Come tutti sanno, meditazione e acqua sono sposate per sempre.

Mi è stato sempre difficile capire perché i classici restino tali, anche se sembra che sempre meno persone li leggano. Si tratta, per inciso, di un pensiero personalissimo, che non è fondato su alcuna ricerca concreta. Chi vi scrive, semplicemente, è cresciuto all’insegna della grande letteratura d’avventura, che partendo da Melville, passando per Stevenson, arrivando al nostrano Salgari, hanno accompagnato buona parte della mia infanzia, e una cospicua fetta della mia gioventù. Verrebbe da dire che è così per tutti, eppure ogni volta che chiedo: “hai letto l’Isola del Tesoro?”, tanti, forse troppi, mi rispondono che ne hanno sentito parlare. Quello e basta, e questo è male. Ecco perché quando ho saputo di Nantucket, gioco per altro tutto italiano, sviluppato dalla torinese Picaresque Studio, sono stato percorso da un brivido confortante lungo la schiena. Perché nel suo piccolo Nantucket ripesca proprio da Melville, da uno dei padri del romanzo d’avventura e tra le più illustre penne del continente americano in generale. Nantucket, difatti, si pone come scopo quello di raccontare quelli che sono stati i fatti conseguenti agli ultimi eventi narrati in Moby Dick, la sintesi perfetta di un’epica moderna. Il più grande monito alle deviazioni che conseguono all’ossessione forsennata. La caccia per antonomasia all’ultimo, grande, “monstrum” epicamente inteso. La meraviglia, il terrore, la dannazione. Leggetelo.

“Lascio una scia bianca e torbida; pallide acque, gote ancor più pallide, dovunque io navighi. I flutti gelosi si gonfiano ai lati per sommergere la mia traccia; lo facciano; ma prima io passo.”

Ritessendo quindi il suo racconto dagli ultimi, drammatici, momenti narrati nel libro (che data la premessa di questo stesso articolo non vi riveleremo), Nantucket ci mette subito nei panni del volenteroso e temprato Ismaele, voce narrante del romando di Melville e, come intuirete, tra i personaggi fondamentali di quella che fu la rovinosa caccia che condusse il Capitano Achab e la sua nave, la Pequod, una “nave vecchia scuola”, il cui ricordo è ormai perso nel tempo.

Al giocatore, con Ismaele, il compito di riprendere la caccia all’inafferrabile balena bianca, mastodontico capodoglio nascosto ancora chissà dove tra le acque del mondo. Partendo priori dall’isola di Nantucket, al largo delle coste orientali dell’America del nord, Ismaele si metterà quindi al comando di una scalcagnata bagnarola, con pochi soldi in tasca e il bisogno di raggranellare il denaro sufficiente a poter costruire una ciurma di tutto rispetto, date le dimensioni e la forza della balena che, in ultima istanza, dovrà affrontare. Nantucket ci offre quindi un’esperienza marinaresca dal forte sapore gestionale, con giusto qualche spolverata da “survival”, nell’accezione più moderna possibile. A noi la visuale di un enorme carta con buona parte del mondo, con l’azione che sarà ovviamente concentrata sulla navigazione, e sul reperimento, l’acquisto e la vendita, di materie prime per lo più derivanti dalla caccia a cetacei e simili.

Niente azione propriamente intesa, né la gestione di menù complessi e articolati. Nantucket offre invece, ed anche intelligentemente, un sistema di gioco che chiede “solo” il corretto bilanciamento delle risorse economiche e non, per garantire che la nostra ciurma prosperi, che la nave non resti senza materiali utili alle riparazioni e che gli uomini, a Dio piacendo, non restino a secco di grog. La gran parte delle attività è dunque automatizzata, e dei comodi contatori ci segnaleranno semplicemente la quantità di materie in stiva, così da creare la necessità di una navigazione sempre studiata e mai troppo lunga, pena il deperimento del cibo, l’impossibilità di caricare le merci conseguenti la caccia, il timore di essere razziati dai pirati. Il tutto avviene, come in un gioco di ruolo pen&paper, per mezzo di numeri e statistiche, ed anche i viaggi in nave richiedono solo la selezione di un punto di arrivo ultimo, senza la possibilità di tracciare una vera e propria rotta, sebbene sia comunque possibile spostare la nave verso una direzione diversa quando si vuole. La sensazione è che nel tentativo di rendere il sistema gestionale più accessibile e digeribile, il gioco abbia finito per semplificarci un po’ troppo la vita, almeno dal punto di vista meramente gestionale, salvo poi riservarci momenti davvero dolorosi, quando ci si scontra con tutti i limiti di capienza, condizioni atmosferiche, o anche solo di ricerca dei territori di caccia.

In buona sostanza la curva di difficoltà del gioco è, sin da subito, abbastanza ripida, costringendo il giocatore a dei momenti di stallo, in cui altro non può essere richiesto che un lungo e doveroso grindig di risorse e denaro. Il punto è che l’intero gioco è “vissuto” attraverso la sua mappa globale e pochi e sparuti menù, ed anche i porti visitati, tutti rappresentati da una schermata praticamente identica a prescindere dalla locazione geografica, finiranno per darvi un tedio notevole già dopo un paio di ore di gioco. Insomma, al netto della sfida, che potrebbe anche essere apprezzabile, ben presto scorrazzare per un mare immaginario rimirato da una cartina geografica non è proprio il massimo, e finisce per spezzare quanto di buono il gioco si proporrebbe di fare. Perché, non dimentichiamolo, Nantucket ha alle spalle una forte premessa narrativa, raccontataci per mezzo di molti intermezzi testuali con cui, per altro, ci vengono riconsegnate anche numerose quest secondarie. Ma il grinding, la sostanziale piattezza della progressione di gioco, e soprattutto il riciclo costante delle missioni secondarie (doverose vista la necessità di risorse e denaro), finiranno ben presto per stomacarvi, facendovi ben presto perdere la voglia di scoprire se Ismaele riuscirà o meno nella sua impresa di rintracciare la mitica balena.

Neanche il sistema di combattimento riesce a risollevare le sorti del titolo, affidando ad un sistema piuttosto “casuale” gran parte delle battaglie che intraprenderemo. Avviato uno scontro, animale o umano che sia, il gioco cambia visuale, offrendoci un tabellone con le due fazioni contrapposte, e con una meccanica di attacco e uso delle abilità relegata al lancio di un dado con sei facce. A seconda della faccia del dado che riveleremo con il tiro, potremo effettuare una relativa azione con uno dei personaggi del party, cercando al contempo sia di restare vivi, che di evitare le più spiacevoli conseguenze dettate da un sistema randomico di condizioni meteo che, ad ogni turno, ci informerà sulle condizioni atmosferiche che, come avrete capito, influiranno sullo scontro. Questo perché tutti gli scontri sono ovviamente combattuti in mare, dove una nebbia, una risacca o anche solo una raffica di vento potrebbe influire sulla mira, sulla stabilità dell’imbarcazione o, perché no, sulla nostra capacità di restare a galla qualora dovessimo cadere in mare. Il problema è che il fattore randomico di questo sistema, unito al lancio dei dadi (parimenti casuale), che soprattutto ai primi livelli vede “dadi” con appena la metà delle facce assegnate (dunque, qualora uscisse fuori una faccia del dado senza azioni assegnate il lancio si risolverà in un turno perso!), rende persino gli scontri un tedio il che, in un gioco che apertamente chiede di accumulare risorse di caccia non è proprio il massimo. Cosa che, per altro, deve aver intuito anche il team, vista la possibilità di affidare all’IA l’andazzo dello scontro con la sola pressione di un tasto, ma anche lì non ci sono statistiche o certezze relative alla buona riuscita della battaglia e dunque, onde evitare che i nostri lupi di mare muoiano prematuramente, ecco che tocca per forza di cosa occuparsene di persona… con relativo mal di mare.

E dire che alle spalle c’è quel sistema di gestione già descritto, piccolo sì, ma nel bene o nel male abbastanza appagante, con in più un fitto meccanismo di miglioramento della propria ciurma, con i singoli che potremo assegnare a ben 4 classi di abilità, con una moltitudine di rami di specializzazione. Da cacciatori a medici, passando per cuochi, meteorologi, timonieri e filibustieri di varia natura, ognuno con abilità diverse sia attive che passive, atte a dare croci e delizie alle innumerevoli giornate di navigazione. Tutto lavoro che non è sprecato, intendiamoci, ma che finisce per passare in secondo piano rispetto al cuore dell’esperienza di gioco. Lenta, noiosa, semplicemente tediosa. Tale che anche la trama principale finisce per essere dimenticata, skippata dal forsennato click del nostro mouse, ormai da lungo tempo abituatosi a skippare le inutili finestre di dialogo di side quest da tempo immemore uguali a sé stesse. Se ci pensate, quasi l’ennesima realizzazione della maledizione della balena bianca, così maestosa e inafferrabile da non poter essere trattenuta dalle pagine di un libro, figurarsi dai riquadri pixellosi di una finestra di dialogo. Piccola nota per gli avventurosi di domani: il titolo è completamente, ed esclusivamente, in inglese.

“Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei!”

Verdetto

Nantucket è un titolo che avrebbe potuto farcela, non fosse altro per il possente riferimento letterario a cui vuole fare riferimento. Così importante, profondo, bellissimo e per certi versi inedito, se si considera quanto poco il videogame abbia attinto (e attinga) ai grandi classici della letteratura. Purtroppo però la realtà dei fatti è molto diversa, e pur avendo alle spalle molte buone idee, Nantucket finisce per trasformarsi velocemente in gioco lento e tedioso, persino per chi, come il sottoscritto, non ha mai disprezzato i titoli gestionali, finanche quelli più squisitamente ponderati. Ripetitivo, spesso inutilmente punitivo, e tediato da un gameplay più meccanico che macchinoso, Nantucket finisce per essere affrontato con le pinze, ed a piccoli bocconi, ovvero nel modo più errato in cui si dovrebbe affrontare un titolo concentrato sul farmare forsennatamente risorse e denaro.