Clint Eastwood e il cinema: un amore senza fine
A ridosso delle 88 candeline Clint Eastwood torna al cinema, a meno di due anni di distanza dal suo ultimo lavoro, quel masterpiece di Sully che ebbe Tom Hanks come protagonista.
Come nell’ultima occasione il regista si cimenta con una storia vera, ma operando stavolta una scelta tanto originale ed azzardata, quanto capace di stimolare la nostra curiosità.
15:17 – Attacco al treno (nelle nostre sale dall’8 febbraio) è un film basato sull’attacco al treno Thalys diretto da Amsterdam a Parigi, del 21 agosto 2015, e gli attori protagonisti sono proprio coloro che sono riusciti ad opporsi con coraggio al terrorista, evitando una strage.
Una scelta audace e con un alto potenziale di rischio, dicevamo. Ma di certo nel corso della sua carriera il maestro Eastwood di rischi se ne è presi a bizzeffe, e non può essere una decisione di questo tipo a creargli scompensi; anzi, tutto ciò che non fa che dimostrarci quanto ancora, a dispetto dell’età, abbia ancora voglia di cinema, di relazionarsi con esso, di sperimentare, di realizzare qualcosa di memorabile.
Tutto ciò ovviamente, prima della proiezione, ma già dai rumors di un anno fa in cui ci venivano svelate le modalità del nuovo film di Clint Eastwood, non ha fatto altro che suscitare in noi una strana commistione di curiosità e dubbi sulla riuscita dell’opera. Pertanto siamo entrati in sala senza grosse aspettative, ma anche privi di pregiudizi, naturalmente. E dobbiamo dire che invece il risultato ci ha stupito favorevolmente, seppur non si tratti di un film esente da difetti.
Ciò che è emerso dalla visione di 15:17 to Paris (questo il titolo originale) è proprio la volontà del regista di omaggiare questi eroi americani ed il loro gesto, il desiderio di raccontarci nel modo più credibile ed efficace possibile il succedersi degli eventi, ed è ovviamente per questo che ha voluto la partecipazione in prima persona di Spencer Stone, Anthony Sadler e Alek Skarlatos.
Per far ciò ha costruito tutto il film attorno ai pochi minuti nevralgici dell’attacco, confezionando un plot accurato e scorrevole che parte dall’infanzia dei tre ragazzi, amici da sempre, dove dei giovanissimi interpreti (questi dei veri attori) hanno indossato i panni dei protagonisti alle scuole medie, fornendoci così anche il loro background, che non sappiamo quanto sia veritiero ma conoscendo la cura maniacale di Eastwood e ragionando sulle sue scelte possiamo ipotizzare una quasi perfetta aderenza ai fatti, salvo qualche ovvia licenza artistica (il libro uscirà in contemporanea col film, e sarà interessante notare le differenze).
Per lunghi tratti la sensazione è quella di avere a che fare con un film “vero”; non un biopic, né un docu-drama, né niente di simile. Nonostante nei fatti Clint Eastwood sia vicino a coniare un genere, la naturalezza della messa in scena è il punto di forza di un’opera che non annoia mai per la durata perfetta di circa un’ora e mezzo, in cui assistiamo anche al viaggio dei tre ragazzi, quell’interrail che poteva diventare un incubo ma che la loro prontezza, il loro addestramento e un po’ di fortuna hanno fatto in modo di trasformarli in degli eroi. A tutto questo bel discorso di certo Clint aggiungerebbe la fede, e lo fa a più riprese durante il film, con la religione che diviene quasi il motore dell’azione, sia per l’antagonista (perdonateci la licenza, trattandosi di uno spietato terrorista n.d.R.) che per i protagonisti. Non è la prima volta che il regista sceglie la via di quella che potremmo definire come una retorica cristiana un po’ forzata, così come lo è la scelta di osannare i corpi militari statunitensi, tramite citazioni numerose e una totale immersione in quel mondo, che poi di fatto è il suo, poiché ce lo ha raccontato decine di volte, ed a tal proposito si autocelebra ponendo nella stanza del piccolo Stone un poster di Lettere da Iwo Jima (oltre che di Full metal jacket, ad onor del vero. Chissà se il ragazzo ce li aveva veramente).
Eppure tutto ciò non disturba la visione, ma confluisce degnamente al suo interno, in una scorrevolezza incisiva forse più di quanto auspicabile, anche per via delle perfomance attoriali, quelle sì una nota dolente. Perché se è vero che dobbiamo considerarlo un drama a tutti gli effetti, non possiamo esimerci dall’analizzarle, sebbene le colpe in tal senso non possono ricadere sui responsabilili.
Se nella fase in cui assistiamo alla preparazione militare di Stone e poi alla missione di guerra in Afghanistan di Skarlatos, i ragazzi si mostrano a loro agio, probabilmente per via delle attitudini militari e del fatto che per loro tutto ciò non fosse soltanto recitazione, non possiamo dire lo stesso dei momenti in cui il regista ci racconta la vacanza dei tre amici.
Sadler, l’unico dei tre a non essere un soldato, se la cava pure discretamente bene, salvo qualche atteggiamento un po’ goffo, mentre Skarlatos tra tutti sembra il più compassato, e forse anche troppo ingessato, ma paradossalmente più a suo agio davanti la macchina da presa, e non per niente è quello dei tre che finora ha sfruttato al meglio l'”occasione” offerta da questa triste vicenda, partecipando alla versione statunitense di “Ballando con le stelle“. Chi appare più a disagio di tutti è proprio Stone, che invece è colui che detiene il minutaggio maggiore davanti alla telecamera, ma di certo è quello meno portato per fare l’attore.
Ovviamente la componente attoriale non è ciò per cui va giudicato questo film, ed anzi abbiamo già elogiato i meriti di Eastwood nel aver saputo sopperire alle chiare mancanze dei suoi protagonisti con una gestione della narrazione pressoché perfetta, però non possiamo far finta di nulla quando dinanzi ai nostri occhi si palesano quelle 4-5 scene davvero imbarazzanti in cui gli attori non riescono proprio a fingere.
Nel complesso siamo di fronte ad un film indubbiamente riuscito, che per certi versi si distanzia totalmente dalla produzione di Eastwood, che rimane comunque un regista versatile ed eterogeneo, ma al contempo è un’opera strettamente vicina a molti altri suoi lavori, perché nonostante le particolari e affascinanti scelte registiche di questo 15:17 to Paris, ritroviamo tante delle tematiche care al maestro di San Francisco. Uscendo dalla sala abbiamo un’unica, grande consapevolezza: più passano gli anni, più aumenta l’amore di quest’uomo per il cinema.
Verdetto:
Ore 15:17 – Attacco al treno è l’ultimo film del maestro Clint Eastwood, ed è senza dubbio uno dei suoi più particolari lavori. Si tratta di un’opera basata sull’attentato terroristico sul treno Thalys diretto a Parigi nell’agosto 2015, e sugli uomini che l’hanno sventato. Per raccontarci tutto ciò il regista compie una scelta azzardata e stravagante, ovvero far recitare in prima persona i tre eroi americani, che interpretano quindi loro stessi.
Emerge chiaramente e sin da subito la volontà di Eastwood di omaggiare questi uomini ed il loro gesto, e per far ciò costruisce un film interamente su quella scena, circondando il tutto con la presentazione del background di questi tre ragazzi, narrandoci la loro infanzia e la loro formazione, passando poi al viaggio in Europa che li ha portati su quel treno in quell’agosto del 2015.
Clint Eastwood è abile a metter su un film solido e scorrevole nonostante le mille difficoltà che possono intercorrere in un lavoro del genere, e nonostante le performance ovviamente un po’ impacciate dei suoi protagonisti, che non sono attori professionisti e si vede, e se sorvoliamo (ma notandolo ed appuntandolo con la penna rossa) pure sulla sovrabboddanza di riferimenti religiosi e quell’elogio alla forze militari americane, a cui ormai siamo abituati, abbiamo a che fare con 1 ora e 34 minuti di puro film, che sa intrattenere, che ci fa persino emozionare, e che ci fa uscire dalla sala con la consapevolezza che Clint Eastwood ama questo lavoro ogni anno di più.