Golden Globe: Linklater: un trionfo atteso 12 anni.
Molti la considerano la Serie B dei premi cinematografici. Sarà perché indubbiamente gli Oscar hanno, oltre ad un prestigio diverso, anche una cassa di risonanza più ampia; sarà perché spesso vincere i Golden Globe significa non vincere l’Oscar. Ci sono anni con tanta carne al fuoco, in cui si fa fatica a scremare e si vorrebbe dare premi a tutti, e ci sono anni bui in cui ci si trova costretti a nominare film che in un altro momento non sarebbero mai stati presi in considerazione.
Il 2014 appartiene senz’altro alla seconda categoria, nonostante qualche prodotto più che apprezzabile non sia mancato, salvo poi essere snobbato, vedi Interstellar. Ad ogni modo, sebbene – come si diceva – non siano molti i casi in cui qualcuno sia arrivato all’accoppiata Golden Globe Oscar, la speranza è sempre l’ultima a morire, e comunque alla peggio è meglio vincere qualcosa, piuttosto che stringere aria tra le mani. Dunque riaccendiamo i fari, ormai spenti da un bel po’ di ore, sulla serata di Beverly Hills.
A presentare l’evento la rodata coppia composta da Tina Fey ed Amy Poehler, calamite naturali per ilarità e senso di leggerezza. L’attrice comica Margaret Cho si fa immortalare vestita da soldato nordcoreano al fianco di Meryl Streep, alzando al cielo una copia di Movie Wow magazine dedicata alla vicenda The Interview; nel frattempo Benedict Cumberbatch “photobomba” saltando dietro di loro e Michael Keaton scatta mentre le due presentatrici incoraggiano la Streep. Atmosfera da ricchi premi e cotillons insomma. Ma veniamo ai vincitori. Si poteva non dare il premio ad uno che ha costruito il film su 12 reali anni di vita? Per chi non sa di cosa stiamo parlando, Richard Linklater ha iniziato le riprese di Boyhood nel 2002, tracciando quindi il percorso di crescita del protagonista, l’allora sconosciuto Ellar Coltrane, che aveva solo 8 anni all’inizio del progetto, e ben 20 al momento dell’ultimo ciak. Risultato? Miglior film drammatico; miglior regia; migliore attrice non protagonista (Patricia Arquette): Set, partita, incontro. Insomma, forse non vincerà il premio più importante, ma intanto a Beverly Hills Linklater è uscito col sacco pieno di regali.
La migliore commedia va invece (e non poteva essere altrimenti) a Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Il maestro della simmetria ottiene finalmente un riconoscimento importante, dopo i tentativi finiti male degli anni passati. The Imitation Game di Tyldum invece rimane a secco, nonostante il pieno di nomination (ben cinque), e così a Benedict Cumberbatch non resta che photobombare e guardare persino vincere – come miglior attore in un film drammatico – Eddie Redmanye per La Teoria del Tutto, il secondo film sulla vita di Stephen Hawking. Già, perché – ironia della sorte – il primo fu per la televisione ed il protagonista fu proprio il buon Cumberbatch. Se quindi The Imitation Game non vince niente, si cerca invece di premiare quasi tutti gli altri, ed allora ecco la bella Amy Adams che si aggiudica il premio miglior attrice in un film commedia per Big Eyes, ed un riconoscimento va anche al discusso Birdman, grazie a Michael Keaton che vince il migliore attore in una commedia. All’appello però manca una nomination importante, la migliore attrice per film drammatico ed ecco sbucare l’elegantissima Julianne Moore, la regina della manifestazione, che il Golden Globe se lo porta da casa. Sono già due negli ultimi tre anni: una discreta media. Aspettando qualcosa di più prestigioso tra circa un mese. Non solo Julianne Moore, ma tutti noi.