Tra alti e bassi, dalle origini a oggi, ecco come la serie creata da Ed Boon è arrivata gloriosa a Mortal Kombat 11
Ho passato diverse ore davanti a Mortal Kombat 11, e più lo giocavo, più mi rendevo conto di essere dinanzi ad un grande picchiaduro per tutta una serie di fattori che vanno dalle scelte stilistiche, al livello tecnico, alla mole di contenuti i infine l’ottimo gameplay. Da giocatore attempato, che ha visto nascere e svilupparsi la serie dai suoi albori, la cosa più interessante che emergeva dal titolo, è il fatto che rappresentasse la sua evoluzione perfetta. Mortal Kombat 11 infatti evidenzia i passi da gigante che il team di Ed Boon ha fatto negli anni dal primo capitolo. Una evoluzione che ha portato Mortal Kombat a migliorarsi in maniera evidente ma che oggi più che mai riesce allo stesso tempo a mantenere totalmente integra la propria identità. Impresa tutt’altro che semplice.
Già dal gameplay si intuisce un approccio old school ma moderno (nel momento in cui rimane profondo) più che mai azzeccato. Il gameplay è ottimizzato a puntino intorno ad un combat system in cui il mind game la fa da padrona, che riesce ad essere strategico ma anche intuitivo, offrendo diversi strumenti di difesa e di attacco da usare in maniera intelligente senza però richiedere chissà quali abilità esecutive sovrannaturali o la capacità di apprendere infinite combinazioni di colpi, le quali non monopolizzano affatto le dinamiche dei combattimenti, che invece sono molto più impostati sul gioco neutral e sulla valorizzazione dei singoli attacchi e delle distanze.
Traguardi importanti se si pensa come è nato Mortal Kombat, in maniera piuttosto umile come il rivale numero uno di Street Fighter 2, in un’epoca in cui quest’ultimo spopolava nelle sale giochi portando in auge il genere dei picchiaduro a incontri. Il piccolo team di Ed Boon, composto da soli 4 membri, inizialmente voleva un gioco ispirato al personaggio di Jean Claude Van Damme. Non riuscendo ad accordarsi con l’attore optarono per cavalcare quest’onda verde dei picchiaduro, approcciandosi però in maniera inesperta al genere. Ma si sa. La necessità a volte aguzza l’ingegno.
Per Ed Boon e il co-creatore John Tobias era fondamentale inserire una certa personalità nel prodotto. Nel loro caso, questa si concretizzava nel realizzare qualcosa di molto legato alla cultura pop di quegli anni, mettere nel calderone mille riferimenti, o meglio influenze, del cinema di serie B. Terminator, Predator, film di kung fu, misticismo, violenza, ninja, elementi horror, tutto filtrato attraverso un mood volontariamente trash e grottesco. Mortal Kombat doveva essere qualcosa dall’appeal universale per i giovani dei primi anni ’90 e doveva stupire, anche per compensare un combat system non troppo elaborato e la mancanza di una vera e propria direzione “artistica”.
Su quest’ultimo aspetto, l’intuizione fu brillante, ma anche naturale visto che il team di Midway lavorava già in questo verso: digitalizzare attori reali, riprenderli mentre eseguivano le mosse in studio e poi trasformarli in sprite. Un espediente geniale, che andava ad unirsi da uno spirito chiaramente “goliardico” nell’utilizzo della violenza eccessiva, e alla grande caratterizzazione che fin da subito si cercava di dare ai personaggi e alla lore del gioco, anche solo tramite semplici schermate didascaliche.
Perdere la strada maestra
La serie di MK dopo l’escalation dei primi tre capitoli si è un po’ persa negli anni. Il quarto capitolo arrivò insieme all’epoca del 3D, e l’approdo della serie nel mondo dei poligoni fu rovinoso. Non solo venne meno il “realismo”, grande marchio stilistico della saga, dovendo abbandonare gli sprite digitalizzati, ma anche confrontato ad altri titoli analoghi e coetanei, era chiaro come Mortal Kombat 4 fosse inferiore. Anche le Fatality, altro elemento caratteristico, erano visivamente povere e mal riprodotte.
Fortunatamente su PlayStation 2 hanno risalito almeno in parte la china, anche grazie alla determinazione di Ed Boon di sperimentare sempre nuove soluzioni, alla ricerca della formula perfetta per far tornare Mortal Kombat ai fasti di un tempo e permettergli di competere con i picchiaduro più tecnici e competitivi. Ecco quindi che tra stili e armi, da Deadly Alliance in poi, Mortal Kombat tornava ad essere divertente da giocare e bello da vedere. Il problema semmai, era che in entrambi i casi, assomigliava veramente poco al MK originale. Il gameplay nelle arene 3D sicuramente offriva spunti interessanti ma il ritmo di gioco era lento e il feeling indubbiamente lontano anni luce dai primi capitoli.
Anche sul versante grafico, l’opera di ammodernamento nel design dei personaggi, non era perfettamente riuscito ma anzi capitolo dopo capitolo si cercava di rendere sempre più inutilmente arzigogolato il look di ogni storico personaggio perdendo quella “freschezza estetica” e quella caratterizzazione un po’ “grossolana” ma subito riconoscibile delle loro prime apparizioni. Di certo, quello in cui però NetherRealm Studios ha sempre spinto l’acceleratore senza mai perdere un colpo è la narrazione. Ormai l’universo di Mortal Kombat era composto da svariati reami fantasy dettagliatamente descritti e dal background stratificato, gli stessi eroi del bene capitanati dal dio del tuono Raiden e i vari villain Shinok Shang Tsung, Shao Kahn e sgherri vari, avevano un trascorso di eventi talmente lungo da far invidia ad un gioco di ruolo, visto che nella filosofia della serie ogni capitolo doveva proseguire le vicende di quello precedente.
Ad un certo punto però la carne al fuoco fu talmente tanta che dovettero necessariamente fare tabula rasa e ricominciare le vicende da zero (con un espediente che comunque lasciava canonica la storia precedente). Mortal Kombat 9 fu infatti il primo capitolo in cui NetherRealm Studios riuscì a tenere ben saldo il timone della nave e con determinazione puntò alla rotta per conquistare la vetta con il suo storico brand. MK9 era perfetto in tutto sostanzialmente, e per di più introduceva per la prima volta uno storymode che era un vero e proprio film fantasy/arti marziali, dalla sceneggiatura discutibile e dalla recitazione ridicola, ma sicuramente molto affascinante e interessante per i fan dell’immaginario della saga.
Gli strascichi dei punti deboli che ancora si portavano avanti erano pochi ma inossidabili: lo stile grafico, sicuramente estremamente più fedele all’originale ma allo stesso tempo inesorabilmente lontano da esso (i volti erano tutti un po’ anonimi) e le famigerate animazioni “legnose”, che proprio non ci si riusciva a scrollare via di dosso.
Mortal Kombat 10 fu in tal senso un ulteriore passo avanti per gameplay e ovviamente qualità tecnica, ma, almeno a mio giudizio, fece anche dei passi indietro. La storia era sicuramente meno interessante di quella fantastica riproposizione degli eventi di Mk1, 2, e 3 che componeva l’intreccio di Mortal Kombat 9, anche a causa di alcuni nuovi personaggi davvero poco carismatici come Kung Jin e Takeda. Inoltre anche il design dei personaggi tornava ad essere eccessivamente “tamarro” e di dubbio gusto, e sempre con facce dai lineamenti assolutamente banali.
Mortal Kombat 11: il traguardo perfetto
Infine, giunge Mortal Kombat 11, in cui semplicemente tutto, ogni cosa, è al suo posto, anche ciò che non lo era più da anni. Un combat system che riesce incredibilmente a rievocare i ritmi compassati dei primissimi capitoli, ma non per mancanze tecniche, ma perché il gioco è studiato attorno a molte e intriganti dinamiche d’attacco e difesa da alternare in maniera ponderata. Una caterva di contenuti single player che riesce addirittura ad oscurare la generosità dei capitoli precedenti che comunque tra kripte e modalità secondarie, non erano certo avare.
Un netcode dalla stabilità e velocità semplicemente disarmante. Una modalità storia che valorizza l’enorme amore del team per caratterizzare il suo universo e una grandissima cura per rendere le vicende al meglio, in quello che è un filmone tamarrissimo d’azione violenta di serie B, che porta su schermo in maniera encomiabile le due facce di Mortal Kombat, quella che si prende sul serio e quella che invece si burla palesemente degli eccessi che mette in scena. Delle animazioni FINALMENTE per la prima volta al passo coi tempi che abbandonano quella incerta e inverosimile fluidità degli scambi di colpi ma ne mantiene intatta la concretezza dei colpi e delle collisioni.
Le più creative, divertite, e sbalorditive Fatality, sicuramente le migliori della serie da quando abbiamo visto Sub Zero estrarre la spina dorsale dall’avversario per la prima volta. E infine, una direzione artistica PERFETTA che per la prima volta dal 1995, anno in cui con Mortal Kombat 3 abbiamo anche salutato gli attori digitalizzati, torna a mostrarci facce e fisionomie REALI, grazie all’utilizzo di modelli umani per la creazione dei volti dei personaggi. Si torna quindi a percepire quel realismo nella sofferenza e nelle espressioni dei combattenti come succedeva, ovviamente con le dovute proporzioni e sforzi di immaginazione, con i primissimi capitoli della saga.
A mio avviso, è una componente stilistica che rappresenta un grandissimo e importante ritorno nella saga, in un mondo dove sempre di più si utilizzano attori per creare giochi realistici, in Mortal Kombat significa proprio esaltarne il DNA originale. Ma, grazie al cielo, finalmente con un buon gusto e un’eleganza nel vestiario e nel design dei personaggi che ci riporta ai giorni nostri, e anche con una certa classe.
Insomma lo avrete capito ormai. Perché Mortal Kombat 11 è semplicemente la migliore evoluzione che poteva avere la serie? Per un motivo semplice e fondamentale: il migliore modo di evolvere un’idea o una saga è quello in cui riesci a portarla ad un livello successivo e più alto in tutti gli aspetti che contano, ma riuscendo al contempo a non dimenticare la natura e le origini su cui è nata, e casomai, provando a valorizzarla ancora i più. Ebbene Mortal Kombat 11, fa tutto questo, e anche di più.
Complimenti NetherRealm Studios, così si cresce un figlio!