Cosa significa davvero esplorare? È la conquista di luoghi, o la loro comprensione? Outer Wilds cerca di affrontare questi temi da prospettive originali e nuove.
Attenzione, questo testo è stato concepito per essere fruito sotto forma audiovisiva. L’articolo che segue è un adattamento del video analisi di Outer Wilds uscito sul canale YouTube di Glitch il 25/08/2021.
Negli ultimi mesi, complice la sua disponibilità sul Game Pass, ho rigiocato Fallout 3, l’open world apocalittico di Bethesda divenuto nel tempo un classico, un vero e proprio capostipite di un certo modo di fare giochi di ruolo moderni. Ho deciso di rigiocarlo perché dopo oltre dieci anni dalla prima volta avevo oramai solamente un vago ricordo di quello che era stato per me Fallout 3. Ma, ahimè, dopo un paio d’ore questa seconda esperienza con le wasteland si è rivelata parecchio deludente. Ho deciso di chiudere un occhio sui vari bug e glitch del gioco, e di chiudere anche l’altro per quanto riguarda la scrittura, che non ha sicuramente retto alla prova degli anni, o che forse ricordo solo migliore per un mix di nostalgia e ricordi sbiaditi.
Eppure, quello che forse mi ha deluso maggiormente è stato il modo in cui lo stavo giocando. Ero diretto, veloce, passavo da una quest principale all’altra ignorando quasi interamente il vastissimo mondo di gioco che mi circondava. Ogni tanto mi ricordavo di star giocando a uno dei giochi di ruolo più influenti delle ultime generazioni, e quindi mi obbligavo a fare delle missioni secondarie. Mi obbligavo, in sintesi, a cercare quel guizzo, quella scintilla, quel senso dell’esplorazione che dì per sé il gioco non era mai riuscito a darmi.
Mi sono sentito in errore. Mi sono sentito quasi un traditore del genere, un videogiocatore “falso”, uno che dovrebbe lasciar perdere e darsi ad altro. Mi son chiesto: perché non ho voglia di esplorare? Perché non m’interessa assolutamente nulla di parlare con ogni NPC, di esplorare ogni edificio abbandonato e di intraprendere ogni quest nascosta?
Così facendo, trascinandomi da una principale all’altra, ho finito per completare il gioco in sole dodici ore, che per gli standard del genere è probabilmente una durata parecchio irrisoria.
Ed è così che è iniziato il processo riflessivo che ha portato a questo articolo. Perché giusto prima di Fallout 3 ho giocato a un altro titolo basato sull’esplorazione, ma che non è un gdr e che non… risponde ai canoni tradizionali del mondo aperto. Si potrebbe definire meglio come un gioco a… universo aperto.
Esplorazione spaziale e loop temporali
Outer Wilds è un gioco di esplorazione spaziale sviluppato dal team Mobius Digital, pubblicato nel 2019 per PC e console. Si tratta di un’avventura dinamica parecchio atipica, difficile da inquadrare all’interno di uno specifico genere videoludico.
Il gioco ha inizio durante il nostro primo giorno da cadetta astronauta: siamo nervose, sì, ma anche parecchio eccitate. Ci aggiriamo per il villaggio del nostro pianeta natale, parliamo con amici e istruttrici e tutto sembra svolgersi secondo la norma. Ma proprio quando stiamo per imbarcarci per il nostro primo viaggio spaziale, veniamo “bloccate” da una misteriosa statua antica, che sembra risucchiarci i… ricordi? Strano! Ma fa niente, siamo pronte per partire!
Una volta arrivate nello spazio, non abbiamo nessun obiettivo, nessuna quest lampeggiante su schermo. Siamo spinte a esplorare seguendo semplicemente la nostra curiosità. Possiamo andare sulla luna! O su quel misterioso pianeta azzurro in lontananza! O ancora vedere cosa si nasconde dietro la nube verde di quel gigante gassoso. Tutto molto bello, ma meglio farlo in fretta perché, dopo 22 minuti dalla nostra partenza, il sole al centro del nostro sistema diventa una supernova, e tutto quello che conosciamo viene cancellato dalla faccia dell’universo. Ma siamo ancora in vita! Siamo tornate all’inizio del gioco!
Qui riinizia la nostra avventura. Ovvero, riinizia esattamente ogni 22 minuti, perché siamo ormai bloccate in un loop temporale apparentemente senza via di uscita.
Nella maggior parte dei videogiochi contemporanei, alla giocatrice viene dato un obiettivo da seguire che l’accompagna per tutta l’esperienza. Questo obiettivo può nascere da uno stimolo narrativo o avere uno scopo più pratico, e molto spesso si manifesta attraverso elementi extradiegetici come una bussola, un gps, o un sesto senso innato che ti dice dove andare, e così via.
Come già detto, all’inizio di Outer Wilds non abbiamo però un vero obiettivo. A terra, provano a chiederci cosa vorremmo fare una volta nello spazio, e abbiamo diverse possibili risposte. Vogliamo trovare le nostre compagne astronaute, per esempio! No, anzi, vogliamo andare dove nessuna è mai stata prima! La risposta che diamo al gioco è indifferente, perché non attiva nessuna quest, nessuna bussola da seguire.
Ma la giocatrice un compito implicito ce l’ha: esplorare lo spazio e ricostruire la storia della civiltà che ha vissuto quei luoghi prima di noi, i Nomai. Quella di Outer Wilds è una storia narrata non linearmente: si tratta di un enorme puzzle narrativo i cui pezzi sono disseminati in giro per il sistema solare, un vero e proprio gioco di archeologia spaziale.
E quindi chi gioca inizia a darsi degli obiettivi liberi dall’imposizione della designer: scegliamo dove andare e cosa esplorare. Studiare i resti delle strutture Nomai fornisce quasi sempre indizi su dove dirigersi successivamente, ma senza imporre mai nulla. Sulla nostra nave abbiamo un registro di bordo che ci segna esattamente tutto quello che abbiamo scoperto, ma tocca a noi mettere insieme i pezzi e caprie dove andare. Ed è incredibile l’emozione e la soddisfazione che riceviamo quando abbiamo una deduzione, la applichiamo e scopriamo che abbiamo ragione!
In questo senso il gioco ci procura sin dall’inizio tutto il materiale necessario per completarlo. Un’astronave, una tuta spaziale, uno scout esplorativo, un traduttore di scrittura nomai e un “segnaloscopio” per captare segnali spaziali. Non sblocchiamo potenziamenti, la nave non diventa più veloce e i nostri salti a gravità zero non diventano più alti. Il gioco rifiuta di dare alla giocatrice un qualsiasi senso di progressione che avvenga attraverso un upgrade concreto che muta il gameplay.
Ma questo non significa che un senso di progressione non esiste. La progressione avviene nelle conoscenze che chi gioca ha del mondo di gioco, a quanto si avvicina a svelare il mistero dell’universo. E questo non significa neanche che non esistono altre meccaniche oltre a quelle mostrate nel tutorial iniziale! Ogni pianeta, infatti, nasconde una diversa meccanica che dobbiamo letteralmente imparare e comprendere, prima di poterla applicare. Ed è fantastico che per una volta, ci troviamo di fronte a un titolo sullo spazio che fa dell’esplorazione il suo tema centrale, e non la conquista e la colonizzazione della frontiera spaziale. Anche perché cosa c’è da conquistare? Tutto quello che conosciamo, dopo 22 minuti, cessa di esistere, e ogni progressione che potrebbe essere tangibile nel mondo di gioco viene completamente spazzata via. Possiamo mettere una bandierina su un pianeta e dire che l’abbiamo conquistato? Certo, ma a chi importa se da lì a poco viene polverizzato?
Outer Wilds pone la sua attenzione sulla conservazione del mondo di gioco. Su come la cultura e la preservazione di una civiltà siano elementi assai più importanti del dominio di una specie sull’altra. E su questo è, per ora, quasi unico nel suo genere.
Nel corso dell’avventura ci capiterà più volte di incontrare le nostre compagne esploratrici. Nessuna, tranne una, è consapevole del fatto che sta per morire e che tutto ricomincerà da capo in poco meno di mezz’ora. Ognuna di queste esploratrici suona uno strumento che possiamo ascoltare con il nostro localizzatore anche a migliaia di chilometri di distanza. Quando finalmente le raggiungiamo, seguendo il loro eco musicale da un pianeta all’altro, le troviamo a un falò, ad arrostire marshmallow e fischiettare canzoni.
Outer Wilds fa molto spesso uso dell’iconografia del campeggio, del perdersi in luoghi sconosciuti, dell’esplorare senza una meta per il piacere di farlo, dell’improvvisare un falò in mezzo al nulla per il gusto di stare insieme.
[SPOILER ALERT, SALTARE AL PARAGRAFO SUCCESSIVO]
Nel finale, quando arriviamo dove nessuna è mai stata prima, trascendiamo il tempo e lo spazio e ci ritroviamo in un bosco, con le compagne che ci hanno guidato alla scoperta di quella natura selvaggia infinita che è lo spazio. Intorno al fuoco raccontiamo storie, senza le parole, ma con la musica. La storia di un popolo, una civiltà, un universo.
Riusciamo finalmente a spezzare il loop che ci costringeva al gioco e accettiamo la morte. Accettiamo la distruzione di tutto quello che abbiamo visto ed esplorato. Ma questo non significa che verrà perso, perché finché ci sarà qualcuno a tramandare la storia, a interessarsi di quello che c’è stato prima, nulla verrà realmente dimenticato.
E quindi tornando a Fallout 3… ecco, il titolo non mi ha invogliato esattamente a esplorare il mondo di gioco come ha fatto Outer Wilds. Ovviamente sotto moltissimi punti di vista si tratta di due opere imparagonabili, ma che si affidano con grande energia al concetto di esplorazione, alla scoperta di luoghi oscuri e dimenticati.
Sarà stata quella bussola, che mi diceva costantemente dove andare e cosa fare. Sarà stato quel mondo di gioco poco vivido, la cui esplorazione mi metteva più tristezza che eccitazione. O sarà forse stata l’imposizione di una storia esplicita e tradizionale, che in un gioco di ruolo mi dava una direzione preimpostata e un’urgenza narrativa che non sentivo mie.
Quasi per rispondere a queste domande, ho recuperato anche Fallout New Vegas, che non avevo mai giocato prima, credendo di ritrovarmi nuovamente deluso, ma non è stato così. Mi son sentito parte di un mondo che non mi obbligava a trovare un padre in fuga o un figlio rapito. Ero libero di vivere la mia avventura da pistolero solitario in un open world che sembrava realmente aperto. E mi sono sentito vivo, parte di un mondo che aveva qualcosa da dire.