Viaggio verso Il pianeta del tesoro, un classico Disney troppo spesso sottovalutato che meritava un’accoglienza migliore
Nella storia dei Classici Disney, l’inizio del nuovo millennio coincide con una grossa crisi nella casa del topo: i numeri del periodo del Rinascimento – che va dal 1989 al 1999 e comprende successi come La sirenetta, La bella e la bestia, Aladdin, fino ad arrivare ai più recenti Hercules, Mulan e Tarzan – sembrano sempre più lontani e la computer grafica messa in campo da Pixar e Dreamworks inizia a mostrarsi un’avversaria in grado di mettere in difficoltà la supremazia occidentale Disney in campo di animazione.
Nonostante questo, però, i primi anni 2000 hanno regalato ai figli degli anni 90 – pronti per smettere di guardare i cartoni animati e lanciarsi nel magico mondo dell’adolescenza – una serie di personaggi che oggi, con il linguaggio dei meme, chiameremmo relatable: Le follie dell’imperatore, Atlantis, Lilo & Stitch, con i loro protagonisti che coprono quasi interamente lo spettro delle emozioni regine della pre-adolescenza – insofferenza, egocentrismo, inadeguatezza, goffaggine, rabbia, distruzione, rifiuto della famiglia – continuano quel percorso di svecchiamento della trama standard rinascimentale, che prevedeva numeri musicali, storie d’amore impossibili (o presunte tali), animali parlanti nel ruolo di comic relief. In questo clima di ribellione adolescenziale, arriva nei cinema Il pianeta del tesoro, versione disneyana e spaziale del classico dell’avventura di Robert Louis Stevenson.
La lunga strada verso il pianeta del tesoro
Uscito nelle sale nel periodo tra il giorno del ringraziamento e il Natale 2002, la proposta di realizzare un lungometraggio animato ispirato all’Isola del tesoro viene in realtà avanzata da Ron Clements e John Musker nello stesso momento in cui presentano il pitch de La sirenetta – nel 1985 – poi di nuovo nel 1989, e una terza volta nel 1993, in seguito al successo di Aladdin. I due riusciranno a ottenere un semaforo verde solo nel 1995 – e solo dopo aver scomodato il presidente Roy E. Disney e il CEO Michael Eisner -, a patto che non iniziassero a mettere mano al progetto prima della conclusione di Hercules.
Nel frattempo, L’isola del tesoro era già stata nello spazio due volte. Nel 1982, infatti, il regista bulgaro Rumen Petkov aveva presentato il film d’animazione Planetata na sakrovishtata – letteralmente Il pianeta del tesoro – ambientato su una Terra completamente artificiale, in cui la natura si è estinta. La storia, che segue la trama del romanzo di Stevenson con tesori rubati e pappagalli robotici, contiene anche una morale ecologista e un cameo non autorizzato di Topolino durante un finale trionfale sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven.
Nel 1987 L’isola del tesoro prende di nuovo il largo nelle vastità dello spazio profondo – stavolta con una coproduzione italo-franco-tedesca – per approdare su Rai Due. Lo sceneggiato RAI, girato in inglese e presentato sul mercato europeo come Treasure Island in Outer Space, fu il primo kolossal realizzato interamente dalla nostra tv di stato, nonché una prova storicamente attendibile del fatto che una volta gli sceneggiati RAI erano ambientati in luoghi diversi da chiese e commissariati.
Qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo
Il motivo per cui una volta ricevuto il via libera siano serviti a Musker e Clements altri sette anni per completare Il pianeta del tesoro, è puramente tecnico: i registi volevano infatti essere in grado di muovere la telecamera come Steven Spielberg o James Cameron, una tecnologia non disponibile a metà anni 90, ma che verrà sviluppata e usata per la prima volta nel 1999 per Tarzan. Deep Canvas è una tecnica di disegno 3D che permette di realizzare ambienti in stile tradizionale che si estendano però a 360 gradi, consentendo quel movimento di camera cercato da Musker e Clements. A questa innovazione degli sfondi si uniranno personaggi animati in 2D e l’uso della computer grafica per elementi come gli arti robotici di John Silver. Il pianeta del tesoro è il primo film di animazione Disney a usare le tre tecniche contemporaneamente con l’obiettivo di armonizzarle tra di loro.
L’intero progetto, in realtà, è un progetto che mira all’armonia tra elementi contrastanti: durante lo sviluppo de Il pianeta del tesoro è stata coniata la Legge del 70/30, che si applica a ogni aspetto del film. A partire dall’artwork, per arrivare agli effetti sonori, Il pianeta del tesoro presenta un 70% di elementi tradizionali accompagnati da un 30% di attributi tipici della fantascienza. Per questo motivo lo spazio del film è caratterizzato da colori caldi che ricordano le palette della scuola veneziana di Tiziano, costumi che ricordano più lo steampunk della space opera, effetti sonori che alternano molle e ingranaggi della prima rivoluzione industriale ai booster della RLS (Robert Louis Stevenson) Legacy, la nave a vele solari su cui il protagonista Jim Hawkins, in compagnia del fido Dottor Doppler, si imbarcherà alla volta del tesoro.
Il pianeta del flop
A partire dalla sequenza di apertura, in cui il giovane Jim legge un ololibro – omaggio ai vecchi libri di fiabe con cui si aprono classici come Cenerentola, La spada nella Roccia e Robin Hood -, Il pianeta del tesoro fonde tradizione e innovazione, pop – con l’unica canzone del film, cantata in italiano da un iconico Max Pezzali e in inglese da un meno ispirato John Rzeznik – e classiche tematiche del bildungsroman come la ribellione adolescenziale; dopo il successo de La sirenetta, Aladdin e Hercules, Musker e Clements tornano a osare, come già avevano fatto nel 1985 con Taron e la pentola magica, ma come con Taron e la pentola magica, il botteghino non ripagherà la loro visione.
I motivi per cui Il pianeta del tesoro non ha avuto successo possono essere molti: il marketing risicato, la concorrenza in sala di Harry Potter e la camera dei segreti, la presenza del robot B.E.N. – il personaggio più Jar Jar Binks della Disney prima dell’acquisizione del franchise di Star Wars -, c’è chi sostiene che alla Disney si fossero stufati dell’animazione tradizionale e volessero affossare il dipartimento per iniziare a competere seriamente nel mondo della CGI (certo, poi hanno deciso di scendere in campo con Chicken Little, ma questa è un’altra storia).
Perché riguardare Il pianeta del tesoro?
Nonostante Il pianeta del tesoro sia riuscito nell’arduo compito – unico insieme a Lilo & Stitch, candidato lo stesso anno – di perdere l’Oscar per il miglior film d’animazione contro un lungometraggio dello Studio Ghibli – 2002, la statuetta va a La città incantata – Jim Hawkins è ancora qui, pronto a urlare di nuovo Ci sono anch’io, ed è arrivato il momento di rivalutare questo quarantatreesimo classico Disney, uno dei pochi ad avventurarsi fuori dai confini del nostro pianeta e a presentarci nuovi mondi, tecnologie future plausibili – come le vele solari, in grado di sfruttare la luce della nostra stella per generare una pressione di radiazione in grado di fornire una spinta molto elevata e opzione concreta per il futuro delle missioni spaziali – e voli dell’immaginazione affascinanti – l’Etherium, correnti spaziali contenenti aria respirabile e fauna, circondate dal vuoto, che vengono solcate dalle navi dello spazio.
Ma soprattutto, Il pianeta del tesoro è una storia che – lontana dalle dinamiche della storia d’amore impossibile – ci racconta un percorso di crescita, la ricerca del proprio posto del mondo, l’importanza delle figure di riferimento durante l’adolescenza, ma anche la fallibilità di quegli adulti, le zone d’ombra di ogni persona, che può essere un buon padre e allo stesso tempo una canaglia. Jim Hawkins, scontroso, ribelle, uno di quei personaggi di cui ti innamori da piccola e che vorresti prendere a schiaffi da adulta, dovrà imparare che il proprio posto, nel mondo, va scoperto da soli, che nessuno può prenderti per mano e accompagnarti fin lì, che crescere è difficile – chiedetelo pure a Peter Pan – ma che la vista, da quassù, è bellissima. E alla fine, al vecchio Jimbo, perdoniamo pure di essere diventato una guardia.