stato di Polizia? Qui basta la foto di un militare o di un poliziotto che colpisce un ragazzino o una donna. Se poi è in mimetica, sarà persino difficile capire se appartenga davvero all’esercito di quel Paese o meno. Voglio far vedere le vittime di un bombardamento? La rete è piena di foto di quel genere: come faccio a sapere che si è trattato davvero di quel bombardamento e non di un altro? Che è successo davvero in quella città e non in un’altra? Che è stato davvero quel nemico e non un altro? Ovviamente mi faranno credere ciò che io voglio già credere. La singola disinformazione raramente “dimostra qualcosa”, ma si limita a dare una spintarella nella direzione giusta, magari a chi è già rivolto in quella direzione. La vera disinformazione è quindi una strategia lunga e complessa, articolata nel tempo su più canali d’informazione. Ogni singolo elemento deve dare il suo contributo ma mantenere al contempo un “basso profilo”, per non far sorgere il dubbio che possa essere contraffatto. Ora, se una singola immagine può ingannare così tanto, pensate a un filmato, che altro non è che una sequenza di immagini! Qui, oltre alla decontestualizzazione e alla conseguente ricontestualizzazione ad uso e consumo della disinformazione che voglio fare, oltre al punto di vista delle riprese e al campo dell’inquadratura, si aggiunge il montaggio. Ad esempio l’ordine in cui determinate scene sono state riprese, il taglio di alcune sequenze, oppure il montaggio di sequenze estranee provenienti da altri eventi all’interno del filmato. Il tutto senza ritocchi o alterazioni. Ma un filmato ha un altro punto di forza, che molti sottovalutano perché, pur essendo sempre presente e influenzando fortemente la nostra percezione, lo diamo per scontato e non gli diamo il giusto peso: il sonoro. Suoni, rumori, voci, sono fondamentali per dare alle immagini un significato, senza contare che a quelle prese in diretta si possono aggiungere elementi sonori estranei o colonne sonore. Il parlato, ad esempio, oppure la musica che, come sa bene chi ama i film dell’orrore, può fare la differenza fra una scena normale e una che “colpisce duro”.
Partita di calcio. Stadio quasi vuoto, ma le gradinate più basse sono ovviamente gremite, così come i posti a sedere in basso sulle curve, dietro le reti. Tengo la ripresa bassa, non mostro mai la parte più elevata dello stadio e tengo il sonoro di fondo piuttosto alto, in modo da accentuare le grida di trionfo o di delusione dei tifosi. Giocando bene con questi elementi, posso trasformare una partita che ha visto sugli spalti pochi spettatori in un grande successo. Aggiungiamo due commentatori “esaltati” e un paio di interviste ben ritagliate ed ecco la “partita dell’anno”. Noi viviamo di immagini. Quelli di noi che hanno la fortuna di non avere problemi seri alla vista, fanno di questo senso quello forse più importante. La vista è ingannevole già nella realtà, come dimostrano gli studi sulla cecità al cambiamento. Si basa su meccanismi che danno l’impressione di avere una visione completa di ciò che ci circonda, quando buona parte di questa è costruita nel nostro cervello a partire da pochissimi elementi. Quindi, già ciò che vediamo in prima persona può essere ingannevole. Nonostante questo noi diamo alle immagini un valore di “verità” estremamente elevato ed è proprio su questo che conta la migliore disinformazione. Ricordatelo ogni qual volta vedete una foto e guardate un filmato. Non domandatevi cosa state vedendo, ma cosa non state vedendo. Ne rimarrete sorpresi.
de Judicibus