Mothering Sunday alla Festa del cinema di Roma
Presentato nella selezione ufficiale della 16esima edizione della Festa del cinema di Roma dopo essere inizialmente passato alla scorsa edizione del Festival di Cannes, Mothering Sunday inizia all’insegna del “c’era una volta”.
E questo c’era una volta ha in un primo momento anche un dove e un quando, la campagna inglese del 1924, prima che i contorni del racconto comincino a sfumare, farsi mobili e a intersecare in un’unica soluzione di continuità il passato, il presente e il futuro.
La storia di un amore impossibile
Il film diretto dalla regista francese Eva Husson, qui alla sua terza regia di un lungometraggio, pare quasi affidarsi al flusso di coscienza. Tratto dall’omonimo romanzo di Graham Swift adattato poi per il grande schermo da Alice Birch, Mothering Sunday si lascia infatti molto rapidamente la punteggiatura cinematografica alle spalle, mescolando assieme piani narrativi che compaiono fugacemente come schegge schizzate via dalla memoria.
Il punto di raccordo è uno solo, quel giorno di marzo dove cade la festa della mamma in cui Jane (Odessa Young) spende un’intera mattina d’amore con Paul (Josh O’Connor). Il loro è un sentimento impossibile, osteggiato dalla differente provenienza sociale dei due: Jane è una domestica orfana in casa di una facoltosa coppia (Colin Firth e Olivia Colman), Paul un rampollo d’alta estrazione.
È quindi inconciliabile soprattutto con le volontà della famiglia di lui, all’interno della quale è l’ultimo figlio rimasto e scampato alla tragedia della guerra che si è portata via i fratelli maggiori, destinato a un matrimonio tra equali. E una sorta di cappa funerea avvolge l’intero film, lo schiaccia sui toni del dramma nonostante i corpi carichi di desiderio siano inondati di luce, sfumati morbidamente nei contorni.
Il corpo e il contatto come mezzo espressivo
In realtà questa aura tenue è rivelatrice della matrice d’impossibilità che Mothering Sunday tende a richiamare quasi disperatamente in tutti i fotogrammi, carichi spesso di non detti, di una rottura della comunicazione, e che la regia della Husson vuole colmare con l’istinto tattile, il contatto.
Si torna quindi ai corpi, scelti come referente principale di una narrazione che non si fa quasi mai verbale e si affida in tutto e per tutto alla presenza fisica, e dei fisici, dei due ragazzi. Ma non convince del tutto come questi vengano incastonati dalla macchina da presa, quasi più esposti che mostrati e per questa ragione dopo un po’ di tempo stonati, di troppo.
Gli stessi momenti d’intimità si affacciano più dalle parti del dover mettere in mostra che del rubare per qualche istante la dolcezza di una carezza, o anche di un amplesso. Si perde, sul lungo, il senso profondo del dramma di due persone che sono al tempo vicinissime e che mai come nel momento in cui sono davanti ai nostri occhi si ritrovano anche a una distanza incolmabile l’uno dall’altro.
Un british drama che rimane in superficie
La vera protagonista in fondo è Jane, anima narratrice riempita di dignità dall’interpretazione della Young, che finisce però per ritrovarsi espressa un po’ a metà dalla scelta di arricchire Mothering Sunday di questi flashback e flashforward, indice di quella mescolanza alla quale accennavamo, che se è vero che funziona in un primo momento perde poi di efficacia e porta al mal di mare.
La drammaticità da un certo punto in poi diventa un atto pilotato e si ritrova azzoppata da una regia che si svuota di reale significato, studiata sì bene ma mai in grado di aderire adeguatamente alla sensazione di vuoto dello script, che in alcuni momenti ci mette del suo per confondere le idee.
Insomma, Mothering Sunday ha la perfetta confezione da british drama ricco di carnalità e amore inconciliabile, ma si ferma dalle parti del pacchetto ben infiocchettato che una volta strappata via la carta svela una scatolina grigia e piuttosto anonima. Un accenno di emozione.