Roberto Recchioni, sicuramente uno degli protagonisti di punta nel panorama italiano fumettistico, grande autore di perle del fumetto nostrano come Dylan Dog e Orfani che non ha certo bisogno di presentazioni. Lo abbiamo incontrato e intervistato all’ARF Festival 2015. Ecco cosa ci ha raccontato.
Su tutto ti ringraziamo per l’occasione di conoscerti, anche perché l’ARF è un momento meraviglioso per incontrare gli autori ed è quasi un’anomalia rispetto al modus operandi delle fiere degli ultimi anni che non permettono il contatto con l’autore, che invece io credo sia una cosa che all’origine del fumetto era molto più presente…
Beh una volta incontrare l’autore era una chimera, quando ero ragazzino io se incontravi Magnus ti mettevi a piangere, l’occasione di solito arrivava a Lucca che era una fiera molto incentrata sul fumetto. All’epoca potevi sederti nelle scalinate con Pazienza oppure passeggiare con Pratt. Poi le fiere sono diventate altro, e a me piace questo: Lucca oggi è una meravigliosa fiera dell’intrattenimento ed è la fiera che stacca più biglietti al mondo attualmente in questo settore. È importante però che esistano appuntamenti come l’ARF o come il Treviso Comic Book Festival dove invece c’è una dimensione più raccolta, più autoriale, dove ci si concentra in questo caso specifico sul fumetto.
Ormai se uno degli autori di fumetto tra i più noti nel panorama italiano. Quanto è stata dura arrivare fin qui? Com’è stato il tuo cammino?
Io lavoro ininterrottamente da 20 anni, a ritmi disumani e che diventano ogni mese più tosti. Il cammino è quello canonico del fumettista, nel senso che ho semplicemente iniziato a “fare le cose”. Quando ti chiedono come si diventa fumettista la risposta è sempre questa: facendo i fumetti. Facendoli. Non dicendo di volerli fare. Io sono stato “fortunato” perché ho esordito con una testata in edicola direttamente con un editore folle. Poi quell’editore folle è sparito con tutti i soldi, cosi mi sono ritrovato con il “culo per terra”, per usare un francesismo, però da lì in poi è stata una normale progressione del lavoro: fai fumetti indipendente auto prodotti, lavori per piccole case editrici, e passo dopo passo cresci. Poi se sei bravo, se c’è voglia di proporti, se hai “fame”, vai avanti. Che poi sembra che questo modo di dire sia un patrimonio di Steve Jobs ma era in realtà una canzone dei Twisted Sister: “Stay Hungry”, rimani sempre affamato, devi avere voglia di arrivare. Io ho bruciato ogni mia possibilità di tornare indietro, ho lasciato l’università, ho cominciato a lavorare a vent’anni, se non avesse funzionato con i fumetti probabilmente sarei diventato un “barbone”. Se hai una via di fuga comoda ti adagi.
Ci stiamo avviando alla conclusione della seconda stagione di Orfani, per cui ti facciamo i complimenti. In questa occasione hai dato vita a un personaggio unico, Ringo, un protagonista doloroso e dolorante ma che sa ancora combattere. Quali sono state le influenze e le fonti di ispirazione dietro a Ringo?
Beh Ringo è chiaramente figlio di tutti gli action hero degli anni 80 prima ancora che arrivasse l’ironia portata da film come Commando e poi ripresa successivamente da altre pellicole come Arma Letale 2. C’era un periodo in cui l’action presentava eroi drammatici, il primo Martin Riggs di Arma Letale non era comico, era totalmente drammatico e con fortissime tendenze suicide. Ringo entra in questa schiera di personaggi: è desueto, demodé in un mondo in cui vivono gli hipster, la musica indie, i personaggi che si piangono addosso ecc. Ringo è molto canonico: un personaggio duro con un passato drammatico. Io ho una passione per l’action degli anni 80. L’importante è inserirlo in un contesto e una narrazione moderna. Quindi è un eroe da anni 80, inserito però in modo di raccontarlo che sia contemporaneo.
Sempre rimanendo su Orfani: ci puoi dare qualche anticipazione sulla terza stagione? Ce ne sarà una quarta?
Della terza annunciata stagione, abbiamo mostrato una tavola, ed è già in uno stato di lavorazione molto avanzato. Ci sarà anche una quarta stagione, il numero uno della quarta stagione lo disegnerà Carmine Di Giandomenico, non sappiamo se ci sarà una quinta perché è molto prematuro, però il progetto va avanti bene: l’idea di Orfani era fare un fumetto Bonelli che sopravvivesse al di là dell’edicola. I volumi BAO sono andati molto bene e dimostrano che il fumetto Bonelli deve vivere più di trenta giorni in edicola. Poi c’è stata l’operazione con la Rai e Motion Comic. La Rai vorrebbe rinnovare la seconda stagione, noi stiamo valutando, potrebbero inoltre esserci altri progetti in ballo e insomma, siamo tutti molto contenti.
Veniamo a un altro tuo grande successo editoriale: la gestione Dylan Dog e il suo rilancio. Quanto è stato difficile per te pensare tutti questi stravolgimenti sul fronte narrativo che di fatto alteravano la continuity del fumetto Bonelli? Come hai affrontato questa responsabilità?
È difficile principalmente per il rischio, le idee in realtà ci sono sempre state. Io le idee ce le avevo quando Dylan Dog lo sceneggiavo solo e quando sono diventato il curatore, tutto stava nel metterlo in pratica. Abbiamo parlato tanto con Tiziano Sclavi sulle cose da fare, alcune le avete viste, alcune le vedrete, in particolare vi consiglio di leggere l’albo di Paola Barbato tra due mesi in edicola che rappresenterà un terremoto nell’universo Dylaniano. C’è una forte responsabilità che però fa parte dell’eredità di Dylan Dog, quella che mi ha lasciato Tiziano o meglio, di cui mi ha caricato Tiziano. Si parla spesso di cosa significhi eredità: per molti anni si è creduto che portare avanti l’idea di Dylan volesse dire “cristallizzarlo” negli stilemi di Tiziano. Io e Tiziano pensiamo che invece l’eredità di Dylan stia proprio nel fatto che il personaggio si è sempre “tradito”, si è sempre rinnovato, ha sempre rischiato. Quindi per noi la vera eredità è continuare a rischiare sul personaggio.
Parlando proprio di Tiziano Sclavi, che si prova a stare davanti al padre vivente del fumetto popolare moderno? E quanto hai imparato da lui e dai lavori che ha fatto?
Quando mi sono occupato di John Doe sapevo di stare facendo una versione antitetica di Dylan Dog. Era l’opposto quasi in tutto: in sensibilità, in atteggiamento, però era scritto secondo i dettami di Tiziano. Quel post modernismo che oggi è la regola dopo Tarantino e dopo tutta la cultura nerd che ha preso il potere, Tiziano lo aveva anticipato nei tardi anni 80. Anzi si può dire che è stato uno dei primi a portare il post modernismo nell’ambito Popolare. Ho letto il primo numero di Dylan Dog che avevo 12 anni. Era il numero 5 e insieme ad un’altra manciata di fumetti fu uno dei più fondamentali della mia vita. Quindi è davvero emozionante potersi trovare davanti a Tiziano. Oggi mi sono abituato, ma le prime volte balbettavo.
Sei una persona poliedrica, sempre pieno di progetti: tra gli ultimi c’è il sorprendente remake della Notte dei morti viventi e 4 Hoods, un’opera di cui ancora non sappiamo molto. Ci vuoi dire due parole su questi due futuri lavori, su quanto siano differenti e su quali siano siano le differenze di registro e di target.
Il remake di Dylan nasce dalla necessità di rintrodurre il personaggio in un contesto diverso e raccontarlo a un pubblico che magari non lo aveva mai letto per un’operazione editoriale di cui è ancora presto per parlare. Nata l’idea di fare una storia remake, abbiamo deciso di farne quattro in maniera che poi quella storia venisse ospitata all’interno di un Color Fest a tema. È un gioco, non stiamo riscrivendo le origini di Dylan ma ognuna di queste storie viene guardata da un punto di vista diverso e raccontata da autori di pregio. Non pensiamo che queste storie andranno a sostituire quelle originali quanto che siano divertenti per il lettore per vedere delle angolazioni diverse su “Il lungo addio”, su “Diabolo il grande” ecc.
Per quel che riguarda 4 Hoods non ti posso dire nulla se non che a brevissimo ci saranno novità.
Sei molto attivo nel panorama social internettiano, interagisci molto con gli utenti che ti seguono e intavoli discussioni anche lunghissime, senza mancare mai di bacchettare chi dice delle stronzate. Insomma, ti sei costruito un personaggio duro e intransigente. Quanto rispecchia questo il tuo vero carattere?
Non mi sono assolutamente costruito un personaggio, chi mi segue dall’inizio sa benissimo che io sono cosi, nel bene e nel male. Ho il mio carattere, spesso è spigoloso, quindi ogni tanto tendo a pensare che come utente io mi ponga nello stesso piano di chiunque mi scriva. Penso che se stessimo in un bar certe volte taluni non userebbero quei toni e si permettono di farlo perché c’è uno schermo di mezzo, quindi in sostanza se tu non mi dai rispetto, io non te ne do di conseguenza e ovviamente, viceversa. Oggi nei commenti di qualsiasi natura trovi i mostri veri, sotto ogni tipo di notizia. Come in chimica pare sia una sorta di acceleratore del peggio di quello che possiamo dare. Io sento l’esigenza di fare un passo indietro rispetto al rapporto diretto che ho sempre applicato. A me piace il Punk, ho sempre pensato che il palco deve stare alla stessa altezza degli spettatori, però… forse lo metto un po’ più lontano.
Ora una domanda a bruciapelo: perché uno Studio in Rosso? Perché questa necessità di riunire sotto lo stesso tetto tanti nomi grossi del fumetto?
Lo Studio in Rosso nasce come coworking, cioè uno spazio dove degli amici che giocano tutti i martedì a Dungeons & Dragons lavoravano. Quindi siamo di fatto un gruppo di amici che si è riunito. L’idea era avere uno spazio comune dove lavorare perché ogni tanto ti prende male lavorare tutti i giorni a casa davanti al computer da solo. Chiaramente metti 8 persone tra fumettisti, sceneggiatori, videomaker e storyboard artist nella stessa stanza cosi nascono i progetti insieme. Quindi si è passati da “lavoriamo insieme nello stesso spazio” a “lavoriamo insieme sulle stesse cose”.
Quali saranno i prossimi progetti di questo Studio? A cosa ci dobbiamo preparare?
Lavoriamo un po’ su tutto, abbiamo Battaglia, un nuovo progetto per la Star Comics, molti autori che lavorano in Bonelli sia per Dylan Dog che per altri progetti. Un progetto univoco che nasce solo per lo Studio In Rosso non c’è. Al momento continuiamo a divertirci con vignette e scemate sul web. Lavoriamo tutti molto su un progetto nuovo che annunceremo a breve che però non è DELLO Studio In Rosso, è un progetto enorme in cui lo Studio ha un ruolo importantissimo.
Al giorno d’oggi, quanto conta la presenza su internet, tra facebook, tumblr, blog personali e twitter per riuscire a farsi conoscere come disegnatore o autore di fumetti?
Alla fine va bene tutto, il fumetto rimane sempre quello. Cambia la piattaforma, come siamo passati dal floppy disk al digital delivery. Io ho una massima stima di autori nati sul web come Zero Calcare e altri. Non ho nessun tipo di barriera, anzi penso che sarebbe stato figo quando iniziai a fare le mie auto produzioni avere uno strumento come il web, perché elimina un sacco di problemi e soprattutto sei bravo puoi fare delle cose e raggiunge tutti senza problemi di stampa e distribuzione.
Quale il ruolo del fumetto oggi e quale deve essere il ruolo del fumetto italiano, che viene forse a volte eclissato dalle produzioni americane?
È sempre una questione di percezione: Spiderman vende circa 10.000 copie, il fumetto meno venduto di Bonelli ne vende circa 30.000. Quindi la percezione è legata al web e al fatto che determinati fumetti hanno sviluppato community nerd molto più forti di altre. La community di Zagor è molto più forte di qualsiasi community legata ai fumetti americani. Quanto al ruolo del fumetto non saprei, diffido sempre nel dare una missione al linguaggio, che deve solo cercare di esprimersi al meglio. E secondo me questa è una delle migliori stagioni per il fumetto, con grandi autori e molti progetti.