Oppenheimer si sta dimostrando un successo di pubblico e critica. Ed è giusto così
Dal 2008 al 2020, da The Dark Knight a Tenet, non ho mai saltato un’anteprima stampa di un film di Nolan. Quegli intervalli semiregolari di tempo, due o tre anni di attesa tra un masterpiece e l’altro, quella tensione e quella gioia quando la sabbia nella clessidra finisce finalmente di cadere e si spengono le luci in sala, pronti per due o tre ore di eccezionale visione, è un qualcosa che forse solo chi è veramente fan di un regista può comprendere. Perché – nel caso di Nolan – il suo cinema meticoloso, certosino, fatto di allacci e di rimandi, spesso così subdoli che solo chi è tremendamente attento può comprenderli, rappresenta un’esperienza mistica ed immersiva che richiede tempo, attenzione e passione. Come dissi anche parecchio tempo fa in un mio lunghissimo articolo che, se avete voglia, vi suggerisco di leggere o rileggere prima di approcciarvi alle prossime parole riguardo Oppenheimer. Nel dubbio, eccolo qui.
Fatto sta, comunque, che un po’ inaspettatamente per la prima volta l’hype smodato che provavo prima dei precedenti film si è tramutato in una semplice per quanto gigantesca curiosità, ed è per questo che non ho fatto i salti mortali per essere presente ad una comodissima anteprima di un sabato sera di fine luglio.
Forse sarà l’età, i capelli bianchi che iniziano a farsi strada o più semplicemente la percezione che stavolta qualcosa sarebbe stato diverso. Per la prima volta Nolan sembra pronto a uscire dai suoi schemi, a confrontarsi con un biopic. Al punto da pensare: ma non è che, niente niente, vuole dimostrare che con un film più semplice si fa beffe di tutti e si porta finalmente a casa l’Oscar?
Non ci sarebbe niente di male, anzi, sarei contentissimo per lui, per quanto anche se dovesse andare così sarei dell’idea che lo avrebbe meritato maggiormente con altri 2 o 3 film.
E questa idea – signore e signori – è confermata dopo la visione di Oppenheimer.
Attenzione. Non sono qui a dire che Oppenheimer non mi è piaciuto, sarebbe quasi impossibile: è un film eccezionale, pazzesco, sebbene io sia soltanto – ancora – alla prima visione, semmai quel che manca (o che sembra mancare) è l’impronta tipica del suo cinema. Quantomeno a priori.
Ma andiamo un po’ con ordine.
Il film in questione, dicevamo, è stato presentato come il biopic del fisico teorico J. Robert Oppenheimer (qui interpretato da Cillian Murphy), ovvero il “padre della bomba atomica”. Eppure il termine biopic sembra davvero riduttivo per agganciarsi all’ambizioso e gargantuesco progetto di Nolan, il quale ancora una volta mira a stupire pur con un prodotto per certi versi (non del tutto, ma vedremo) distante dal suo stile.
Al netto di quanto detto poco fa, Oppenheimer non è certo un film banale. È un’opera densa e complessa, come del resto ci aspettavamo, in cui ancora una volta si alternano tre linee temporali, sebbene in modo assai diverso da come eravamo abituati col regista inglese. I salti narrativi avvengono infatti in maniera fluida, perché si tratta semplicemente di un andare avanti e indietro nel tempo, passando dalla parte finale degli studi di Oppenheimer e il suo successo fino alla creazione della bomba atomica (1), intervallandoli con l’udienza nei suoi confronti in cui si dibatte sulla revoca del suo nulla osta di sicurezza (2), e con l’udienza di conferma di Strauss (un eccezionale Robert Downey Jr.) al Senato per il Segretariato al Commercio (3).
Se nella prima ora si può avere qualche leggera difficoltà a seguire il tutto, gli intrecci si snodano via via piuttosto facilmente nella seconda e terza parte del film, per cui non servono accorgimenti particolari a là Nolan, e persino la fotografia in bianco e nero dell’udienza di Conferma diventa per lo più un vezzo di stile. A tal proposito, merita come sempre applausi scrocianti il lavoro del direttore Hoyte van Hoytema, ormai uomo fidato del regista.
Nella prima parte, dicevamo, ci si potrebbe perdere un po’. Non nella tipica maniera nolaniana, ovvero tra labirintici giochi di richiami e rimandi di cui avremo, forse, contezza alla fine del film (magari giusto in film più semplici, come Insomnia o Tenet) o nelle successive visioni (ben più facilmente), ma per un bombardamento di informazioni puramente tecniche, dettami della fisica con cui se non si è del mestiere si fa fatica a stare al passo. Ma niente paura, sono dettagli funzionali ad un racconto coerente e denso, dunque non afferrare qualche spiegazione non evoca un dramma.
Pian piano, poi, il film sembra cambiare registro. Una volta che Nolan prende le misure del biopic inizia a farlo suo, a trasformarlo in qualcosa di nolaniano, ponendo anche qui la sua impronta.
L’interpretazione di Cillian Murphy ovviamente lo aiuta, ma ne eravamo certi così come lo era il regista. L’attore irlandese è un feticcio di Nolan e per la prima volta gli concede le vere luci della ribalta, un ruolo da protagonista tutto per lui, un premio per la fedeltà e per una sequela di performance incredibili nei precedenti lavori del cineasta londinese. Il volto giusto per interpretare J. Robert Oppenheimer, una sorta di versione emaciata di Tommy Shelby ultima maniera, che anziché studiare all’università della vita ha scelto quella fatta di libri e tante formule, che vediamo scarabocchiate sulle lavagne utilizzate per le ricerche scientifiche sue e dei suoi colleghi, fino al grande frutto del peccato, ad una delle più grandi invenzioni scientifiche di tutti i tempi.
L’Oppenheimer di Cillian Murphy è un uomo complesso, come lo sono tutti i geni. Mescola incredibilmente sicurezza e insicurezza, e labili cambiamenti nell’espressione del viso del protagonista bastano a renderci chiaro cosa gira in quel momento nella sua testa. La consapevolezza di essere un numero uno, l’ambizione sfrenata e la fame di ricerca fanno a pugni con le sue paure, con i suoi scrupoli di coscienza, col desiderio di diventare un martire. Le immagini in cui il suo fisico terribilmente esile riesce a caricarsi il peso di pile di libri sotto il braccio, quasi a sfidare le leggi della fisica, rappresentano l’emblema del suo carattere e parte del senso del film.
J. Robert Oppenheimer è così grande che il mondo che lo circonda sembra fatto di persone comunque meno importanti di lui, persino Einstein. In pochi non si piegano al suo cospetto, persino un uomo grande, grosso e autoritario come il Generale Leslie Groves (Matt Damon), o la moglie di J. Robert, Kitty (Emily Blunt), che nonostante il suo carattere forte si trova costretta a chiudere gli occhi di fronte alle scappatelle del marito. Qui, a proposito, si potrebbe parlare dell’annoso problema dei film di Nolan, ovvero lo scarso trattamento riservato ai personaggi femminili di cui spesso si dibatte e che mi è capitato di leggere anche in questi giorni. Tuttavia si tratta di un tema che da solo meriterebbe un articolo a parte, e oltretutto mi è sembrato un po’ assurdo in considerazione del fatto che proprio stavolta abbiamo un personaggio come Kitty, appunto, assai più forte e dominante di quasi tutte le altre donne dei film di Nolan messe insieme. La scena del suo interrogatorio è probabilmente uno dei dialoghi più intensi di tutta l’opera, superata forse soltanto da quei tre minuti di Gary Oldman nei panni del Presidente Truman, che da soli valgono l’intero prezzo del biglietto. Chapeau.
Se parliamo di intensità però diviene impossibile non pensare alla scena del Trinity Test, un momento di fortissimo impatto visivo ed emotivo, paragonabile a pochi altri momenti dei film di Nolan, fatta eccezione per alcune sequenze di Interstellar (l’approdo sul pianeta d’acqua resta inarrivabile). Qui il regista e il suo cast giocano benissimo con la tecnica, attraverso un montaggio perfetto e un utilizzo sapiente del sonoro e della musica, in grado di entrarci totalmente nella testa.
“La senti la musica?”
Già, la musica. “La senti la musica?”, dice inizialmente Niels Bohr (Kenneth Branagh) a un giovane Oppenheimer, e ci verrebbe da rispondere che è impossibile non farlo, giacché il sottofondo sonoro pervade le tre ore di visione, restando costante quasi nella sua totalità. Come del resto Nolan, o meglio Ludwig Göransson, ci ha ormai abituato negli ultimi lavori.
Più il tempo passa, più sono i passi avanti verso la creazione della bomba atomica, maggiore è la tensione e l’inquietudine evidenziata dalla colonna sonora. Più il tempo passa, più percepiamo la naturalezza dei collegamenti, unendo le tre linee temporali e tutto ci sembra maggiormente chiaro. Più il tempo passa, più ci sembra un film di Nolan, al contrario di quanto avevamo pensato inizialmente.
Sono certo che, come anche nei suoi film più complessi, le prossime visioni mi illumineranno evidenziando nuovi e celati dettagli, ma nel frattempo sono lieto che il mondo stia apprezzando praticamente all’unanimità questo bellissimo lavoro del regista britannico.
Credo che anche dopo le prossime visioni non diventerà il mio film preferito tra quelli di Nolan, tuttavia è senza dubbio il film con cui il buon Christopher, anche giocando con le carte degli altri, ha dimostrato di essere uno dei più grandi registi in circolazione. E non solo.