Philip Dick goes to the movies
O almeno ci prova…
Trasportatevi indietro nel tempo, fino al 1982. Piove. Da una limousine nera vedete scendere un uomo, che si dirige con passo svelto negli EEG Studios. È Philip Dick ed è lì per qualcosa di epocale: dare un primo sguardo a una ventina di minuti di Blade Runner in anteprima. Si tratta di una versione modesta, senza musica e con un accenno agli effetti speciali che avrebbero poi sbancato da lì a pochi mesi.
La proiezione avviene senza intoppi con un Dick immobile, che tiene lo sguardo fisso sullo schermo, anche dopo che le luci in sala si sono riaccese. Tutti sono in attesa e lo scrittore non esprime nessun giudizio, ancora, ma si volta a chiedere: ‘Me lo fate vedere un’altra volta?’
Blade Runner è solo l’inizio
Purtroppo quella miserrima e meravigliosa clip di Blade Runner sarà l’unico assaggio che Philip Kindred Dick avrà della pellicola di Ridley Scott, visto che lo scrittore da lì a pochi mesi sarebbe scomparso.
La storia epica di Deckard è stato un esempio di adattamento indovinato e vincente di un romanzo dell’autore californiano, così ben riuscita da diventare seminale e da aprire un intero linguaggio cinematografico e fantascientifico in senso lato. Certo, c’è stata una vera e propria alchimia tra sceneggiatori, direttore e addetti agli effetti speciali e alla colonna sonora, una di quelle che raramente si trovano e che poi inevitabilmente restano alla storia.
A parte il valore artistico della pellicola, Blade Runner ha un altro pregio, forse il più sottovalutato: da quel momento in poi, i riflettori e l’attenzione degli autori cinematografici in cerca di storie assurde da raccontare si sono indirizzati verso l’opera sconfinata di Philip Dick. La notorietà conseguente al successo di Blade Runner avrebbe sicuramente fatto piacere a Dick, ma – come abbiamo già detto – per ironia della sorte, l’autore californiano non ha mai goduto di questa fama, diventata quindi postuma.
I film tratti dai racconti e dai romanzi di Dick si sono succeduti con una cadenza regolare, dimostrando quanto l’immaginazione del genio di Berkeley fosse una vera e propria miniera di soggetti e idee trapassabili in celluloide.
Pensiamo all’interpretazione di Paul Verhoeven nel suo Total Recall, con le atmosfere marziane, i complotti e le scene action, portate po all’estremo con la rivisitazione di Minority Report da parte di Steven Spielberg, che mostra un futuro colorato e pericoloso alla stesso tempo, tecnologico ed edulcorato.
E accanto a questi titoli visivamente impressionanti, esiste una corposa zona grigia di interpretazioni di racconti dickiani fatte in maniera più sommessa e meno eclatante. Per esempio, Screamers – Urla dallo spazio, una discreta produzione Canadese-Americana-Giapponese, o il più costoso I Guardiani del Destino con Matt Damon e Emily Blunt mostrano una buona comprensione della poetica di Dick, senza però riuscire a capirne veramente i segreti.
D’altro canto, se c’è un film che forse cerca in tutti i modi di stare lontano dall’universo di Philip, nonostante sia tratto da uno dei suoi racconti, è Paycheck. Andando oltre la performance di Ben Affleck (che è pur sempre Ben Affleck e non possiamo pretendere tanto), è il taglio e l’interpretazione che ne fa John Woo a essere fuori canone. Purtroppo il regista di Hong Kong ha rivisitato in chiave troppo personale la storia breve di Dick, prendendo e arricchendo ciò che l’autore non avrebbe mai voluto vedere al cinema. La visione cinematografica che ha Woo dell’azione, il parossismo ritmico dei suoi film, le accelerate e la prevaricazione della spettacolarità sono purtroppo le lenti sbagliate attraverso cui filtrare le visioni di Philip Dick.
In questi ultimi due anni abbiamo notato come le storie distopiche e oscure dell’autore californiano siano state prese di mira anche dalle produzioni televisive. The Man in The High Castle ha fatto un buon lavoro per ricreare le atmosfere inventate nella Svastica sul Sole, creando un ottimo clima di paranoia e fuga dalla realtà. Meno fortunato, invece, il seguito a puntate del lungometraggio omonimo Minority Report, che si è rivelato un esperimento fallato e fallace, cancellato dopo una sola dimenticabile stagione.
Un altro esperimento è in corso in queste settimane su Amazon Video: vista la produzione sconfinata di short stories che il Maestro ha scritto nella sua prolifica e poco fortunata carriera, si è deciso di creare Electric Dreams, un contenitore antologico in cui inserire alcuni tra gli incubi tecnologici più inquietanti di dell’autore, per altro recentemente ristampato anche in Italia da Fanucci Editore. Il risultato è quello di una serie che fa il verso a Black Mirror ma che riesce a mantenere una sua identità grazie alla fantasia sfrenata e non ancorata ai temi del futuro prossimo dello scrittore di Blade Runner. La realizzazione e il risultato finale è abbastanza appetibile e, come tutte le serie televisive antologiche, ha i suoi alti e bassi. D’altro canto Electric Dreams ha il pregio di spaziare tra argomenti e toni e quindi riesce a divertire a prescindere grazie alla varietà di approcci fantascientifici che affronta.
Un Oscuro Scrutare e la fantascienza come sfogo
Dopo Blade Runner, secondo noi, uno dei capisaldi della filmografia dedicata a Philip Dick è sicuramente Un Oscuro Scrutare, pellicola di Richard Linklater con un ottimo Keanu Reeves. Al di là della tecnica con cui il film è stato girato, l’Interpolated Rotoscoping, che è costato ben diciotto mesi di post-produzione e un gran lavoro di fino per ricolorare a tinte pastello ogni singolo fotogramma, il film incarna una perfetta sintesi dell’uso che Dick fa della fantascienza per raccontare gli orrori che gli accadevano intorno.
Un Oscuro Scrutare è una storia che parla di droga, ma tutta la critica alle sostanze, le descrizioni delle mutilazioni sensoriali a cui porta, le paranoie e le follie dei consumatori abituali sono filtrate in un contesto fantascientifico che ha la duplice funzione di allontanare il dramma dalle nostre vite e contemporaneamente regala una visione più ampia e schietta del tema.
In questo caso, il film ha centrato perfettamente il bersaglio, tanto da non figurare come un film di fantascienza, ma come un lungometraggio drammatico, perché questo era il fine ultimo di Dick: descrivere un dramma, viverlo e riviverlo, poiché quello che stava uscendo dalla penna era davvero il suo sangue, quelli che vivevano tra le pagine erano davvero i suoi amici, come confessa nell’epigrafe del libro e come il regista Linklater ha fatto esattamente nel film, quando uno dopo l’altro sono citati i nomi dei ragazzi e delle ragazze che Dick ha visto morire, trascinati nell’abisso della dipendenza.
Potremmo dire che a differenza di altri racconti e altri romanzi, questo era ben più facile da interpretare, visto che lo scrittore stesso ci fornisce le chiavi di lettura, guidando il lettore in quello che sta per accadere. Potremmo dire che Un oscuro Scrutare si colloca a metà strada tra la fantascienza e il romanzo contemporaneo, e potremmo (dovremmo) considerarlo come la Stele di Rosetta per riuscire a capire e carpire i segreti disseminati da Dick nelle sue opere. Spesso accade che ci si lascia trascinare dalle sequenze d’azione che Dick saltuariamente inserisce nelle sue storie, nelle descrizioni degli artifici fantascientifici o dalla speculazione tecnologica, quando in realtà Dick sta facendo davvero altro: sta travestendo gli orrori che quotidianamente la sua società gli propina senza filtri.
Si può portare Dick al cinema?
La risposta a questa domanda è ovviamente sì, visto che ci sono riusciti in tanti. Il problema non è trasformare le storie in immagini, perché quelle sono dentro ai paragrafi. La difficoltà è portare sulla celluloide quello che Dick vuole davvero dirci con quelle parole. Per approcciare un romanzo o un racconto di Dick per farne un film, da una parte c’è bisogno di uno sceneggiatore che abbia affinità con lo scrittore di Berkeley, che abbia tutti gli strumenti per sfrondare il primo strato di fantascienza per arrivare al nucleo di polemica che i racconti si portano dietro.
Questa è la parte più difficile, affrontare le critiche dure e spietate che sono scritte tra le righe della narrazione e non aver paura di mostrarle. Purtroppo (o per fortuna), Dick è uno scrittore fortemente politico, e con un’impronta decisamente invisa alla cultura di massa americana. Per avere un’idea delle sue posizioni, lasciamoci alle spalle i suoi scritti di fantascienza (anche se Occhio nel Cielo sarebbe un ottimo esempio) e diamo uno sguardo ai pochi romanzi “normali” che ha scritto, come L’Uomo dai Denti tutti Uguali o Confessioni di Un Artista di Merda. Da ogni paragrafo, tra ogni riga, si sente urlare la sua rabbia nei confronti di una società marcia che fagocita l’individuo, dove la violenza e la prevaricazione sono all’ordine del giorno. Nell’Uomo dai Denti tutti Uguali, il vicino del protagonista picchia la moglie solo perché è invidioso della sua carriera in salita. E il protagonista stesso gioca uno scherzo al suo vicino per vendetta e rischia di incasinare la vita della sua stessa cittadina, e per rimettere a posto le cose (o tentare, quantomeno) si indebita fino al collo.
C’è un pessimismo dietro le storie di ordinaria follia americana talmente radicato da essere un personaggio a sé stante, con una presenza quasi tridimensionale.
Come potete immaginare, non è così facile scrivere e proporre un film che dovrebbe essere di fantascienza, che dovrebbe avere le astronavi e le esplosioni, e poi infarcirlo di digressioni di questa pesantezza. Blade Runner ha trovato la giusta alchimia, il dosaggio esatto tra le due componenti, in una sintesi perfetta, sacrificando – quando poteva e doveva – la componente action per regalarci dei magistrali monologhi (stiamo pensando tutti a Rutger Hauer) o delle sequenze maestose e ridondanti.
Di altra natura è stato invece l’approccio a Total Recall, dove l’aspetto sociale della riscrittura della memoria è stato leggermente soverchiato dalle dinamiche di spionaggio e dalle visioni personali di Verhoeven. Non per niente, per quanto un cult, Atto di Forza non è mai annoverato tra i puristi dickiani come uno dei loro film preferiti.
Questo ci porta alla seconda inevitabile considerazione: c’è bisogno di un regista che abbia la stessa visione di Dick o che sappia quantomeno inquadrarla nel verso giusto. Rivedete Paycheck (se ne avete il coraggio) e ritroverete tutti gli stilemi tipici del cinema di John Woo, ma scoprirete con rammarico che di Dick ci è rimasto davvero poco. C’è un thriller fantascientifico, con un po’ di incasinamenti della memoria, tanta azione e null’altro che ricordi l’autore californiano.
Il problema risiede proprio nel fatto che Woo è un grandissimo regista, ma dalla personalità forte che emerge puntualmente in ogni inquadratura, e che comunque prosegue un percorso di cinema di genere che snatura per forza di cose la visione di Dick, appiattendola a pochi temi scarni.
C’è un altro aspetto che viene raramente analizzato nelle sue opere e che non viene quasi mai inserito nelle eventuali trasposizioni cinematografiche, sempre per un qualche pudore o altro tipo di “paura”: è l’aspetto spirituale che in Dick ha una presenza quasi obbligatoria.
Philip Dick era un animo tormentato, incapace di accettare e di accettarsi, alla ricerca di risposte a domande sempre più complicate, in una situazione di misticismo e ricerca di sé che negli ultimi anni della sua vista ha rasentato la follia. Inevitabilmente, la sua deriva religiosa strabordava nei suoi romanzi, addirittura in maniera esplicita, come nella Trilogia di Valis, o nelle Tre Stigmate di Palmer Eldritch dove la presenza del Divino viene vista in maniera allegorica come un’entità extraterrestre.
Riuscire a trovare una chiave di volta in questa mole di pensiero filosofico non è cosa da poco, e sicuramente questa difficoltà di fondo e il timore di sfociare in zone grigie della comunicazione, rende sempre più improbabile che qualche cineasta si misuri con alcuni dei capolavori del Maestro.
Sicuramente c’è tanto da vedere e da fare con le opere di Dick, ma il primo passo è comprenderle, e non con gli occhi del fan che ne vede la magnificenza a ogni rigo, o dell’accademico che cerca significati reconditi in ogni virgola, ma con una giusta via di mezzo, che coniughi la bellezza della sua immaginazione con l’orrore che riusciva a vedere nella società che lo circondava.
Mio Signore
Volete sapere come ha commentato Dick la visione in anteprima di Blade Runner? Sarete sorpresi, perché nonostante il linguaggio corporeo facesse presagire a qualcosa di tragico, Dick si espresse in maniera estremamente positiva:
“How is this possible? How can this be? Those are not the exact images, but the texture and tone of the images I saw in my head when I was writing the original book! The environment is exactly as how I’d imagined it! How’d you guys do that? How did you know what I was feeling and thinking?!”
(Com’è possibile? Come può essere? Non sono le immagini esatte, ma sono gli stessi colori e le stesse tonalità che ho visto mentre scrivevo il libro! L’ambientazione è esattamente come l’avevo immaginata! Come avete fatto, ragazzi? Come sapevate a cosa stavo pensando e cosa stavo sentendo?’
(Paul Sammon – Future Noir – The Making Of Blade Runner)
Con queste parole Dick ha salutato Blade Runner e purtroppo non ha potuto aggiungere altro, ma sicuramente Ridley Scott e tutti i suoi collaboratori avevano centrato l’obiettivo, rendendo immortale il capolavoro letterario.
Quello che possiamo aspettarci nei prossimi anni è impossibile da decifrare e da prevedere. Ci auguriamo che prima o poi qualcun altro riesca a bissare il successo interdimensionale di Blade Runner, riuscendo a tirar fuori un film che renda giustizia a quasi tutti gli aspetti che Dick si è sempre preoccupato di sondare nei suoi scritti.
C’è in realtà una cosa che tutti noi fan di Philip Dick aspettiamo da anni: l’avvento di UBIK, la trasposizione cinematografica di quel capolavoro indiscusso (a ancora discusso), dalle molteplici chiavi di lettura e dai piani narrativi multipli, che allo stesso tempo è una feroce critica alla società consumistica e in definitiva contiene un po’ tutti i temi che hanno ossessionato l’autore di Berkeley, dalla mistica alle realtà multiple, fino alle droghe e alla ricerca sfrenata della ricchezza.
Perché aspettiamo così tanto UBIK? Perché è l’unico romanzo di cui Dick stesso abbia curato la sceneggiatura e forse, in mano a qualcuno di capace e che abbia studiato a fondo questo autore, avremo sullo schermo la vera idea che Dick aveva del cinema come mezzo per raccontare le sue follie.
Sappiamo che da anni si parla di una realizzazione, ma ancora sono solo chiacchiere. Nel frattempo, aspettiamo.