No More Heroes 3 ci porta per l’ultima volta a Santa Destroy, tra problemi tecnici e un’importante impronta autoriale
Ogni volta che ci si avvicina a un gioco di Suda51 (o di Swery, o di qualsiasi game designer che non si approcci al videogioco seguendo le regole scritte nella pietra del tripla A o dei canoni estetici, ludici, narrativi o tematici occidentali) viene fuori il termine “follia”. “L’opera di Suda51 è folle” derubrica tutto il lavoro dell’autore a qualcosa di buttato in caciara, (non)pensato solo per far sorridere con trovate fuori dalle righe e senza una vera e propria direzione. L’opera di Gōichi Suda è invece artisticamente e tematicamente estremamente coerente, se solo si vuole fare lo sforzo di leggerla.
No More Heroes 3 si inserisce perfettamente nel percorso artistico dell’autore e nell’evoluzione della serie a cui appartiene, che prosegue e conclude in modo ottimo se si vuole fare quel passo in più per superare l’aspetto tecnico. Quest’ultimo è certamente disastroso, con texture sfocate, framerate in caduta libera nelle aree open world e una struttura complessiva certamente desueta, ma che contemporaneamente appare volutamente così impostata.
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No More Heroes 3 è molto di più delle spadate, delle missioni secondarie ripetitive e di un framerate a volte claudicante (e altre volte fisso a 60fps). Sembra, ed è, il lavoro di un collettivo di artisti, un discorso sul videogame e sulla crescita creativa dell’autore, che si guarda contemporaneamente alle spalle e davanti, un nuovo tassello nell’universo Kill the Past.
C’è dentro No More Heroes, il primo, con la sua critica all’industria del videogioco e ai suoi stilemi, ma anche al giocatore e alla sua voglia insaziabile di picchiare perché sì, ai suoi riferimenti culturali che Suda non sembra disprezzare, ma anzi riconosce come terreno comune di dialogo con il giocatore e come punto di partenza per andare avanti. Ci sono anche collegamenti diretti con Travis Strikes Again e il suo discorso sul videogioco indipendente.
No More Heroes 3 è però prima di tutto, come si diceva, il lavoro di un collettivo di artisti, ed è impossibile non notare lo splendore di quello che succede oltre il gameplay, tra le righe del videogioco. Intermezzi e siparietti parlano sempre lingue diversi con inflessioni diverse, ogni volta grazie all’intervento di diversi artisti e con richiami a diversi aspetti di quel terreno comune, dove Suda invita il giocatore al confronto.
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I giocattoli di un tempo, gli anime, le visual novel, gli arcade, i tokusatsu e il cinema di Miike vengono declinati nel mondo e nella lingua di No More Heroes e servono a costruire forse più del videogioco stesso il contesto in cui vive Travis, che poi è anche il nostro perché in fondo Travis siamo noi tutti con il pad in mano.
Suda ci mette in mano tutti gli strumenti per leggere la sua opera, anche in retrospettiva. Il problema, che è anche contemporaneamente una parte del fascino, è una certa distanza tra noi e il mondo dell’autore, sia interiore che per formazione culturale. Ma questo non significa che Suda sia folle, anzi, è un invito ad entrare in un mondo altro.
A margine di tutto questo c’è poi un gioco ottimo in alcune parti, più debole in altre, ma comunque appagante. L’esplorazione della città ricorda da vicino quella del primo capitolo: una mappa sostanzialmente vuota e morta con dei punti di interesse da raggiungere per accedere a dei minigame piuttosto ripetitivi, ma utili a guadagnare qualche soldo per accedere alla prossima tappa della storia, e dei collezionabili da trovare.
Quello che un po’ dispiace rispetto al primo capitolo è l’abbandono dei livelli precedenti i boss, trasformati in una serie di combattimenti da trovare sempre sulla mappa del mondo e ambientati in pochissimi aree.
Il combattimento è però ottimo, salva una finestra di schivata un po’ difficile da capire, con un ottimo feedback dei colpi e diverse nuove skill che danno una dimensione molto più strategica che in passato agli scontri. L’apice è chiaramente raggiunto nelle boss fight, dove con trovate sempre nuove Grasshopper Manifacture da corpo a soluzioni (quasi) sempre nuove e si prende il suo tempo per raccontare i diversi invasori alieni che, come nella miglior tradizione tokusatsu, andremo ad affrontare.
No More Heroes 3 scorre così per 12 ore, tra momenti disarmanti, combattimenti sanguinosi, citazioni dalla cultura pop e citazioni dall’opera di Suda stesso, con parentesi inaspettate e una scrittura eccellente. Voler vedere No More Heroes 3 come un action adventure e basta, mettendo da parte tutto il resto dell’opera, è piuttosto miope e non rende giustizia alla complessità dell’opera nel suo complesso, molto più sfaccettata della sua sola parte videogame.
C’è una visione d’insieme che tiene coesi tutti gli elementi in maniera naturale e organica, e il concentrarsi sul mostruoso pop up e le orribili texture non fa bene al discorso critico attorno al videogioco.
Senza volersi neanche addentrare troppo nell’approfondimento di quello che c’è sotto, è possibile lasciarsi trasportare da questo caleidoscopio di suggestioni visive, musicali e testuali che è No More Heroes 3, mettendo in pausa tutto il resto e facendosi portare per mano da Suda51 in Santa Destroy e zone limitrofe, per trovarsi stimolati e catturati.
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