In occasione dell’uscita di Paradise Kiss, facciamo un rapido viaggio tra le mode giapponesi più in voga
Il Giappone è un Paese pieno di contraddizioni, perfino quando si tratta di abbigliamento. Le strade delle metropoli come Tokyo brulicano di persone dall’aspetto piuttosto ordinario, sobrio, insomma giapponese: capelli neri, bassi, con indosso vestiti occidentali come normalissimi jeans, gonne, magliette, tailleur o completi. Eppure, in mezzo a quest’enorme conformità sociale, che anche i protagonisti di Paradise Kiss cercano di combattere nel loro piccolo, potreste notare qualcosa di diverso: una chioma particolarmente voluminosa, una persona decisamente più alta rispetto agli standard oppure dei colori sgargianti in mezzo a quelli più neutri degli impiegati d’ufficio.
Ebbene, è proprio qui, nei quartieri più giovanili e popolari, che sono nate e continuano a nascere le mode giapponesi dai canoni più anticonvenzionali e unici che influenzano intere generazioni dentro e fuori dai media, entrando a far parte a tutti gli effetti della cultura pop del Paese.
Dal kimono al completo
A causa di un radicato orientalismo dovuto all’esoticizzazione dei Paesi dell’Estremo Oriente da parte di scrittori e artisti del passato (in particolare, basti pensare alla corrente del Giapponismo), ancora oggi quando pensiamo a un giapponese, nella nostra mente si crea l’immagine di una figura vestita con il tipico kimono, che venne quindi importato fino in Europa per il diletto di chi poteva permettersi un tale prodotto di pregio. Così come lo intendiamo oggi, i giapponesi hanno iniziato ad indossare quotidianamente questo particolare capo d’abbigliamento nel periodo Kamakura (1185-1333), con tutto il corredo che ne è derivato: la lunga cintura che lo avvolge e tiene in posa chiamata obi, gli ornamenti per capelli come i kanzashi, i soprabiti detti haori, ecc. Per questo, nel periodo Edo (1603-1868), l’arte del kimono raggiunge il suo apice, sia per quanto riguarda la creazione sia per la vestizione (kitsuke), poiché questi potevano costare anche più di una casa e venivano quindi tramandati in famiglia come cimelio prezioso. Tuttavia, con l’industrializzazione avvenuta a seguito delle due guerre mondiali, divenne sempre più facile produrre anche i kimono, i cui motivi non vennero più dipinti esclusivamente a mano ma stampati direttamente su stoffe meno pregiate.
Le guerre e i nuovi rapporti con l’Occidente, però, fecero sì che in Giappone venissero adottati man mano anche gli abiti occidentali, più comodi, facili da indossare e veloci da produrre.
Si cominciò nel periodo Meiji (1868-1912) con le divise militari, che traevano ispirazione da quelle francesi o inglesi, sia dell’Esercito che della Marina, per poi passare a diverse categorie di lavoratori. Perfino la Corte imperiale fece da modello per i propri sudditi adottando lo stile occidentale per gli eventi ufficiali ma gli abiti occidentali cominciarono ad essere indossati quotidianamente anche dal resto del popolo solo nel ‘900 e sempre a seguito di un graduale processo di occidentalizzazione, che all’epoca era vista come segno di modernità. Negli anni ’50, infine, la pressante influenza americana portò al totale abbandono del kimono, se non per casi speciali come cerimonie o ruoli istituzionali.
Sono una Lolita, non credo nella crescita, rimarrò per sempre fedele a pizzi e merletti
Facciamo un breve salto in avanti, fino agli anni ’70, quando nomi come Rei Kawakubo, Issey Miyake, Kenzo suscitarono nuovamente l’interesse occidentale, soprattutto nell’ambiente delle sfilate di Parigi. Questi fashion designers sono oggi considerati gli iniziatori della destrutturazione dei canoni seguiti fino a quel momento, poiché il loro avanguardismo, fatto di forme, tessuti, stampe inusuali, combinati tra loro, ancora oggi è fonte di ispirazione per la street fashion che è possibile scorgere per le vie di Tokyo e non solo. Con la crescita delle città e dell’economia e l’ormai continuo scambio culturale tra il Giappone e il resto del mondo, nei quartieri di Tokyo sono nate le maggiori correnti di moda che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni, dagli anni ’80 ad oggi, diventando talmente popolari da portare alla nascita di riviste che cercavano di tracciarne i fondamenti principali, oltre a comparire anche negli ambienti d’intrattenimento come manga, musica, film, dando visibilità sempre maggiore alle loro icone.
Un esempio lampante fra tutte le mode giapponesi è la sempiterna moda lolita, oggi meno diffusa ma che ancora sopravvive grazie ai brand specializzati, come Angelic Pretty, Baby the Stars Shine Bright, Alice and the Pirates o Moi-Meme-Moitié. Quest’ultimo, in particolare, venne creato dalla figura quasi leggendaria di Mana, musicista dei Malize Mizer, band visual kei rock caratterizzata dalle forti influenze francesi e gotiche sia nelle musiche che nel look. Proprio Mana permise allo stile lolita di diventare popolare, traendo particolare ispirazione dal periodo rococò e vittoriano e specializzandosi nello stile gothic lolita dai colori scuri. Gonne lunghe al ginocchio gonfiate da ampi sottogonna, pizzi, merletti, ricami, maniche a palloncino, motivi romantici e magari infantili, gioielli: tutto ciò conferisce al lolita il fascino dell’eterna gioventù, in opposizione al rapido inserimento nella società al quale si giunge poco dopo gli studi.
Il lolita rimane una delle mode più longeve, grazie alla community creatasi dentro e fuori il Giappone, sebbene venga poco rappresentato nei media: una delle primissime lolita la possiamo vedere in Kamikaze Girls, light novel di Novala Takemoto, mentre tra i più recenti si può scorgere Celestia Ludenberg, la studentessa giocatrice d’azzardo in Danganronpa.
Sono una SUPER GAL!
Sempre in Danganronpa troviamo una seconda rappresentante di un’altra popolarissima moda giapponese, che oggi è ancora possibile scorgere, con un po’ di fortuna, tra i quartieri di Harajuku, Shibuya e Ikebukuro: Junko Enoshima è la perfetta kogal, una studentessa che sfrutta la divisa scolastica come elemeno modaioli e attraente, modificandone le parti a proprio piacimento. Le kogal, infatti, si distinguono per la classica uniforme abbinata talvolta agli zatteroni e i caratteristici loose socks. A questi aspetti piuttosto semplici, però, si aggiungono trucco e parrucco via via sempre più esagerati, in base al tipo di gyaru (traslitterazione della parola gal) che si vuole essere: come nel caso del lolita, anche il gyaru ha sviluppato più sottogeneri, il cui più famoso è sicuramente il ganguro, che ebbe il suo massimo splendore nel 2000 e di cui sopravvive un piccolissimo zoccolo duro di fanatiche. Anche in questo caso, infatti, se non addirittura di più, il senso di ribellione e di rottura degli schemi che scaturisce da questa moda è palpabile: i capelli vengono cotonati in acconciature voluminose e tinti di biondo o castano o anche colori più vivaci, tutto purché non siano neri come impongono le regole della società; gli accessori sono tanti, vistosi e di marca come i vestiti e non si limitano solo a borse e scarpe, ma anche collane, bracciali, anelli e soprattutto unghie ricostruite molo lunghe e dalle decorazioni eccessive; la pelle abbronzata è il risultato di lampade quasi quotidiane o crema autoabbronzante in quantità industriali; infine il trucco è pesante, con tanto di ciglia finte e brillantini. Il complesso potrà sembrare ai nostri occhi kitsch e senza criterio, eppure, anche nelle sue diramazioni di stile, mantiene una sua coerenza poiché volto alla completa negazione di ogni canone di bellezza tradizionale giapponese.
Sicuramente il gyaru è lo stile che più ha fatto parlare di sé, proprio per la sua esagerazione sempre più estrema e per i fenomeni sociali che ha provocato. In GALS! Tre ragazze alla moda, manga che parte proprio da questi presupposti, troviamo tantissimi riferimenti molto precisi alla cultura gyaru, come la danza parapara o l’enjo kosai (forma di prostituzione venuta a crearsi per mantenere questo stile dispendioso e faticoso da ottenere). Non stupisce, infatti, che siano nate innumerevoli riviste che ne presentano i punti focali, con tutorial e consigli d’acquisto dettagliati: Popteen, Egg, Kawaii Magazine, dalle quali si originano di conseguenza terminologie e slang tipici, rendendo il gyaru praticamente un vero e proprio stile di vita. Visione più che condivisa da Ran Kotobuki, protagonista di GALS!, autonominatasi “la più grande gal del mondo” poiché abbraccia pienamente ogni aspetto del gyaru, non solo nell’abbigliamento ma anche nel suo approccio alla vita, che per una gyaru deve essere divertente e libera da ogni restrizione.
Continua la sfida contro convenzioni e tabù
Citare tutte le correnti che hanno attraversato Harajuku e gli altri quartieri modaioli di Tokyo, ci prenderebbe troppo tempo. Ciò che ci interessa sapere è queste mode, per quanto piuttosto passeggere, hanno sempre l’importantissima qualità di aver sempre permesso di esprimersi attraverso abiti e accessori in maniere mai viste prima. L’individualismo è qualcosa di nettamente lontano dalla mentalità giapponese generale e naturalmente questo porta con sé ulteriori divergenze da ciò che è ritenuto utile e sano per la società. Tutte queste mode, e quelle attuali a maggior ragione, sono la più pura manifestazione dei numerosi disagi e pressioni che i giovani giapponesi percepivano e continuano a percepire intorno a sé. Oggi più che mai temi sociali come l’omosessualità e la depressione sono oggetto di dibattito soprattutto in Occidente, tuttavia anche in Giappone si possono riscontrare pian piano interesse verso argomenti finora tabù, non solo perché in qualche modo considerati vergognosi ma anche perché sconosciuti ai più. Non si può negare che la globalizzazione sia alla radice della diffusione di questo flusso di sensibilizzazione e idee di libertà, parità e uguaglianza, che si manifesta anche nei più recenti trend giapponesi.
Pochi anni fa il genderless kei ha avuto il suo momento di fioritura. Al contrario di quel che si potrebbe credere, non è legato in alcun modo alla sessualità di una persona ma certamente, sapendo che in Giappone l’argomento è ancora piuttosto spinoso perfino tra i giovani, il sovvertimento dei ruoli di genere è ciò che rende il genderless kei così interessante, pur essendo molto meno vistoso rispetto a tutto ciò che lo ha preceduto. L’idea di fondo è davvero molto semplice infatti: i vestiti non sono considerati limitati ai due generi. I ragazzi possono indossare gonne e colori kawaii, portare capelli lunghi e truccarsi, viceversa le ragazze possono portare abiti da uomo, tagli di capelli più corti e non utilizzare alcun make up. Nulla di nuovo, in verità, se ripensiamo a Mana citato in precedenza che, pur essendo uomo, indossava abiti alla vittoriana, gonne e trucco; tuttavia, il valore intrinseco dell’adozione di questo stile trova oggi in Instagram la sua massima espressione, grazie a fashion icons come Genking che lo diffondono in maniera naturale e spontanea sfruttando appieno le potenzialità dei social media.
Sempre tramite questi ultimi, si è diffuso uno dei più recenti stili d’abbigliamento, che affonda le basi nella cultura kawaii, convertendola nella sua versione più dark e sconnessa. Lo yami kawaii sfrutta infatti l’ossimoro che si crea tra le due parole che ne formano il nome: yami viene scritto col kanji di “dolore, sofferenza”, in contrapposizione alla parola kawaii che indica qualcosa di carino. Il concept di base, quindi, è l’estetizzazione di elementi grotteschi e/o così anticonvenzionali da essere sempre evitati dalla società. Quindi non solo parolacce e imprecazioni (già difficili da sentire da parte di un giapponese) ma anche oggetti e comportamenti connessi a disagi psicologici come depressione e intenti suicidi. Siringhe, mascherine mediche, accessori macchiati di sangue finto, ma vestiti dai colori pastello sono ciò che a grandi linee caratterizza questa corrente che, in realtà, vuole essere in qualche modo terapeutica, a detta delle personalità di spicco come Bisuko, designer di Menhera-chan, personaggio che personifica appunto la sua salute mentale e che ha grande seguito sul suo profilo Instagram.
Alla scoperta di sé
In Paradise Kiss, la protagonista Yukari si lascia coinvolgere da Miwako e Arashi, coppia di studenti dell’istituto di moda Yaza, e dall’affascinante Joji Koizumi, loro leader all’atelier Parakiss, diventando la loro modella e scoprendo così una passione nascosta che le farà mettere in discussione tutto il proprio mondo e sé stessa. Questo manga, come molti altri in cui la moda è solamente di contorno, è figlio di questo susseguirsi di stili sia di abbigliamento che di pensiero poiché la Yazawa ha ben presente da dove derivino, a dimostrazione che la moda, grazie alla profondità che può raggiungere tra ispirazione e realizzazione, può scuotere l’animo di chi la indossa e di chi la osserva, mettendo paradossalmente a nudo il nostro vero io.