Dopo l’Oscar assegnato a Parasite, la Corea del Sud è salita meritatamente alla ribalta. Ecco perché anche le due stagioni di Kingdom meritano una visione!
Il rarefatto mondo cinematografico e televisivo nel 2020 ha seguito le orme e le direzioni di una nazione, da sempre presente, ma inspiegabilmente poco considerata: la Sud Corea. Quelle tracce lasciate per decenni sul terreno finalmente hanno destato l’attenzione di platee abituate alla rassicurante presenza occidentale.
Parasite ha segnato un punto di svolta nel percorso che ha portato alla consapevolezza comune di avere un esponente culturale di spicco in Oriente, oltre a Giappone e Cina. Nell’anno dell’Oscar a Bong Joon-ho, arriva su Netflix la seconda stagione di una serie sudcoreana sino ad ora semisconosciuta, ma che meriterebbe l’attenzione globale: Kingdom.
La serie, da non confondere con l’omonima Kingdom americana, aveva debuttato sulla piattaforma streaming a gennaio 2019, senza però ricevere alcun clamore. L’assenza della lingua italiana ha giocato un ruolo di prima importanza nel mancato successo della creatura diretta da Kim Seong-hun nel nostro Paese.
Eppure quella serie snobbata e mai pubblicizzata, andrebbe recuperata, per immergersi nella storia sudcoreana. Tornando indietro nel tempo, in un’epoca medievale in cui si alternavano intrighi di palazzo, soprusi verso le classi più deboli, lotte di potere e… un’apocalisse zombie! Cosa c’entrano gli zombie nel contesto dell’antica Sud Corea e perché bisognerebbe iniziare un binge watching di Kingdom? Lo scopriamo subito.
Un perfetto mix di generi
Perché quindi andrebbe visto Kingdom? In primis perché mescola abilmente diversi generi, creandone un ibrido che sfuma costantemente e appaga spettatori provenienti da diversi mondi narrativi.
Ci troviamo innanzitutto in un credibile contesto storico. La serie è ambientata durante il periodo dei Joseon, l’ultima dinastia imperiale della Corea e il più lungo governo di una dinastia confuciana. Siamo a cavallo tra il quindicesimo e sedicesimo secolo e il principe ereditario Lee Chang (Ju Ji-Hoon) è dinanzi a due grandi problemi: da una parte le cospirazioni ordite dal clan Hak-jo, dall’altra la misteriosa malattia e conseguente sparizione del padre. Il sovrano infatti sembra essersi ammalato gravemente e viene tenuto in vita dal ministro Jo Hak-joo (Ryu Seung-ryong) e dalla regina Cho (Kim Hye-jun), che però proibiscono a chiunque di vederlo.
Nel regno iniziano a susseguirsi voci sulla sua morte e Chang decide di svelare la verità su questa situazione nebulosa. Insieme alla guardia Mu-yeong (Kim Sang-ho), decide dunque di partire verso Jiyulheon, dove si nasconde il medico reale che ha curato il sovrano e l’unico a conoscere la verità. L’incontro con l’infermiera Seo-bi (Bae Doo-na) è il momento esatto in cui storia e realismo incrociano la fantasia e assumono sfumature orrorifiche. La normalità e la quotidianità si infrangono: l’esplosione di una terrificante pandemia sta facendo morire migliaia di persone, che tornano prontamente in vita sottoforma di zombi desiderosi di carne umana. L’epidemia è strettamente connessa a intrighi politici e Chang, desideroso di sapere la verità e bramoso del trono che gli spetta, cerca a tutti i costi di rivelare l’inquietante verità che coinvolge tutti. A partire dal malvagio clan Hak-joo.
I dodici episodi che compongono le due stagioni di Kingdom si rivelano un’affascinante miscela di sangue, terrore e intrighi politici. La serie si sposta continuamente su binari stilistici e narrativi differenti, mescolando una rappresentazione coerente e credibile della realtà medievale sudcoreana ad una messa in scena di derivazione romeriana degli zombi. E così horror e dramma coreano in costume si muovono sullo stesso filo, in perfetta sincronia. Il tutto avvolto da un’aura costante di mistero da una tensione che ammicca ai thriller.
Zombi alla coreana
Le pellicole e le serie TV con protagonisti i non morti negli anni si sono moltiplicate con la stessa facilità con cui si propaga l’epidemia zombi. Il fascino inquietante che si cela nella vita post morte ha sempre innescato la verve creativa di scrittori, sceneggiatori e registi, che hanno perlustrato in ogni anfratto il panorama zombiesco creato nella cultura haitiana. The Walking Dead è l’ultimo rappresentante illustre (e criticato) del genere, ma con Kingdom siamo ben distanti dalle vicende di Daryl & co.
La serie sudcoreana prende in prestito le caratteristiche iconiche del genere e le riplasma, mutuandole in un contesto del tutto inedito. Kingdom riesce a rendere armonica l’ibridazione tra zombi movie e dramma in costume, infrangendo le convenzioni narrative classiche. La mancanza degli abituali contesti in cui si muovono gli zombi del ventesimo e ventunesimo secolo (centri commerciali, college, agglomerati urbani), porta i non morti a barcollare in luoghi inediti, che rimandano ad un Medioevo dal sapore orientale.
Mancano gli appigli e le sicurezze della contemporaneità, la già fragile situazione sociopolitica del tempo aumenta esponenzialmente la paura e la possibilità di morire. Gli zombi appaiono ancor più letali del solito e l’asticella della suspense si sposta verso valori toccati raramente in produzioni del genere. Si intravedono le prime armi da fuoco, ma sono soprattutto le spade a incunearsi nella pelle marcia dei non morti. E non sempre bastano per salvarsi.
Una messa in scena sontuosa
Per la prima serie sudocoreana su Netflix non si è voluto badare a spese. Per rendere credibile questo squisito cocktail di dramma in costume e zombie movie è stato costantemente sforato il budget a disposizione: ben 1,78 milioni di dollari a episodio! L’ingente spesa è stata ripagata con un livello qualitativo non indifferente. La cura maniacale con cui è stato portato avanti il progetto ha dato vita ad una resa scenica paragonabile alle serie e film più costosi occidentali.
La scelta degli abiti di scena, che ben fotografano il periodo storico, e soprattutto gli effetti speciali, fanno immergere lo spettatore nella Sud Corea medievale. Si è prestata particolare attenzione alle scene collettive: i movimenti di macchina certosini rendono vivide le scene di massa, aumentando la tensione di ogni attacco zombi. Il make up e gli effetti appagano i palati più esigenti in ambito orrorifico: non mancano fuoriuscite di intestini, carni strappate, arti mozzati e litri di sangue a condire il tutto.
Un’acuta analisi sociologica
Da sempre le opere sudcoreane nascondono un’anima bifronte. L’architrave narrativa canonica nasconde sempre un sottotesto formato da profonde considerazioni e riflessioni di carattere sociologico. Come in Parasite, anche Kingdom fa emergere l’ancestrale disparità che contraddistingue la popolazione sudocoreana. L’enorme differenza tra le classi sociali del paese riaffiora prepotentemente nell’opera e la stessa zombificazione è una conseguenza delle condizioni di povertà a cui sono destinate le fasce più basse della scala politica. La fame e le inadeguate condizioni igieniche portano alla morte e alla susseguente rinascita sottoforma di zombi.
Dall’altra parte c’è una classe aristocratica incapace di guardare in giù e di accorgersi di ciò che sta succedendo ai piani bassi. I più ricchi sono dipinti come arrampicatori sociali senza scrupoli, indifferenti verso il popolo che governano e vessano. Il protagonista veste i panni del salvatore e guida del popolo oppresso, pronto a far tornare la giustizia e debellare l’epidemia, che diventa una metafora dell’oppressione della classe più povera.
La differenza tra le classi è ben raffigurata anche a livello visivo: per dipingere i ricchi vengono utilizzati colori accesi, come il porpora, il blu, mentre per i poveri viene scelta una scala cromatica più spenta, con predominanza di grigio, bianco e ocra.
Cliffhanger assicurati
In un’epoca di sovra produzione televisiva e cinematografica l’espediente più usato per mantenere costante la visione di un’opera è il cliffhanger. Il colpo di scena è la molla che genera il binge watching, nato dall’offerta scollegata dallo scandire del tempo delle programmazioni canoniche. Kingdom ha nel proprio DNA il subdolo meccanismo che porta ad una fruizione televisiva senza pause. La ricerca della verità del protagonista è direttamente proporzionale alla curiosità dello spettatore, bramoso come Chan di spiegazioni.
La serie sa mescolare continuamente le carte in tavola: contemporaneamente alla soluzione del mistero legato alla pandemia, si susseguono gli intrighi e i complotti politici. Come in un puzzle i tasselli si incastrano in ogni episodio, ma nulla viene risolto completamente, portando costantemente allo stupore e al desiderio di vedere come si risolve la vicenda. Che rimane invece sospesa e sapientemente irrisolta. In attesa di una terza stagione.