Novità su Netflix, la miniserie Omicidio tra i Mormoni esplora una storia così folle da sembrare inventata. Ma è tutto vero
Lo ha fatto di nuovo: Netflix ha messo a segno un’altra miniserie true crime che tiene col naso incollato allo schermo dall’inizio alla fine. Lo diciamo subito, a inizio recensione e senza mezzi termini, perché ormai che Netflix sia maestra nell’arte del portare sul piccolo schermo le più agghiaccianti vicissitudini di cronaca nera degli ultimi anni non c’è dubbio. Quest’ultima fatica va quindi ad arricchire una platea già ben nutrita di prodotti del genere, toccando però un tema ancora inedito, ovvero quello dei Mormoni e del più famoso crimine che li riguarda.
Pubblicata il 2 marzo 2021, Omicidio tra i Mormoni è una miniserie in tre puntate, della durata di circa 45/50 minuti ciascuno: l’effetto è, in sostanza, quello di guardare un lungo documentario, perché – come già accennato in apertura – è quasi impossibile fermare la visione. La trama disvela infatti un punto decisamente oscuro della storia dello stato dello Utah, quando due persone morirono a causa di alcuni ordigni, delitto che portò le indagini a scoprire quella che si rivelò una delle più incredibili frodi al mondo nonché una delle più prolifiche attività di falsario di sempre, ai danni della chiesa mormonica e, addirittura, interna alla chiesa stessa.
I segreti delle bombe a Salt Lake City
Era il 15 ottobre 1985 quando due persone, il collezionista e sacerdote mormone Steve Christensen e la moglie dell’ex capo di Christensen, Kathy Sheets, morirono a causa di due bombe recapitate loro per posta: teatro del crimine fu Salt Lake City, caposaldo della fede mormona, e apparve subito chiaro che proprio la comunità religiosa fosse l’obiettivo di chiunque si celasse dietro gli omicidi. Ma le indagini prendono una piega inaspettata quando a restare ferito da una terza bomba, simile alle prime due, è Mark Hofmann, figura chiave per il credo di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni in quanto scopritore di importanti documenti e testi sulle origini del culto.
Senza svelare troppo per chi non conoscesse il fatto di cronaca, basti sapere che dalla metà del secondo episodio la narrazione prende una piega totalmente inaspettata: tutto è messo in discussione, dalle figure coinvolte nel documentario alla chiesa mormonica stessa, con uno sguardo che non risparmia nessuno. E, se la ricostruzione lenta ma letale dei fatti messa a punto dai due registi Jared Hess e Tyler Measom (entrambi, guarda caso, provenienti da famiglie mormoniche) non fosse abbastanza, a sferzare il colpo di grazia sull’assurda verità dietro Omicidio tra i Mormoni sono le testimonianze delle numerose persone coinvolte e intervistate dai documentaristi, che rendono l’episodio ancora più tangibile e incredibile.
Omicidio tra i Mormoni e la vulnerabilità di una comunità
Nucleo della narrazione di Omicidio tra i Mormoni è quindi un delitto che non colpisce solo le vittime designate, ma un’intera comunità. E i cui effetti negativi si propagano a macchia d’olio nel tessuto sociale di un credo, basato sulla fede nelle scritture e, soprattutto, nelle persone che di quella fede sono sacerdoti e personalità di spicco. E non è un caso che una serie del genere abbia come produttore Joe Berlinger, che in carriera può vantare successi true crime come Conversazioni con un Killer: The Ted Bundy Tapes, Jeffrey Epstein: Filthy Rich e Sulla scena del delitto: Il caso del Cecil Hotel. Rispetto a quest’ultimo, tra l’altro, Omicidio tra i Mormoni risulta più convincente e solido, non fosse altro che si basa su testimonianze e fatti anziché su teorie del complotto e sedicenti investigatori del web – questa la formula del documentario dedicato alla scomparsa di Elisa Lam che, alla lunga, risulta pesante.
Omicidio tra i Mormoni si posiziona quindi come l’ennesimo centro nel bersaglio del true crime di Netflix, che dimostra ancora una volta di non sbagliare un colpo da questo punto di vista, sapientemente spaziando tra argomenti, casi, delitti. Il formato in tre puntate ne agevola senza dubbio la visione, perché risulta lungo abbastanza da risultare avvincente, ma non troppo da richiedere un eccessivo esborso di tempo da parte dello spettatore affamato di curiosità verso la risoluzione del caso: un ottimo compromesso, e un ottimo investimento del proprio tempo.