La voce generazionale sta cambiando, verso un incrocio tra estetica raffinata e sentimenti trasversali (ma al limite del precotto)
Tolgo subito l’elefante dalla stanza, prima ancora che vi venga il dubbio e la vostra bile si concentri in quantitativi per voi dannosi. Nessuna delle parole che seguono vanno intese come un voler conservare una purezza (che, spoiler, non esiste) dell’arte o ancora peggio un lamentarsi di un declino generazionale presunto perché “eh ma mancano i valori, una volta si stava meglio”. A parte il fatto che sarebbe un cortocircuito gigantesco, facendo io stesso parte di una delle due generazioni in oggetto. Quindi: no, tutto il contrario. Non sono affatto preoccupato di come la voce generazionale delle persone più giovani che abitano in Italia stia cambiando. Mi preme piuttosto cercare di capire come è iniziata questa tendenza, come comunica esteticamente. Quali sono i concetti alla base della musica che le e i ventenni/trentenni ascoltano e perché si sentono così legate e legati a fumetti come quelli di Zuzu, Zerocalcare e Fumettibrutti. Qual è la fascinazione che lega i miei coetanei a questo mondo? Che linguaggio viene usato, per essere così funzionante?
Non è nemmeno una questione qualitativa, quella che sta alla base di questo articolo. Perché il lavoro di critica non prevede in senso assoluto la valutazione, quanto piuttosto il far comprendere quale punto si è voluto analizzare. Nel mio caso specifico tutto parte dalla lettura del recente Giorni Felici, secondo libro pubblicato dalla fumettista campana Zuzu anche questa volta in accoppiata editoriale con Coconino Press. La storia ruota intorno a Claudia, una non meglio specificata post-ventenne che aspira a diventare attrice di teatro con un piccolo grande segreto: il contatto con le emozioni, dalla paura all’innamoramento, la trasforma temporaneamente in un essere simile a una chimera, con zampe artigliate, denti aguzzi e ali. Il suo stare al mondo in queste condizioni la fa sentire distante dalla realtà, lontana dalla normalità di cui fondamentalmente ha paura perché immersa in uno stato che le appare fin troppo anomalo rispetto a ciò che ha intorno. Una lotta con se stessa e con il mondo che chiama in causa l’affermazione di sé, il dover mettere la proverbiale pietra sopra a certi momenti del passato e il ripensare quel che si pensava delle persone perché sempre pronte a rovinarti il ricordo che hai di loro.
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Dalla sommaria sinossi che ho scritto qui sopra è già possibile individuare dei temi piuttosto ricorrenti nella trattazione post-adolescenziale contemporanea. I ricordi, le situazioni tipiche di una fetta di gioventù che vede se stessa come alternativa ma quasi non si rende conto della sua stessa omologazione a un determinato schema. Ed è proprio il fatto che queste situazioni, sensazioni e motivi siano comuni a rendere il lavoro di Zuzu e di altre persone di questa sfera molto potente per la loro trasversalità ma al contempo estremamente effimero nel non essere completamente specifico e riferito. Non è un caso, infatti, che ad accompagnare l’uscita del libro sia stato un singolo creato ad hoc dal musicista romano Giorgio Poi, anch’esso una voce piuttosto risonante di questa narrazione che, però, racchiude nel suo lavoro i medesimi pregi e difetti. L’eccessiva spinta sul raccontare situazioni in cui chiunque può riconoscersi svuota lavori che invece avrebbero molto da dire se si concentrassero meno sui cliché, sulle frasi fatte e sul voler confezionare qualcosa di così variegato e strutturato come il periodo che segue la scoperta del sé in età adulta.
Lavori, questi come altri, che esteticamente e tecnicamente sono in concerto e in potenziale contrasto con il contenuto. Laddove infatti si sposa quel che effettivamente funziona per i tempi attuali si trova anche un vuoto di profondità e rotondità progettuale, che renderebbe il tutto decisamente meno di rapido consumo e resterebbe più a lungo nella mente di chi legge o ascolta, anziché venir poi sostituito dal prodotto successivo. Nello specifico del lavoro di Zuzu il suo bellissimo tratto e il modo così denso di posare i colori a pastello si scontra con un lavoro piuttosto sommario e quasi incompleto di impaginazione (con griglie che non vengono mai superate o distorte, ingabbiando tutto in una struttura troppo classica), e soprattutto di lettering con parole che avrebbero potuto avere spazi diversi in cui fiorire e raggiungere livelli di significato decisamente più impattanti. Discorso analogo può essere fatto per moltissimi altri lavori di questo tipo che si rivolgono a questo pubblico e che, molto spesso, sono fatti da persone che in passato hanno dimostrato di saper uscire dalla zona di comfort del riscontro facile in favore di spazi creativi più larghi capaci di offrire sia quella narrazione che anche stimoli più approfonditi.
Per concludere: quello di Zuzu, a malincuore, dopo Cheese – e con lei quello di tantissime altre voci della generazione – continua a confermarsi come un lavoro utile soltanto a raccogliere tanti “come ti/mi/vi capisco” fini a loro stessi, che non vanno oltre il semplificare racconti che anzi potrebbero essere ben più grandi rimanendo sempre nelle stesse mani. Una trasversalità che resta ancorata a una immedesimazione temporanea che lascia pochissimi altri ragionamenti a chi legge. Uno specchio dei tempi, dei modi e delle parole che la mia generazione usa su se stessa, forse troppo superficialmente, e che invece meriteremmo di raccontarci in modo più completo (perché possiamo, e dobbiamo). Dobbiamo superarci perché oltre la fascinazione itpop c’è di più, e sappiamo farlo bene se solo vogliamo.