La narrativa dell’antropocene incarna il mutamento di sensibilità che la letteratura sta attuando per raccontare il presente sempre più in bilico della società
Crisi climatica, gentrificazione, scarsità di risorse, migrazioni, divario economico, estinzioni di massa: sono tutti temi non proprio rassicuranti con i quali negli ultimi anni stiamo acquisendo nostro malgrado sempre più familiarità. Mentre il mondo sembra avviarsi verso uno dei periodi più complessi della storia, la letteratura cerca di stare al passo, e lo fa con la narrativa dell’antropocene.
Benvenuti nell’antropocene
Ma prima di parlare della narrativa dell’antropocene, dovremmo capire cos’è l’antropocene. Il termine è stato coniato per la prima volta negli anni ’80 e viene solitamente attribuito al biologo Eugene Stoermer, però in realtà veniva informalmente usato già dalla metà degi anni Settanta. L’antropocene è definito come l’attuale era geologica del pianeta Terra, in cui tutti i mutamenti ambientali più evidenti sono causati in maniera diretta o indiretta dalle attività dell’uomo.
L’antropocene è quindi l’epoca successiva all’olocene, quella in cui sono comparsi e si sono diffusi i primi ominidi. A partire dal 2016 è in corso una discussione presso gli organismi internazionali di geologia per includere ufficialmente questa nomenclatura nella scala geologica delle ere della Terra, ma ad oggi non è ancora stato raggiunto un accordo. Anche l’inizio dell’antropocene non è ancora stato individuato all’unanimità, ma l’opzione più diffusa è il momento della nascita dell’agricoltura, tra 12.000 e 15.000 anni fa.
Per quanto dedicare una nuova era geologica soltanto alla comparsa dell’uomo sul pianeta possa apparire un peccato di antropocentrismo, ha senso parlare di antropocene in quanto i cambiamenti subìti dal pianeta nell’arco di questi quindicimila anni sono tanto profondi da poter lasciare tracce fossili rilevabili anche tra milioni di anni.
La deforestazione, l’aumento di acidità dell’acqua, la concentrazione urbana, la produzione di rifiuti, il riscaldamento globale, la riduzione della biodiversità avranno tutti conseguenze a lungo termine rilevabili nel futuro remoto. La Terra si ricorderà di noi, insomma, anche se non proprio per come ci piacerebbe essere ricordati.
Raccontare la Grande Estinzione
Negli ultimi anni le conseguenze dell’intervento umano sull’ambiente si sono fatti sempre più evidenti. Non passa settimana che un qualche fenomeno riconducibile alla nostra presenza sul pianeta si imponga sulla cronaca. E se anche si può pensare che i media tendano a esaltare certe notizie che ormai sono un trending topic, non si può negare che la stessa attenzione che questi temi suscitano sia indicativa. In una situazione simile, quale può essere il ruolo degli scrittori nei confronti dell’antropocene?
È questa la domanda a cui ha cercato di rispondere Matteo Meschiari, già autore di diversi testi di narrativa e saggistica tra cui L’ora del mondo e Geoanarchia – Appunti di resistenza ecologica, nel suo nuovo libro La Grande Estinzione – Immaginare ai tempi del collasso, pubblicato da Armillaria. Meschiari imposta questo breve testo come una sorta di pamphlet, un punto di raccordo tra i numerosi spunti che stanno emergendo nella cultura contemporanea, per permettere di tracciare una mappa di quel fenomeno che è (o dovrebbe essere) la narrativa dell’antropocene.
Siamo abituati a pensare all’estinzione come a un concetto astratto e relegato a grandi catastrofi del passato come quella dei dinosauri. Ma la Grande Estinzione intesa da Meschiari è una sorta di gioco in stile sandbox: presa una popolazione, un territorio e una cultura di partenza, possiamo provare a immaginare come quella cultura si modificherà nel corso del tempo per permettere alla popolazione di sopravvivere, se questo è possibile. Il gioco della Grande Estinzione finora non ha avuto vincitori: la storia ha dimostrato che l’epilogo di qualunque civiltà e paradigma è sempre stata la disfatta, ad opera di altre civiltà, altri paradigmi o cause di forza maggiore. Non c’è motivo di pensare che la partita in corso avrà una conclusione diversa, anzi, pare semmai che ci stiamo avvicinando allo scontro con il boss finale senza aver accumulato abbastanza punti esperienza.
Il potere della narrativa ai tempi dell’antropocene
Il messaggio di La Grande Estinzione non è tanto un monito dai toni apocalittici sull’imminente e inevitabile catastrofe. Quello che Meschiari cerca di fare è piuttosto dare origine a un movimento culturale che prenda coscienza di questo stato di cose e si confronti con un mondo ormai profondamente cambiato rispetto a quello di soli vent’anni fa. Rifugiarsi nel nostalgismo e illudersi di vivere ancora nella beata ignoranza degli anni ’80, come molti libri, film e serie tv sembrano volerci indurre a fare, non è la soluzione. Al contrario, autori e artisti devono abbracciare la nuova causa, l’unica che importi davvero: narrare l’antropocene.
La Grande Estinzione non è certo il primo testo che si occupa della questione. Molti autori hanno già trattato l’antropocene come tema cardine delle loro storie, e lo stesso Meschiari offre in appendice al suo libro un’ampia bibliografia di romanzi e saggi sull’argomento, da La strada di Cormac McCarthy a Staying with the Trouble di Donna Haraway, da The Weird and the Eerie di Mark Fisher a La Città dell’orca di Sam J. Miller.
L’invito è quello a non ignorare l’elefante nella stanza e distaccarsi da quella tradizione asfittica del romanzetto piccolo borghese fatto di crisi matrimoniali e corsa competitiva alla realizzazione personale. In tal senso gli strumenti della narrativa speculativa, quella in cui l’immaginazione di scenari alternativi è il motore dell’intera storia, si rivelano senza dubbio i più efficaci. Non a caso la fantascienza porta avanti il messaggio antropocenico già da decenni, e ad essa si stanno finalmente affiancando anche opere non chiaramente inquadrate nel genere.
Il principio di base che ispira questa auspicabile rivoluzione culturale è “Fiction is Action”: riconoscere la centralità della narrativa quale mezzo di diffusione di messaggi profondi. Il potere immaginativo dell’uomo, che nell’epoca post-industriale è stato spesso classificato come devianza poiché improduttivo in meri termini monetari, è forse la risorsa più importante che abbiamo a disposizione per raggiungere una nuova consapevolezza: laddove la società incontra dei limiti più o meno autoimposti, l’immaginazione può sconfinare e trovare qualcosa di oltre.
Il potere della narrativa sta proprio nella capacità degli autori di esplorare questo oltre e offrirne la visione agli altri. C’è una ragione per cui alcuni antropologi hanno individuato nella capacità di raccontare storie la caratteristica fondamentale che ha plasmato la civiltà umana, tanto da adottare la definizione di Homo Fictus: di questo abbiamo bisogno noi abitanti del tardo antropocene, proprio come ne avevano bisogno i nostri antenati.
There Is No Alternative
Dopo il manifesto contenuto in La Grande Estinzione, Meschiari ha proseguito nella sua diffusione del messaggio Fiction Is Action, ed è già in preparazione il progetto TINA, un romanzo collettivo formato da microstorie di una molteplicità di autori anonimi, che racconta le innumerevoli retroapocalissi della storia del mondo. Il titolo del progetto deriva dal motto Thatcheriano There Is No Alternative, proprio a indicare come la fede nell’assolutismo del paradigma in vigore (sia esso il neoliberismo, il capitalismo, il consumismo, lo specismo, lo scientismo o qualunque altro tipo di -ismo) possa portarci al collasso, come già è avvenuto in tante occasioni precedenti che per comodità fingiamo di non conoscere.
TINA è nato sul blog La Grande Estinzione, sul quale vengono raccolti anche numerosi contributi sempre incentrati sul tema dell’antropocene. Il progetto sarà presentato in anteprima sabato 8 febbraio alla libreria Diari di Bordo di Parma da Matteo Meschiari e Antonio Vena.