Il medium videoludico è in costante evoluzione e necessita di una nuova classificazione di genere. Vediamo insieme perché
Per iniziare l’argomentazione di questo articolo, dobbiamo partire parlando di cinema, per un motivo molto semplice. Il cinema è (per ora) il medium più popolare ma non più quello più redditizio da ormai diversi anni.
Citiamo il critico cinematografico e saggista Barry K. Grant: «Per dirla con semplicità, i film di genere sono quei lungometraggi commerciali che, attraverso la ripetizione e la variazione, raccontano storie note con personaggi noti in situazioni note. Questi film incoraggiano anche attese ed esperienze simili a quelle di film simili che “abbiamo già visto”». (da Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche).
Grazie a queste parole possiamo inquadrare bene perché il cinema, e più generale le “storie”, ricorrano a topos narrativi, cliché e tematiche che si ripropongono ciclicamente tra loro, dando forma a quello che chiamiamo “genere”. Questa suddivisione serve da un lato da un punto di vista strettamente produttivo e/o autoriale, per avere la sicurezza di originare opere simili a esperienze commerciali precedenti, dall’altro è utile a quelli che saranno poi i fruitori di suddette opere che, al momento della scelta, avranno luogo di capire meglio quali siano i loro gusti. È il motivo per cui nasce il cinema di genere, ovvero il successo di un film che provoca la produzione di altrettanti seguiti o cloni.
Passando ai videogiochi notiamo subito come questa spartizione sia allo stesso modo facilmente applicabile. Il processo produttivo dietro alla realizzazione di un nuovo titolo videoludico prevedere spesso un accurato studio delle preferenze dei giocatori, riproponendo saghe senza fine e meccaniche già definite. Nel lontano 2007, Ubisoft ha creato un genere che verrà poi chiamato “open world alla Ubisoft”, ovvero giochi che prevedono la scalata di torri, la presenza di accampamenti nemici, la caccia agli animali leggendari e più in generale un ampio mondo pervaso da missioni secondarie. Stilemi quindi non narrativi, ma meccanici, che sono diventati classici di un modo di fare videogiochi.
La classificazione meccanica
Tutto questo per arrivare al punto della tesi, ovvero che la suddivisione centrale che usiamo per il mondo videoludico avviene attraverso a caratteri tipici del gameplay e non della narrazione, e quello di Ubisoft ne è un esempio perfetto. Tecnicamente titoli come Assassin’s Creed Odyssey e Batman Arkham Knight fanno parte dello stesso genere: action/stealth/open world/adventure e chi più ne ha più ne metta.
Questa similitudine è data, appunto, dalla somiglianza dei due sistemi di gioco. Sembra strano, visto che il primo è ambientato nell’antica grecia e il secondo in una metropoli contemporanea, ma grazie alla sopracitata classificazione attua al piacere del pubblico, questa divisione risulta corretta e se voglio un gioco simile ad Assassin’s Creed, dovrei ricorrere a Batman.
Nonostante questo, i temi del primo (affermazione sociale, paura della guerra) sono distanti anni luce dai temi del secondo (da grandi poteri derivano grandi responsabilità). Sebbene il genere sia definito dalla sostanza della storia e da cosa guidi il conflitto, le vicende individuali della Kassandra di Odyssey e di Bruce Wayne sono il pretesto per due racconti molto diversi tra loro ma con un gameplay molto simile. Per un giocatore, ritrovarsi davanti alla proposta di giochi simili a livello meccanico ma diverso a livello narrativo, è fenomeno comune, a cui solitamente non viene prestata attenzione.
Una delle recenti perle del medium videoludico è indubbiamente Untitled Goose Game. Per chi non conoscesse questo piccolo gioiello, si tratta di un videogioco dove ci ritroviamo a controllare un’oca pestifera in un vicinato della periferia britannica e il nostro obiettivo è quello di rovinare la vita a chiunque si metta sul nostro cammino. Se andiamo sulla pagina Steam del gioco lo troviamo etichettato come videogioco stealth, ovvero quel genere che prevede la furtività come fulcro centrale delle meccaniche.
Anche in questo caso potremmo fare tecnicamente un paragone, in teoria assurdo, e dire che Untitled Goose Game e un gioco come Metal Gear Solid sono dello stesso genere. E su questa esagerazione molti hanno infatti giustamente ironizzato con dei gustosi meme. Nonostante sembri una palese iperbole, in realtà sotto le classificazioni degli store digitali ritroviamo davvero i due giochi accorpati, assieme anche a titoli come Hitman, The Last of Us e Alien Isolation. È palesemente un problema a cui non viene dato abbastanza peso perché aggregazioni simili avvengono per tutti i cosiddetti generi videoludici.
Prova ne è il fatto che se si va nella categoria di videogiochi “action” all’interno delle librerie digitali, si trova potenzialmente qualsiasi gioco mai fatto. Si va a creare così un paradosso poiché ad un fan di Metal Gear Solid viene proposta come alternativa un gioco come Untiled Goose Game. Il primo che si preoccupa di temi come l’antimilitarismo e la corsa agli armamenti nucleari e il secondo che è un gioco su un’oca rompi scatole. L’unica cosa in comune dei due titoli è la meccanica principale, ma questo non basta per dire che siano giochi “simili”. Sarebbe più corretto dire che nel caso dell’epopea di Kojima parliamo di spy stories e in quello del gioco dell’oca parliamo di una commedia.
La natura ludica dei videogiochi
Qualcuno potrebbe giustamente ribattere dicendo che i videogiochi, per natura intrinseca del loro medium, hanno una natura ludica. Ovvero comunicano attraverso il gameplay e per questo ha senso che la suddivisione avvenga basandosi sul tipo di interazione che il gioco propone.
Questo pensiero, seppur logico, diventa opinabile se paragoniamo i videogiochi ad altri media narrativi, quali la letteratura e il cinema. Essendo il gameplay il mezzo, e non il contenuto, sarebbe come classificare i libri in base al tipo di carta usata per la stampa o i film in base al formato con cui sono girati. Se è vero che “il medium è il messaggio”, è altrettanto giusto che la maggior parte dei mezzi espressivi che sfruttano capacità uniche del loro linguaggio lo fanno per il fine ultimo di esprimere un concetto. E in campo videoludico la nascita dei generi avviene solitamente attraverso un (capo)lavoro che precede o annuncia nuove meccaniche (in maniera non troppo dissimile al cinema di genere citato pocanzi).
Ne è esempio recente il genere dei soulslike, ovvero giochi uguali o simili alla famosa saga di Dark Souls. Quel che è successo ormai nel lontano 2011, (ma anticipato qualche anno prima da Demon’s Souls) è stata la prima comparsa di un insieme di regole e meccaniche che funzionavano talmente bene da far pretendere ai giocatori la produzione in massa di giochi simili. La famosa serie di From Software, però, non è una saga soulslike, ma una saga fantasy (con qualche elemento horror). Il cuore di Dark Souls non risiede nelle meccaniche ma nel loro significato. Dal punto di vista espressivo è più rilevante riproporre le sensazioni che un gameplay provoca, piuttosto che il gameplay stesso, tanto vero che lo stesso game director della saga, Hidetaka Miyazaki, ha poi “abbandonato” la sua stessa creazione per creare un gioco che si discosta dal genere dei soulslike ma che è totalmente in linea con la stessa poetica presente nei giochi precedenti. Sekiro: Shadows Die Twice è l’ennesimo fanta-horror, che ha nel cuore della sua interazione il proprio significato, pur cambiandone le meccaniche di base (la completa assenza del lato ruolistico, tipico della produzione From Software).
I generi videoludici nascono spesso così, vedasi casi come i roguelike o i metroidvania, dove le meccaniche sono le sole caratteristiche del gioco che vengono realmente ereditate. Poco importa se poi un gioco è ambientato su un pianeta alieno e un altro nel castello del Conte Dracula.
Sebbene Doom e Wolfstein siano oggettivamente ideatori di quello che è il genere più diffuso dei videogiochi, la loro eredità dev’essere riconosciuta solo da un punto di vista tecnologico, perché un gioco come Portal, che prevede la meccanica tipica dello sparattutto in prima persona, è un’opera completamente diversa dal proprio collettivo.
Il dilemma dei giochi non narrativi
C’è un ultimo aspetto da considerare se vogliamo ripensare al modo in cui i generi videoludici vengono classificati, ovvero il particolare caso dei giochi non narrativi.
Di che genere sono Tetris, Super Mario e The Witness? Giochi che hanno al loro interno puro gameplay e poco altro. Questa è una domanda insidiosa che si riversa anche in altri media (di che genere è La Dolce Vita?). Una risposta potrebbe essere definirli “giochi d’autore” o semplici “giochi d’intrattenimento”, ma questo solo se sono assenti caratteri tipici per l’affermazione di un genere. Un’alternativa più radicale sarebbe invece mettere in dubbio il valore espressivo di opere non narrative, o definire un genere collettivo per rinchiudere videogiochi platform o puzzle games sotto un’unica etichetta generalista.
Anche nel caso di questi generi unicamente ludici però, esistono le spartizioni verso topos più classici. Potremmo infatti definire un gioco come Inside come uno sci-fi e Catherine come un romance horror (come esso stesso si definisce).
Ma il dilemma può avvenire anche in vie inverse, ossia quando alcuni titoli presentano meccaniche uniche e difficili da inquadrare all’interno di un genere. L’esempio più lampante è il recentissimo Death Stranding di Hideo Kojima. È un third-person shooter, un open world, un walking simulator? Sarebbe più semplice dire che è un gioco di fantascienza che ci lascia apprezzare la potenza espressiva delle meccaniche presentate che, con molta probabilità, rimarranno personali del gioco. Ma ancora giochi come What Remains of Edith Finch, Life Is Strange, e That Dragon, Cancer mostrano tutti meccaniche uniche ma hanno in comune i tratti tipici del dramma.
Quella che è l’arte videoludica viene spesso dismessa in maniera superficiale dai media e in generale da chi non ne fa parte. Uno dei motivi potrebbe essere la tendenza tipica del medium di dover trovare caratteristiche uniche del proprio linguaggio per potersi legittimare. Pur non essendo totalmente errato, si dovrebbe iniziare a considerare l’idea che l’interazione sia subordinata alla storia (se presente) e non il contrario. L’indipendenza artistica la si ottiene sfruttando i mezzi unici del linguaggio e non classificandone le opere in base alle meccaniche. La consapevolezza di questo pensiero potrebbe essere il primo passo verso una maggior libertà artistica degli autori che giorno dopo giorno arricchiscono delle loro storie il mondo dei videogiochi.