Altro che “BioShock russo”: Atomic Heart dimostra di non avere alcuna ambizione, se non quella di intrattenere all’interno di un mondo bello da vedere ma privo di mordente
C’è voluto del tempo per avere un’idea precisa su Atomic Heart, titolo d’esordio dello studio russo Mundfish, e per diversi motivi. In primis per questioni etiche: come accaduto per Hogwarts Legacy, anche Atomic Heart è stato al centro di un movimento di boicottaggio (seppur meno rumoroso) spinto dall’Ucraina, a cui si aggiunge una certa fumosità riguardo ai finanziatori dietro al gioco. La questione resta ancora poco chiara, ma guardando ai temi di Atomic Heart non sembra ci sia alcuna sovralettura propagandistica russa. A questo si aggiungono le cattive condizioni di lavoro (crunch e cattiva gestione della dirigenza) a cui è stato soggetto il team.
Il secondo motivo deriva dall’interesse scaturito sin dall’annuncio del gioco, risalente al 2018. Abituati, se non assuefatti, alle ucronie a stelle e strisce (Fallout, Wolfenstein, BioShock), vederne una con al centro una tecnologica Unione Sovietica degli anni ‘50 sembrava una boccata d’aria fresca. In seguito, si sono aggiunti gli appellativi della stampa, che hanno subito configurato Atomic Heart come “il BioShock russo”. Eppure, del BioShock di Ken Levine c’è veramente poco in Atomic Heart. Il che non è per forza un male: vuol dire che l’FPS russo è in grado di avere una sua identità. Il problema è che è un’identità che non convince appieno, per tutta una serie di motivi.
Nell’Unione Sovietica di Atomic Heart
Prima di addentrarci nella critica di Atomic Heart, alcune righe per delineare il contesto di gioco: siamo negli anni ‘50 e l’Unione Sovietica è la prima potenza mondiale grazie alla avanguardistica tecnologia robot su cui si basa la società.
Uomini e donne iper specializzati si dedicano al progresso dell’umanità, mentre il resto, persino l’arte, è compito per le macchine. Dello stalinismo non c’è più alcuna traccia, il che spiega la visione ottimistica e positivista dell’Unione Sovietica. Viviamo tutto attraverso gli occhi dell’agente P-3, durante una magnifica introduzione lunga circa 40 minuti. Qui emerge subito la direzione artistica incredibilmente curata, capace di rendere splendente l’estetica brutalista sovietica.
Siamo in un giorno importante: il lancio del Kollektive 2.0 renderà il sapere umano accessibile a tutte e a tutti. Peccato che i robot decidono di ribellarsi, dando inizio a una strage nel centro 3826, il fiore all’occhiello dell’URSS. Nei panni dell’agente P-3, supportato dall’IA del guanto chiamata Charles, dobbiamo capire chi si cela dietro a questa tragedia e ristabilire l’ordine. Così ha richiesto il rinomato scienziato Dmitry Sechenov, a cui il protagonista è molto legato.
Gli alti e bassi di Atomic Heart
All’inizio Atomic Heart si presenta in maniera interessante. Avanziamo lenti, attenti alle telecamere, con la Svedese in mano, mentre prendiamo familiarità con i comandi e le atmosfere. Di base capiamo che il gioco si divide in scontri ed enigmi ambientali, a cui si aggiunge una parte di looting e potenziamento dell’equipaggiamento. In entrambi i casi il livello di sfida è impegnativo: i riflessi devono essere ben attenti, perché i nemici picchiano e quando si finisce chiusi nell’angolo (accade spesso) è la fine; la risoluzione dei puzzle richiede invece un buon lavoro delle meningi. Successivamente sblocchiamo le capacità di Charles che ci permettono di affiancare le armi con abilità speciali, quali scossa, getto ghiacciato, telecinesi e altro. Sì, questo in effetti ricorda BioShock, così come le animazioni in stile retro che caratterizzano ciascuna abilità del menu, ma le analogie finiscono fin qui. Il feeling col sistema di combattimento è comunque piacevole, soprattutto per i numerosi effetti che è possibile dare alle armi.
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Superata la prima fase, ambientata negli spazi chiusi e bui di una base sotterranea, Atomic Heart dà il via all’open world. Il problema è che il mondo aperto del gioco non è piacevole da esplorare, soprattutto per una frustrazione derivata dall’impossibilità di liberarsi dai nemici. Ogni angolo del centro 3826 è tappezzato di telecamere che se distrutte vengono prontamente riparate da altri robot. E questo accade con tutti i nemici fatti fuori all’aperto, per un respawn costante che non lascia spazio all’esplorazione libera, neanche quando possiamo velocizzare il tutto in automobile. A rendere ancora più opprimente il tutto è la mancanza di meccaniche stealth che permettano l’avanzamento, dato che P-3 può solo accovacciarsi e attaccare alle spalle.
A poco a poco quindi Atomic Heart si mostra per quello che è: un titolo caciarone, in cui si combatte tanto, con un linguaggio esageratamente sboccato e personaggi usciti fuori da un b-movie americano degli anni ‘80 (P-3 su tutti). È un male? Non del tutto. Come detto prima, combattere è lì per lì appagante, mentre la colonna sonora pesca a piene mani dal repertorio sovietico, passando dal rock e dall’elettronica, per un effetto sempre variegato, perfetto a seconda dei momenti. Anche il design dei nemici è spettacolare, soprattutto dei boss, generando momenti davvero esaltanti.
Il resto però alla lunga stanca, che siano gli scontri costanti coi nemici, il carattere irruento di P-3, le allusioni sessuali per accontentare lo stereotipo del gamer, rimasto ancora all’adolescenza, o la trama che non ha alcuna velleità di sorta, nonostante l’ambientazione di un certo peso. E risiede proprio qui la differenza con BioShock. Se con Rapture e Andrew Ryan, Irrational Games usa il videogioco come mezzo per criticare la società americana, mettendo in risalto il paradosso della filosofia oggettivista, Atomic Heart è solo uno sparatutto con un importante colpo di scena finale che però a conti fatti non lascia nulla.
La predominanza dello spettacolo sul contenuto è evidente anche nel modo in cui viene raccontata la lore di Atomic Heart. Al di là dei manifesti ispirati e di alcuni dialoghi nel corso delle missioni, Mundfish delega la caratterizzazione del mondo di gioco alle e-mail dei terminali e all’interazione coi morti. Come si vive nell’Unione Sovietica prima della ribellione dei robot? Come opera il Politburo? Perché P-3 ha un intercalare sgradevole come “cazzo di crostini”? Questi e molti altri quesiti sono reperibili solo se si ha la pazienza di leggere i numerosissimi testi nascosti nei computer di 3826. Poca narrazione ambientale, poco spazio al contesto sovietico, se non per alcuni rimandi, come alla cosmonauta Valentina Tereškova, per concentrare il tutto sull’azione e una spettacolarità dal forte gusto americano.
Arrivati fin qui Atomic Heart esce piuttosto ammaccato. Ed è un peccato, perché per essere un titolo d’esordio, Mundfish ha dimostrato un certo talento e una certa ambizione. Questi, tuttavia, vengono frenati dall’incapacità di uscire dagli standard di una produzione mainstream, per un risultato finale di cui resta poco, se non addirittura o nulla.