Al cinema solo per due giorni il 23 e il 24 Marzo, My Hero Academia – The Movie: Two Heroes ci porta a I-Island, un’isola super tecnologica creata dall’uomo, dove possiamo scoprire qualcosa di più sul passato di All Might.
L’attesissimo film di My Hero Academia ci mostra l’I-Expo, un evento del tutto simile alle Expo dei giorni nostri nel quale le attrazioni funzionano grazie ai quirks. Idea originale e coerente, considerando l’evoluzione del genere umano nel mondo di MHA, dove l’80% della popolazione mondiale possiede dei super poteri, ma che a quanto pare rimane uguale al nostro mondo sotto molti aspetti. Faremo il nostro ingresso ad I-Island insieme a Izuku “Deku” Midoriya e All Might, il suo mentore, invitati a partecipare all’evento così come i compagni di classe del protagonista. Rivederli tutti insieme in un contesto così popolare e d’intrattenimento, lontano dalla scuola, creerà subito un piacevole senso di familiarità. Dopotutto, tutti i ragazzi dello Yuuei hanno ricevuto un’ottima caratterizzazione da parte dell’autore e anche qui dimostreranno di essere intelligenti e capaci a modo loro di contribuire al divertimento ma anche alla missione che dovranno affrontare questa volta, rimanendo fedeli a loro stessi in quanto a forza e personalità.
Non esattamente un “All Might: Origin”, dunque, come ormai ci hanno abituato i franchise Marvel o DC. Tuttavia, il film ci regala qualche bella scena direttamente dal passato di uno degli eroi più amati della popolarissima serie. Se il carisma e lo spirito di All Might conquistano ogni volta che appare sullo schermo, poterlo finalmente vedere un po’ più in azione durante i suoi anni d’oro in America è un regalo apprezzatissimo che farà felici tutti i piccoli Izuku-fanboy dentro di noi.
La storyline che lega All Might a Dave, il suo partner in America, è inoltre una delle cose più interessanti che My Hero Academia – The Movie: Two Heroes possa offrici: Dave è una di quelle persone che non possiedono quirk ma, essendo un ricercatore, si impegna per inventare nuovi dispositivi che aiutino gli heroes a dare il massimo, proprio come faceva da giovane quando aiutava il suo amico contro i Villains. L’azione non manca di certo e, insieme a questa, viene lanciata anche una piccola riflessione sulle scelte che gli heroes e chi li aiuta sono talvolta costretti a fare: anche chi vuole fare del bene deve sporcarsi le mani ma il fine giustifica sempre i mezzi? Le azioni di All Might in quanto Simbolo della Pace e quelle del suo amico Dave saranno, infatti, il motore della storia, che porterà ad una sorta di corsa ad ostacoli per la salvezza di tutti. Purtroppo, anche se la lotta finale è animata alla perfezione (benché forse un tantino troppo spinta sul pedale dell’epicità), il film perde moltissimo sul piano della sceneggiatura, affidandosi a battute poco corpose e a scenette ormai viste e riviste, soprattutto se si segue la serie manga regolarmente. A parte questi difettucci, è comunque un titolo da non farsi scappare, soprattutto se si è in crisi d’astinenza da nuova stagione, poiché la qualità generale rimane comunque altissima.
Ma andiamo adesso a soffermarci su quella che è la figura del supereroe e su come questa ci viene presentata in My Hero Academia in generale ma anche nel film Two Heroes. Che Horikoshi Kōhei sia un grande estimatore dei comics americani è un po’ un segreto di Pulcinella. I riferimenti sono sotto gli occhi di tutti e non è difficile coglierli. Il più evidente? L’estetica stessa di All Might. Avvolto in un costume attillatissimo, che ha anche subito vari restyling da parte dell’amico Dave, riprendendo senza troppe sottigliezze i colori della bandiera americana, strizza l’occhio a quello dello stesso Capitan America.
All Might (al secolo Yagi Toshinori) ci viene presentato come il Simbolo della Pace per eccellenza, colui che è riuscito a portare un effettivo calo di criminalità e un diffuso senso di sicurezza in un paese ormai assuefatto a poteri soprannaturali (o quirks) che sono ormai divenuti la norma. Un eroe dunque che non fa fatica a ricordarci illustri compagni d’armi d’oltreoceano, come il già citato Capitan America ma anche Superman. Laddove ci sono indubbiamente somiglianze estetiche e rimandi agli Stati Uniti sia nei nomi delle mosse speciali di All Might sia nel suo soggiorno americano dopo essersi diplomato dallo Yuuei, la figura dell’eroe nella cultura giapponese è piuttosto problematica presentando caratteristiche diverse rispetto alla sua controparte americana.
I supereroi in America
Vedendo la luce verso la fine degli anni ‘30, il fumetto americano ha cominciato a rivestire quello stesso ruolo che ogni mitologia ha avuto per altre culture e civiltà. Continuando passo passo ad aggiungere eroi al suo pantheon, la spinta primitiva che ha portato alla creazione del genere rimane però immutata: il desiderio o, ancora meglio, il bisogno di creare un simbolo, un modello a cui ispirarsi, un idolo da ammirare senza riserve. Come tale, il supereroe nella sua declinazione americana si ritrova ammantato di una lunga serie di qualità – coraggio, intraprendenza, altruismo, spiccata moralità tre le altre – che lo portano a essere unanimemente riconosciuto come un eroe, appunto.
A tutto ciò, non possiamo non aggiungere un qualsivoglia potere soprannaturale che doni all’eroe in questione una forza che lo renda dunque invincibile, divenendo quindi una vera salvaguardia per il genere umano, un’infallibile difesa contro ogni minaccia. Allo stesso tempo però, per mantenere il suo carattere apotropaico e continuare a rispondere al bisogno di un simbolo cui guardare nei momenti di difficoltà, il fumetto americano vive di una condizione tanto innaturale quanto rassicurante: il suo essere ciclico. Per quanto la minaccia possa essere soverchiante, per quanto il nemico di turno presenti poteri a prima vista più forti di quelli dell’eroe stesso c’è una sola certezza che accompagna il lettore, ovvero che l’eroe sconfiggerà sempre il male. Potrà anche morire nel tentativo ma non per questo il simbolo sparirà con lui. Anzi, un successore può a questo punto prendere il suo posto, farsi carico delle responsabilità che il ruolo richiede e portare avanti la sua eredità.
Se questa a grandi linee, e con molte generalizzazioni, può essere una scheda dell’eroe tipico del fumetto americano, non bisogna dimenticarsi che un’altra delle caratteristiche fondamentali del genere è il suo rispondere non solo alle esigenze della società ma anche ai suoi cambiamenti sociali. Così come l’America ha finalmente iniziato a fare i conti con le sue minoranze sia etniche che sessuali ma anche con l’inarrestabile cambio di rotta nella narrazione femminile che vuole adesso una donna non più relegata a ruoli secondari ma coinvolta in prima persona nell’azione, il fumetto si è, gioco forza, adeguato dando il meritato spazio a eroi con sessualità che esulano dall’eteronorma, a donne adesso indiscusse protagoniste (il caso più eclatante è stato quello di Thor reintrodotto nel 2014 in vesti femminili ma basta pensare anche al recentissimo Capitan Marvel), o a successori di eroi-simbolo che possano meglio rispecchiare il diversificato panorama etnico e culturale americano (tra tutti, Miles Morales, adolescente ispanico nero ultimissimo arrivato in casa Spiderman).
Da Astro Boy agli eroi in tute meccaniche: come nasce il genere in Giappone
Prendendo quelle appena descritte come caratteristiche principali del fumetto americano, a colpo d’occhio sembra piuttosto difficile trovarne una controparte in Giappone. Anche andando a scavare a fondo non è che le cose migliorino. Chiaramente, come tutti i generi artistici, il fumetto affonda le proprie radici nella cultura del paese in cui si è sviluppato perciò è piuttosto naturale che in un paese profondamente diverso dall’America come il Giappone, non solo il manga abbia caratteristiche, funzioni e scopi diversi ma che anche la figura stessa del supereroe subisca numerose scosse di adattamento. Nel Paese del Sol Levante, archetipo del genere è Astro Boy (Tetsuwan Atomu, in originale) uscito dalla penna di quel dio del manga che è stato Tezuka Osamu.
Bambino creato artificialmente dal dottor Tenma con le stesse fattezze del figlio morto da poco, Astro Boy verrà ben presto venduto da questi perché incapace di mostrare un ventaglio emotivo variegato tanto quanto quello di un qualsiasi essere umano. Dopo aver trovato una nuova casa dove viene finalmente apprezzato per quello che è, Astro Boy, grazie ai suoi poteri superumani, diventa quindi un paladino della giustizia e comincia a combattere il male sotto tutte le forme in cui si manifesta. Benché ci si trovi qui in un contesto sci-fi dove uomini e robot convivono senza troppi problemi e l’eroe in questione è esso stesso una creazione umana, Astro Boy getta le basi del genere e si propone come modello per tutti i suoi successori.
Fermandosi a riflettere su altri esponenti della categoria, è difficile sfuggire a una lunga serie di supereroi ammantati, in un modo o nell’altro, da un completo robotico dall’apparato tecnologico sofisticatissimo (ehi, ciao Iron Man!), quando questi non sono direttamente super-umanoidi provenienti dallo spazio. È questo il caso di Ultraman, dei Super Sentai (da noi i più conosciuti sono i Power Rangers), dei vari protagonisti della Metal Hero Series ma anche di Tekkaman. Ciò che li accomuna è l’aver visto la luce in un periodo storico del tutto particolare della storia giapponese, ovvero quello del boom economico, verificatosi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale per finire con lo scoppio della bolla economica nei primi anni Novanta. In un tale periodo di crescita e di sviluppo sia economico che tecnologico, la figura del supereroe doveva necessariamente legare la propria fortuna alle macchine vertendo quindi su un ideale di uomo sì comune ma che in virtù di una tuta che gli conferisce invincibilità e poteri superumani può ergersi a scudo contro qualsiasi minaccia alla Terra e ai suoi abitanti.
Supereroine vestite alla marinara
Come è noto, i manga si dividono in svariate categorie, ognuna delle quali ha come pubblico designato una diversa fetta di popolazione. Non è strano quindi che la figura dell’eroe con superpoteri valichi i confini del seinen e dello shonen per abbracciare anche lo shoujo. Ci ritroviamo così di fronte a una schiera di supereroine che grazie a poteri spesso conferitogli da animali parlanti riescono con pieno successo a portare a termine la loro missione di paladine in difesa della Terra. A questo proposito, è impossibile non pensare a Sailor Moon e al modello che ha rappresentato per molti altri personaggi che come Usagi e le altre intraprendono una super coreografica trasformazione per affrontare i nemici.
Anche se questo tipo di supereroine rientrano generalmente nel sottogenere majokko (in pratica quel filone che comprende tutte queste ragazzine con poteri magici) non possiamo non vedere che allo stesso tempo queste scolarette presentano caratteristiche tali da farle entrare nella categoria “eroe” a pieno titolo: un alter-ego, dei poteri superumani (in questo caso magici), delle uniformi pienamente riconoscibili, la volontà e la tenacia per portare avanti la propria missione a dispetto di qualsiasi avversità. Quello che però manca, in questo caso così come in altri simili, è il concetto di simbolo.
Benché prima di Sailor Moon, Sailor V (quella che poi diventerà Venus) può essere avvicinata a un ideale supereroistico che attinge a un bacino d’oltreoceano, essendo corredata dal proprio merchandise e presentandosi infatti come un modello a cui la stessa Usagi guarda con ammirazione, le nostre eroine non vengono mai riconosciute dalla società come difensori della sicurezza nazionale. Queste agiscono piuttosto nell’indifferenza della popolazione, totalmente noncuranti di un riconoscimento mediatico.
Breve guida per riconoscere un eroe
Soffermandoci adesso su quello che è in generale l’identikit dell’eroe all’interno dello shonen, vediamo che questo ha caratteristiche molto simili a quelle presentate della stessa Usagi. Solitamente goffo, spesso non dall’intelligenza spiccata ma da un animo incredibilmente onesto e guidato da un fortissimo senso del dovere: questo è il personaggio con cui solitamente si ha a che fare. Con le dovute eccezioni quindi non è difficile ricondurre a questo veloce ritratto molti dei nomi più amati di tante saghe popolarissime: Naruto, Luffy, Goku, Eren. Benché questi non siano di certo dei supereroi stricto sensu sono pur sempre esempi di personaggi che, come dicevamo, complicano il panorama nipponico e ci dimostrano come qua i confini non siano affatto super definiti, soprattutto considerando che lo stesso Izuku risponde sì alla descrizione ma è di fatto un supereroe a tutti gli effetti. Su questo però ritorneremo a breve.
Laddove il supereroe americano è solitamente un giovane uomo o un adulto già affermato che per svariati motivi decide di perseguire il cammino dell’eroe, lo stesso non accade in Giappone. Qua individui prediletti sono ragazzini assai giovani, che vanno dai 12 ai 15 anni, spesso con una personalità piuttosto normale che non appena acquisiscono i poteri intraprendono un lungo e sofferto allenamento per essere in grado di esercitarli a pieno (e in un certo senso questa caratterizzazione ci viene confermata da un prodotto americano come Spiderman: Un Nuovo Universo dove Peni Parker non solo ci viene presentata con un’estetica che pesca fortemente dagli anime ma è anche una liceale come vuole la tradizione). In questo caso, eccezione è Saitama di One-Punch Man ma lì le carte in tavola sono totalmente diverse in quanto è il prodotto stesso a proporsi come una parodia dei comics che solitamente si prendono troppo sul serio.
È proprio One-Punch Man però che ci offre il trampolino di lancio per tornare a parlare di My Hero Academia. Laddove in entrambi, una società supereroistica è ormai parte integrante del panorama sociale umano, l’opera di Horikoshi è uno shonen a tutti gli effetti perciò non solo un ragazzino di 13 anni ne diventa protagonista indiscusso ma l’ambientazione scolastica la fa da padrone. Per quanto sarebbe divertente proporre una disamina sulle differenze e le affinità tra questi due prodotti, è opportuno proseguire sulla giusta rotta e dare un occhio al solo My Hero Academia e alle figure dei suoi due eroi principali.
My Hero Academia: un ponte tra due modelli supereroistici
Come dicevamo all’inizio, l’ammirazione di Horikoshi per il fumetto americano è innegabile e il personaggio di All Might ne è la conferma. Ciò che è interessante vedere all’interno del mondo di My Hero Academia, sono le dinamiche generazionali tra i vari personaggi. Nonostante i riflettori illuminino per la maggior parte del tempo la nuova generazione di eroi che si sta formando, la precedente non viene affatto relegata in secondo piano ma anzi, forte di un simbolo come All Might, anche altri eroi vengono presentati e caricati di uno spessore non scontato. Questo perché, di base, il mondo di My Hero Academia ha un’impostazione più americana di qualsiasi altro prodotto giapponese simile.
Qua il concetto di simbolo, di generazione, di organo para-militare ormai totalmente assimilato dalla società (una sorta di Avengers all’ennesima potenza) domina il campo insieme a quello stesso modello ciclico cui abbiamo detto il fumetto americano risponde. A questo proposito, Deku e All Might sono i nostri punti di riferimento. Mettendo a nudo le proprie intenzioni, Horikoshi ci presenta non solo un rapporto mentore-pupillo giustificato da svariati motivi che vanno dall’incontrollata idolatria che Izuku nutre nei confronti di All Might fino all’eroe che è di fatto uno dei docenti del ragazzo, ma anche un legame intrinsecamente indissolubile, concetto ribadito nuovamente anche in Two Heroes. Infatti, inizialmente privo di qualsiasi quirk, Toshinori viene scelto da Shimura Nana, colei che possedeva precedentemente il mitico potere One For All, per poi divenire il cosiddetto Simbolo della Pace. Izuku, scelto da Toshinori come successore, si posiziona quindi all’interno di una catena di supereroi che sulle spalle hanno un destino diverso da quello degli altri. Non solo questi dovranno combattere il male, ma saranno anche gli unici capaci di affrontare e sconfiggere la minaccia derivante da All For One, nemesi di All Might e di tutti i detentori del potere.
Questo passaggio della torcia quindi mima in un certo senso la ciclicità del fumetto americano laddove alla morte di un eroe subito ne segue un altro capace di rivestirne il ruolo e assumerne, in qualche modo, l’identità. In My Hero Academia abbiamo infatti tutte le ragioni di credere che il passaggio di One For All possa avvenire ad libitum dando quindi il via a una catena di successori che portino alta la fiaccola del Simbolo di Pace, fino a ora incarnato da All Might. Ciò che non viene sacrificato è l’identità dei successori in quanto, in questo caso, è solo il titolo ciò che deve essere salvaguardato e My Hero Academia-Two Heroes lo dimostra perfino nel suo sottotitolo, sottolineando il legame tra Deku e All Might derivante da questa consapevolezza. Per questo motivo, dunque, possiamo vedere My Hero Academia come un possibile anello di collegamento tra il mondo supereroistico giapponese e quello americano, come una mano tesa verso un nuovo universo di infinite possibilità di contaminazioni, che vedono la loro realizzazione anche in film come questo.