Paradise Beach: Netflix fa di nuovo il pieno di cliché
Dall’8 novembre il catalogo Netflix si è arricchito di una nuova produzione originale:
Paradise Beach, film francese ambientato in Thailandia, diretto da Xavier Durringer. Si tratta, almeno sulla carta, del classico action thriller in grado di invogliare alla visione gli amanti del genere, ulteriormente intrigati da una durata non intollerabile, di circa 1 ora e 30 minuti. Ma dalla carta a Netflix il tragitto è lungo e di passi a vuoto Paradise Beach ne fa un bel po’.
Si parte con una rapina finita male, con la polizia che interviene sebbene l’unico a farne le spese sia Mehdi (Sami Bouajila), che tiene la bocca chiusa e passa 15 anni in prigione. Il film sostanzialmente comincia da qui, dalla sua scarcerazione e il suo immediato viaggio destinazione Phuket, metà in cui finalmente si riunisce ai compagni di merende, riabbracciando soprattutto il fratello Hicham (Tewfik Jallab), che qui ha una bella casa, una moglie e due figli, ma soprattutto un suocero ricco e potente e un discreto locale sulla spiaggia. Si capisce ben presto che Hicham non ha abbandonato i vecchi vizi, come anche il resto della cricca, ovvero Winny (Kool Shen), Franck (Hugo Becker), Zak (Seth Gueko) e Goyave (Hubert Kounde).
E capiamo anche, altrettanto in fretta, che Mehdi non è giunto fino in Thailandia solo per divertirsi con i suoi vecchi amici. Vuole la sua fetta della torta.
Guerra di bande e di stereotipi
Lo scenario in cui si immerge volutamente Mehdi è una piuttosto prevedibile guerra di bande, della quale non vi diciamo di più per non rovinarvi i pochi motivi per cui potrebbe avere un senso proseguire nella visione.
Paradise Beach infatti diventa ben presto una vuota mescolanza di cliché di genere e incredibili forzature, infarcite di qualche citazione di Machiavelli, e così a raffica vengono proposte sul piccolo schermo prostitute, droghe, soldi facili e un bel po’ di violenza. La violenza in un action thriller è la base e la sua linfa, ma serve anche una trama che, seppur basica e financo trita, costringa lo spettatore a restare incollato allo schermo. Paradise Beach purtroppo non ci riesce quasi mai, per via di una sceneggiatura che più che zoppicante possiamo definire zoppa, e di queste mancanze ne risente persino il ritmo, elemento chiave delle pellicole di genere.
Il protagonista, Mehdi, è una macchietta che sembra schernire i classici antieroi degli action, e viene rappresentato con caratteristiche stereotipate e decisamente poco accattivanti. La stessa metafora del diavolo che arriva e mette a soqquadro il paradiso non è soltanto un concetto abusato, ma del tutto ridicolo nel modo in cui ci viene proposto. Nemmeno gli altri membri del team, buttati nella mischia senza esser prima presentati al pubblico, rimangono impressi per qualche motivo e nessuno riesce mai a empatizzare con loro, oppure a detestarli. Il personaggio di Julia (Melanie Doutey), infine, viene catapultato nel caos generale solo per aggiungere cliché su cliché e allungare il brodo.
Bizzarra pure la scelta della lingua, con continui switch dal francese all’inglese anche all’interno della stessa conversazione e tra gli stessi individui.
Si salva quantomeno il comparto visivo, grazie a location da sogno e ad inquadrature ammalianti, presto però cancellate da un contesto inefficace e raffazzonato.
Xavier Durringer avrebbe potuto parlarci dei tanti aspetti solo accennati e mai esplorati, come la fratellanza e l’amicizia, o la corruzione, o la forte componente sessista di determinati ambienti. E tanto altro ancora.
Tutto invece rimane lì, sorpassato dalla fretta di chiudere i giochi, e Paradise Beach non possiede altre armi per intrigare lo spettatore e per rimanere scolpito nella memoria, finendo invece nel dimenticatoio in “bella” compagnia di tante altre produzioni Netflix. Più che il paradiso, sembra l’inferno.