“Pablo està muerto”
Quante volte abbiamo letto, o sentito, queste parole negli ultimi tempi? Quanto ci siamo arrovellati il capo nel tentativo di prevedere una terza stagione di Narcos senza El Patrón? Il momento della verità è arrivato. Da settembre, su Netflix, è approdata la nuova stagione di Narcos, e possiamo assicurarvi che non ne resterete affatto delusi. Dopo la morte di Pablo Escobar e l’uscita di scena dell’agente Murphy, Netflix ha deciso di raccontare la crescita esponenziale del Cartello di Cali, attraverso gli occhi e le gesta di Javier Peña (alias Pedro Pascal), l’ex compagno di Murphy, reintegrato nella DEA con il benestare della CIA, pronto a combattere i nuovi re, o padrini, del narcotraffico mondiale.
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Numeri alla mano, facilmente reperibili via web e, soprattutto, grazie al pesante lavoro di marketing di Netflix (che ci ha bombardato di video, gif, immagini e clip musicali), i signori della droga di Cali furono capaci di produrre 340 tonnellate di cocaina all’anno, con un conseguente guadagno pari a 15 miliardi di dollari, diventando i padroni di più dell’80% delle esportazioni di cocaina nel mondo. Una vera e propria macchina da soldi, un business incredibilmente grande, paragonabile ad un vero e proprio impero, capace di corrompere polizia, esercito, politici, stampa e gruppi militari (come le FARC), ancor più di quanto avesse fatto in passato il terrorista interpretato da Wagner Moura. A capo di ciò non vi era un solo uomo, sarebbe stato quasi impossibile (a meno che non ti chiami Pablo Emilio Escobar Gaviria), ma ben quattro, definitisi “i padrini di Cali”. I fratelli Gilberto e Miguel Rodriguez, Hélmer “Pacho” Herrera, e la new entry José Santacruz Londoño (detto Chepe).
I fratelli Rodriguez, ed in particolar modo Gilberto, vero capo dell’organizzazione, non sono gangster o efferati killer come il precedente re di Medellin, ma uomini d’affari capaci di non dover sprecare un singolo proiettile per ottenere quello che volevano, bastava pagare con fiumi di soldi facilmente ottenibili con qualche partita di coca. L’interpretazione dei fratelli, da parte di Damian Alcazar e Francisco Denis, è di grande qualità e il poter recitare nella propria lingua madre dona ai due attori (come alla restante parte del cast, d’altronde) la naturalezza e la freschezza che contraddistingue tutta la serie, permettendo loro di inscenare un rapporto fraterno/criminale convincente ed appassionante. In particolar modo, va apprezzata l’evoluzione del personaggio di Miguel, capace di tagliare pian piano il cordone ombelicale che lo legava al fratello maggiore, finendo per diventare l’altra faccia della medaglia.
I Rodriguez non sono come i vecchi narcotrafficanti, sono qualcosa di nuovo, di diverso, signori del crimine e degli affari, non provenienti dalla strada o dalla povertà ma cresciuti in ambienti di lusso e sfarzo. Tutte location che, come al solito, vengono ricostruite alla perfezione. L’alternanza tra ambienti sudamericani che spaziano tra Colombia e Panama, e la novità di New York (territorio di Chepe), permette allo spettatore di addentrarsi alla perfezione nel mondo dei narcos, fatto di laboratori nascosti nelle giungle, fincas lussuose dove si pianificano le strategie del Cartello, e la calle di Cali, vero territorio di guerra tra spacciatori ed agenti della DEA. Lo show è curato nei minimi dettagli e, oltre alle location, sono rappresentati alla perfezione anche i più piccoli dettagli utili a farci immergere negli anni ’90 della Colombia, come costumi e filmati originali dei TG dell’epoca.
Vero cuore pulsante della serie è, poi, l’agente Javier Peña. La terza stagione, infatti, se ci viene concesso il parallelismo, è paragonabile all’agente della DEA protagonista: una storia dinamica, eccitante, capace di farti entusiasmare ad ogni nuova puntata. Peña non paga dazio e non viene schiacciato dal peso dei suoi baffuti predecessori, ma diventa “one man show”, tenendo testa ai padrini da solo, grazie ad un’interpretazione bilingue fantastica che riesce perfettamente a far arrivare allo spettatore il pensiero e la fatica patita dall’agente che non si limita a combattere i narcos, ma che deve essere anche abile a lottare contro un sistema corrotto in ogni dove. Peña è l’uomo della giustizia capace di rischiarare il cielo burrascoso presente su Cali, finendo per diventare nemico anche delle istituzioni, perché non è disposto a scendere a compromessi e, seppur molte sue azioni, e frequentazioni, possano essere descritte dal machiavellico fine che “giustifica i mezzi”, saranno tutte atte ad eliminare i business man della cocaina. Grazie a lui, tutta Narcos riesce costantemente a viaggiare a ritmi altissimi, e anche le scene di quiete riescono a donare pathos e adrenalina allo spettatore, incalzato dalle pianificazioni di Peña e del suo team.
Oltre ai già citati borghesi Rodriguez, a ridare le tonalità della vecchia scuola criminale, apprezzata nelle prime due stagioni, sono Pacho Herrera e la new entry Chepe Santacruz. Il primo, interpretato da Alberto Ammann, è il vero fautore dei massacri del cartello, un ragazzo di bell’aspetto e dal passato travagliato, sedotto dalla filosofia e dal potere dei Rodriguez, divenuto mente e braccio dei padrini di Cali. Pacho è intelligente e spietato, un Dorian Gray del narcotraffico, affascinato dal mondo del crimine e disposto anche ad iniziare una guerra per il predominio del commercio.
Il secondo, invece, è il personaggio più affascinante, ma al contempo meno sfruttato, tra i padrini di Cali. Chepe è quanto di più simile ci possa essere al defunto Escobar. Responsabile dei laboratori chimici presenti a New York, vista la sua abilità amministrativa e i suoi studi in materia, è l’incarnazione della celebre affermazione “plata o plomo”, visto che una volta effettuata una proposta sarà impossibile rifiutarla, salvo spiacevoli conseguenze. L’interpretazione da parte di Pepe Rapazote, capace di camuffare ottimamente il suo accento portoghese (nativo di Lisbona), è di pregevole fattura, visto che la gestualità, l’espressività e il suo timbro graffiato sono perfetti per un personaggio scolpito a immagine e somiglianza dello show stesso, essendo lui la vera controparte dell’agente Peña. Tale descrizione dovrebbe far sorgere spontanea, però, una domanda allo spettatore: perché dargli così poco spazio? Il minutaggio di Chepe, infatti, non lo gratifica, finendo per relegarlo ad un ruolo da comprimario, capace comunque di entusiasmare ogniqualvolta appare in scena. Un personaggio veramente affascinante, quindi, ma non adeguatamente sfruttato.
Per chiudere il cerchio dei personaggi di spicco del cast, la figura alla quale molti, inaspettatamente, si appassioneranno è quella di Jorge Salcedo, responsabile della sicurezza di Cali. Un uomo come tutti gli altri, non un assassino, non un criminale, ma uno “onesto” che crede in ciò che fa. Un suggerimento? Prestate attenzione tutte le volte che Salcedo esce di casa: la sua ripetitività nei gesti mattutini basterà a comprendere che uomo sia realmente.
Ad un grande show, però, non può mancare una grande colonna sonora, e infatti tutte le canzoni tipicamente da barrio, e quelle rap udibili nelle sequenze americane, sono perfette per fare da cornice agli avvenimenti su schermo. Fotografia, invece, buona ma non indimenticabile visto che, seppure di ottima fattura, come d’altronde è tutta la serie, non risulta essere il punto di forza sul quale la produzione Netflix vuole puntare.
Verdetto:
La terza stagione di Narcos, in sostanza, non sente il peso dell’assenza di Pablo Escobar, ma riesce tranquillamente a mantenere un livello qualitativamente eccezionale, finendo per diventare, con ogni probabilità, il miglior prodotto originale Netflix finora. Una serie (comprese le due passate stagioni) con scelte registiche, attuate da Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro, paragonabili a quelle hollywoodiane d’alto profilo, con colpi di scena capaci di donare freschezza e dinamicità mai viste prima in un prodotto seriale. Corona il tutto un cast, seppur poco conosciuto ai più, di grande bravura, supportato dalla fondamentale e azzeccatissima decisione di improntare la serie sul bilinguismo recitativo. Insomma: Narcos si riconferma eccezionale.