ue nomi che risuonano familiari alle nostre orecchie, quelli di Morgana e Ginevra. Donne, maghe, regine, leggende. Le radici di queste due personalità ambigue (eppure chiarissime, al limite dello stereotipo, nelle menti di chiunque, oggi, abbia visto un film sulle gesta di Re Artù o letto un re-telling del ciclo arturiano) affondano in un terreno compatto e secolare, ma che, con mano audace, i contemporanei tendono a rimestare spesso: esse sono da secoli generatrici di fascino, mistero, simbolismo. Perché di questo la storia e la letteratura antica ci parlano: simboli, spesso unilaterali. Morgana e Ginevra, come Artù e Lancillotto, sono simboli di un mondo passato che pare impossibile dimenticare. Artù è sinonimo di forza, coraggio, eternità; Lancillotto di amore, cavalleria e tradimento; ma delle donne, della maga di Avalon e della regina di Camelot, cosa ne è stato? Come abbiamo distorto le loro storie, le loro vite e le loro imprese? Per scoprirlo è necessario compiere un viaggio a ritroso, esplorando personaggi, luoghi, Mito e Storia, fino a raggiungere i gradini più remoti dell’Umanità…
Morgana e Ginevra sono figure che si incastonano precisamente, come pietre preziose in una parete di roccia granitica, in un contesto storico e soprattutto religioso ben preciso. Sono donne nate sul limbo di una delle mutazioni sociologiche più ingombranti di sempre: il passaggio dalle religioni pagane al cristianesimo. Ce ne parla con accuratezza quasi documentaristica Marion Zimmer Bradley nel suo Ciclo di Avalon, nel quale ci viene posto dinanzi un mondo bilaterale, profondamente diviso da due divinità (che, come ci spiega l’autrice, in realtà sono un’unica entità): una Dea, donna, e un Dio, che in teoria non ha sesso, eppure è uomo, perché Padre, Signore, Pastore. Quanto l’idea che l’uomo si crea del proprio Dio influenza la sua vita, il suo modo di vedere le cose, le sue abitudini, il suo corpo? Le esistenze di Morgana e di Ginevra offrono una lettura chiara della faccenda millenaria.
Stando a ciò che ci dice Bradley nel suo Le nebbie di Avalon, Morgana nasce dal grembo di Igraine, madre di Artù, sorella di Vivien (sacerdotessa di Avalon) e figlia di Merlino. Nelle vene di Morgana, perciò, scorre il sangue dell’Isola Sacra, un luogo confinato nelle nebbie e nel mistero, al quale è concesso l’accesso solo a coloro che hanno scelto di fare atto di fede in un donna. Morgana è una principessa, poi una sacerdotessa. Sarà amante, madre, sorella, innamorata, vergine e concubina, ma alla base di tutti questi appellativi resta per tutta la vita una donna e perciò verrà oscurata nei secoli dalla cattiva reputazione di maga malvagia, infida nei confronti degli uomini, invidiosa del potere delle regine terrene. La risposta a questa infangante evoluzione è la nostra lettura del mito arturiano in una chiave occidentale e, quindi, inevitabilmente cristiana. La maga Morgana calpesta la sua Terra e il suo Secolo nel corpo libero di una donna che prega una Dea, sinonimo di Destino e Scelta. Non siamo abituati a guardare la religione in una chiave femminile, eppure per addentrarci nell’abisso della tradizione arturiana (o meglio morganiana) è necessario farlo. Ad Avalon si celano i segreti di una religione antica, che prega la Terra, la Fertilità, la Sessualità, la Preveggenza: parole terminanti in “a”, accomunate dall’essere intrinsecamente femminili. Come Era è terreno, Demetra è fertilità, Afrodite è sessualità, Cassandra è preveggenza, così la Madre di Avalon è naturalmente donna. Morgana, sua sacerdotessa, possiede quindi come più alto riconoscimento di fede il suo appartenere allo stesso genere.
Ci racconta Bradley nel suo libro come la devozione nei confronti della Dea passi innanzitutto dal corpo: le sacerdotesse fanno voti di silenzio, digiunano, si arrampicano su pendii impervi, levitano nell’aria in assenza di peso, bevono pozioni per predire il futuro e conservano come massimo dono la loro verginità. Ma non sono monache e mentre le donne cristiane preservano, in un’attesa di terrore e meditato stupro, la loro integrità corporea per i loro mariti, le sacerdotesse di Avalon interpretano il volere del Destino. Interpretano, quindi scelgono. Non esistono imposizioni dettate da un nefasto presagio infernale, ma decisioni che portano conseguenze. Attendono che sia un’interferenza divina a scegliere il momento in cui manifestare la propria sessualità o agire, stando a guardare i prossimi passi del Fato. Questa la sostanziale differenza tra una donna pagana e una donna cristiana: una possiede la facoltà di scegliere, di godere, di sentire; l’altra riceve l’obbligo di ubbidire, di sottomettersi, di adempiere ad un mero compito corporeo, a volte violento, a volte piacevole, mai del tutto consenziente.
Morgana – a differenza di sua madre Igraine, moglie di Uther e stata prima pagana, poi cristiana, come suo marito – nasce perciò come creatura libera. I suoi ruoli, persino quelli negativi che i posteri le hanno affibbiato, li ha plasmati in origine con le proprie mani. Ha usato la magia per essere maga, ha servito una dea pagana per essere sacerdotessa, ha amato uomini fuori dal matrimonio per essere sporca concubina; eppure, ancora oggi, l’occhio bigotto e patriarcale della cristianità medioevale non è riuscito a mettere in ombra la sua natura di donna senza catene.
Il mito di Morgana assume sin dalla sua nascita una particolare ambiguità. Sono molte le versioni raccolte nelle ballate medioevali che parlano di lei e del suo legame con la corte dei Pendragon e molte sono le sfaccettature che il suo ruolo sociale e la sua personalità assumono. La sua prima apparizione letteraria (come membro della mitologia celtica se ne hanno testimonianze sin dai primissimi secoli del Medioevo) risale al Tredicesimo secolo, nell’opera di Goffredo di Monmouth, Vita Merlini, dove è ritratta come la maggiore di nove sorelle, regina dell’isola della Felicità, capace di fare magie ed incantesimi; ma il più ampio raggio di informazioni che abbiamo sulla sua personalità ci giunge da Le Morte d’Arthur, testo del XV secolo di Sir Thomas Malory, nel quale Morgana viene dipinta come una maga malvagia, sorellastra di Artù, che solo in epilogo si dimostrerà disposta a guarire il sovrano dalle ferite della battaglia. Ma Malory non ha partorito nulla di originale: il suo è stato un compito di riscrittura e adattamento di antiche storie che oggi sono molto difficili da recuperare con chiarezza; e in cui, soprattutto, la figura di Morgana ci appare quasi sempre in vesti molto diverse, tutte accomunate dalla credenza che ella fosse buona, guardiana di Avalon e aiutante dei cavalieri della Tavola Rotonda. Più la letteratura che la riguarda avanza nel tempo, più questo ruolo da personaggio buono cade in disuso, e la maga inizia a trasformarsi in qualcosa di oscuro, poco comprensibile; su di lei vengono scaraventate le colpe della distruzione di Camelot, la maestosa corte del re che, secondo la leggenda originale, lei aveva amato per tutta la vita.
La fata Morgana, chiamata così perché in lei scorre il sangue dell’antico popolo fatato, nasce perciò come amica e salvatrice di Artù, ma nel corso del tempo le rappresentazioni letterarie storceranno la sua natura, trasformandola prima nella sorella spregevole del leggendario sovrano, poi in sua amante. Nelle versioni originali del mito Morgana è circondata da un’aurea benefica, poiché, per le popolazioni pagane, l’appellativo “maga” aveva a che fare con l’ambito della conoscenza. Le maghe, le sacerdotesse e le donne di potere misterico erano, negli antichi racconti celtici, protettrici dell’Isola della Conoscenza, impartite dal dono della Vista, scrutatrici del futuro, consigliere, rispettate da re e druidi. La saggezza delle loro parole veniva ascoltata con riguardo e timore. Poi, con il sopravvento della cristianità, la visione popolare della maga è andata sempre più a confluire in quella nefasta dell’adoratrice del demonio. La saggezza è diventata furbizia, la bellezza lussuria, la sacerdotessa si è trasformata in un’eretica e la Fata Morgana è diventata la Maga (o la Strega, se il termine ci suona più familiare tra i bersagli degli uomini cattolici), ambigua e subdola creatura avvolta dalle nebbie.
Non minoritario è il fascino che suscita in noi la figura, più esile eppure altrettanto controversa, della regina di Camelot. Ginevra non gode della stessa aurea di mistero di Morgana, non ha poteri magici e non vive in un’isola pagana di donne sacerdotesse; eppure spesso tendiamo a trascurare il suo ruolo centrale all’interno della vicenda di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola rotonda.
Ginevra viene descritta in ogni componimento come una donna bellissima, incarnazione della nobiltà d’animo, moglie devota e gentile, della quale è impossibile non innamorarsi. Ella è moglie, innanzitutto; questo ruolo già la pone distante da Morgana, la quale, in alcune riscritture, sarà addirittura sua rivale per l’amore del re di Camelot. Non a caso Bradley, sempre nel suo Le nebbie di Avalon, la fa comparire per la prima volta come una ragazzina chiusa in un convento cristiano, un luogo quanto più lontano possibile dalle origini di Morgana. L’ambiguità della maga è contrastata così dalla purezza della consorte, una purezza che, pur di rimanere intatta, in un’accezione che definirei religiosa (e morbosa), non viene scardinata nemmeno dalla gravidanza. Ginevra non darà eredi ad Artù e questo bizzarro (per l’epoca) aspetto della loro vita coniugale le ha attribuito l’appellativo di regina vergine (che, se conosciamo il minimo sindacale sulla religione cattolica, dovrebbe ricordarci qualcosa). Eppure anche la nobile storia della leggendaria regina verrà tramutata in espediente per ricreare quel archetipo tanto caro al Medioevo, in cui la donna, per quanto pura e di elevato lignaggio, è pur sempre una donna.
Ginevra, ci dicono gli storici, è figlia di re Leodagon. Assediato dai nemici, il sovrano chiama in soccorso Artù, al tempo sotto il titolo di “re della guerra” (probabilmente per via delle sue origini da mercenario), il quale libera il suo regno. È al banchetto che Leodagon offre ai soldati che presumibilmente Artù incontra la bellissima Ginevra, della quale si innamora seduta stante. Nella versione storica dei fatti, Artù si pensa essere un romano britannico, cioè un condottiero dell’Impero Romano abbandonato sull’isola in seguito alla ritirata delle legioni. Era stato un mercenario e poi divenuto un re: questo dettaglio natale spiegherebbe la sua natura di unificatore di tutti i regni della Bretagna e la raffinatezza della sua corte, ben lontana dalla rozza tradizione popolare dei celtici. Una volta chiesta Ginevra in sposa, Artù riceverà la visita di Merlino (forse uno dei personaggi più enigmatici ed interessanti della mitologia arturiana), il quale, come suo consigliere, benedirà l’unione. La saggezza di Merlino, che di certo guardava ben oltre il sentimento appassionato nato tra i due giovani, accetta Ginevra come regina, probabilmente perché ella, nativa della Bretagna, avrebbe supportato l’impresa di Artù, rappresentando il legame con la sua terra accanto al nuovo sovrano straniero.
Le tracce di Ginevra, dal punto di vista storico, si perdono: subentra la leggenda, la quale verrà rimescolata nel corso dei secoli, dando sfogo a quella che sarà la versione definitiva, accolta con giubilo da quella società sempre più cristiana, devota, sessista. Ginevra, infatti, nasce come regina magnanima, talmente amata e rispettata da comparire seduta insieme ai cavalieri intorno alla Tavola rotonda. La sua devozione nei confronti del re è l’elemento fondante della fortuna della nativa Camelot, la quale prospera sorretta dall’amore tra i due sovrani. Un’amore che sarà anche preludio alla rovina. È con l’incontro di Ginevra e Lancillotto che la Storia si riappropria dello stereotipato “male femminile”: la bella regina seduce il fiero e leale cavaliere, conducendolo al tradimento del suo re e della sua patria. Ginevra cade così nell’oscuro baratro della lussuria femminea, dell’adulterio e del peccato. Come una nuova Eva, si avvicina al frutto proibito, ne viene incantata e porta alla distruzione il suo intero mondo e quello del suo amato consorte. È una musica che si ripete, che ricorda la pericolosità di porre una figura femminile ad un posto di comando. La Maga Morgana non può essere potente sacerdotessa se non è anche amante e prostituta; la Regina Ginevra non può essere donna di potere se non è anche traditrice e adultera.
Questi crudeli compromessi dovrebbero avvicinare ai nostri occhi le leggendarie figure, piuttosto che allontanarle. Sono due lati della stessa medaglia, glorificate da un passato libero e imbrigliate in una tradizione bigotta a cui non appartengono, in cui stanno visibilmente strette, dissonanti. Morgana e Ginevra sono l’emblema della donna che si trasforma con la Storia, una Storia scritta sempre e solo da uomini. I loro ruoli d’origine, che più che ruoli chiamerei nature, sono stati a lungo andare schiacciati dai loro peccati, creati ad arte per riprodurre una formula destinata a perdurare anche nel contemporaneo. Santa o puttana, queste le alternative che una donna ha per essere individuata in un percorso narrativo e storico. Tutte le eccezioni sono facilmente dimenticabili.
Per approfondire questi due mitici personaggi, saggi, romanzi, prodotti cinematografici e mostre figurative si offrono allo spettatore e alla spettatrice contemporanei, perché, come spesso accade quando si parla di donne nella Storia, Morgana e Ginevra hanno ancora molto da raccontarci. Morgana: donna, fata, strega, dea, di Federico Gasparotti, ad esempio, è il primo saggio italiano che tratta esclusivamente della figura arturiana, pubblicato nel 2016 da L’Età dell’Acquario Edizioni. Il volume ripercorre la sua esistenza, nel passato e nel presente, attraverso più di 20 opere medioevali che l’hanno ridefinita come donna e come creatura. Fino a lambire la contemporaneità, Gasparotti analizza la vicenda della maga in una chiave femminista, spirituale, letteraria e storicista, senza tralasciare il fondamentale dettaglio di una narrazione che è prima di tutto politica.
“Paradossalmente nei tre secoli più oscuri per il paganesimo (e per la donna), i romanzi che avrebbero dovuto cancellarlo, demonizzandolo, sono arrivati invece ad enfatizzarlo, facendo passare il testimone del potere magico da un anziano uomo a una giovane donna, e facendo fallire il re cristiano”
Spostandoci dalla saggistica alla narrativa, oltre alla consigliatissima serie del Ciclo di Avalon sopracitata, di grande successo è stata la pentalogia della romanziera inglese Fay Sampson, con il titolo di Daugther of Tintagel, del 1989, inedito in Italia. La serie di romanzi raccontano la leggendaria vita di Morgan le Fay, dalla sua infanzia alla sua caduta. I libri che compongono la serie portano i titoli di Wise woman’s telling (1989), White nun’s telling (1989), Black Smith’s telling (1990), Taliesin’s telling (1991) e Herself (1992), editi per Trafalgar Square. Le vicende della saga approfondiscono specialmente la relazione tra Morgana e Artù, in questa versione suo fratellastro, unendo all’historical fiction il genere fantasy. Attraverso narratori diversi (dalla balia di Morgana nella corte del padre Gorlois, duca di Cornovaglia, al personaggio inventato di Luned, figlia adolescente di un contadino innamorata della Maga; da San Telio, fabbro ed importante personaggio dell’antica religione, a Taliesin, giovane bardo che un giorno sarebbe diventato il Merlino), ci viene lentamente districata davanti la ragnatela tessuta intorno alla figura di Morgana, dalle sue origini nel ducato di Cornovaglia alla sua incoronazione come sacerdotessa di Avalon. Riportiamo alcune parole dell’autrice sul personaggio di Morgana, ricavate da un’intervista dello scrittore Raymond H. Thompson per The Camelot Project (2011) (qui tutta l’intervista):
I became interested in this character, and a little later on, as the children grew older, we got Roger Lancelyn Green’s Tales of King Arthur. In the very first chapter two things struck me vividly. I’d already by that time got this picture of Morgan as the conventional wicked witch, the “anti-Arthur” figure. But right in this first chapter there is the story of how Arthur’s father kills Morgan’s father and deceives her mother in order to lie with her and conceive Arthur. I immediately thought, “No wonder she would feel like that! Any bright, thinking girl would!”
Sulla figura di Ginevra nella letteratura mondiale sono state scritte infinite opere, quasi tutte incentrate sull’amore tra la regina di Camelot e il cavaliere Lancillotto. Da poemi romantici (come The Lady of Shalott, di Alfred Tennyson, del 1833) a cicli narrativi (come Idilli del re, dello stesso autore, del 1859), la figura di Ginevra è sempre stata raffigurata in ombra alle sue controparti maschili, Artù e Lancillotto. Occorrerà attendere XX e XXI esimo secolo per poter leggere storie che vedono lei come protagonista indiscussa. Tra i romanzi ricordiamo Queen of Camelot, del 2002, edito da Random House USA Inc e scritto dal pugno dell’autrice americana Nancy McKenzie, la quale ci rende possibile vivere l’avventura arturiana dal punto di vista di Ginevra, finalmente messa in una posizione attiva rispetto alla sua stessa esistenza letteraria. L’espediente del romanzo è molto interessante: l’autrice lo fa cominciare dalla fatidica conclusione della storia, quando Camelot è caduta e Ginevra si è ritirata in un convento. Sarà una visione di Merlino a spingerla a mettere su carta la sua vita, la sua esperienza come regina, amante, moglie e simbolo leggendario.
“Take what comes and live life without complaint. What will be, will be. Like is a woman’s gift; death is God’s”
Di libri, tra saggi e romanzi, sul ciclo arturiano e sui suoi protagonisti ce ne sono a milioni (da citare sicuramente la tetralogia del Re in Eterno di T.H White, ristampato recentemente in Italia da Oscar Voult in un’edizione Draghi), eppure, considerando la loro mole, sono in pochi a trattare nello specifico dell’audace Morgana e della bella Ginevra. Due personaggi che ancora oggi vengono avvicinati con un certo timore, nonostante solo delle loro gesta e della loro personalità, del loro ruolo e della loro contemporaneità, se ne potrebbero riempire intere biblioteche. Complesse nell’indole e nel rapporto con tutte le altre pedine che compongono forse la leggenda più incredibile di sempre, Morgana e Ginevra stanziano nelle coscienze di tutte e tutti come fantasmi vividi, eppure sfuggenti. Drammatiche le loro vite, struggenti le loro vittorie e le loro sconfitte in quanto donne, paladine in un antico mondo immerso nell’oscurantismo religioso e nella dominazione dell’Uomo. Il loro coraggio e la loro resistenza allo sfiorire nel Tempo ci donano un monito che spero sopravvivrà ad altri mille anni: è necessario porre ogni cosa sotto una luce che evidenzi anche margini, incrinature, ombre; guardando, leggendo, parlando solo di ciò che risiede in superficie, affidandoci ai ruoli in cui la Storia ha imprigionato tante donne immense, si rischia di dimenticare e perdere la loro reale ampiezza. La quale, credetemi, regala sempre visioni che – soprattutto al giorno d’oggi – aiutano a dissipare anche le più fitte nebbie.