Con il benestare di mamma Netflix, il regista messicano è finalmente riuscito a coronare il suo sogno e il Guillermo del Toro’s Pinocchio è davvero poderoso
l cinema, che altro non è che una forma del racconto, dovrebbe comporsi di poche azioni logiche: studiare, pensare, fare, rifare ancora. Quello che è venuto prima è la traccia per ricamare quello che verrà poi. È però comprensibile che approcciarsi all’ennesimo adattamento cinematografico di Pinocchio, eterno romanzo di Carlo Collodi, porti da sé un po’ di scetticismo. Il 2022 ne ha visti addirittura due in un anno. Il primo in seno a Robert Zemeckis, passato per lo più inosservato a causa della sua sostanziale pigrizia concettuale, il secondo affidato a Guillermo del Toro, che da anni tenta di smuovere mari e monti per realizzare un’opera in stop-motion dedicata al celebre burattino.
Con il benestare di mamma Netflix, il regista messicano è finalmente riuscito a coronare il suo sogno e il Guillermo del Toro’s Pinocchio (anche di Mark Gustafson, in co-regia, e Patrick McHale, in co-sceneggiatura) è poderoso. Dentro c’è tutto quello che ci si può attendere dal nome di Del Toro, una storia densa della poetica del mostro come creatura che anela all’amore passando per la grettezza di un mondo che la scansa, la scalcia, la sfrutta.
- Leggi anche: 10 bellissimi film in stop-motion
E nel 2022 non si può ragionare sul Pinocchio se non andando a scuotere le radici che lo tengono saldo alla tradizione in cui è nato e si è sviluppato. Il romanzo di Collodi era un testo pregno di una retorica moralista adibito quasi a bignami del rispetto e dei doveri a cui un bambino doveva sottostare. Citando De André «Onora il padre ed onora la madre, e onora anche il loro bastone», perché là fuori il mondo è pieno di brutture e vedi che ti succede se finisci per non obbedire all’autorità. Gatti, volpi, mangiafuochi e truffaldini di ogni sorta pronti ad approfittarsi del bimbo come ritorsione per le sue marachelle.
Il mondo, però, sa essere davvero un posto terribile, e il dolore può colpire al costato anche nella sicurezza di un vissuto fatto di rispetto e di rigore. È quello che nel Pinocchio di Del Toro capita a Geppetto (David Bradley), lavoratore alacre che va a messa e dice preghiera prima di ogni pasto. Ma davanti al Cristo di legno che sta scolpendo per la chiesa del suo paese non trova la salvezza, bensì il lutto più grande che possa capitare a un padre. Al vivere non resta che soffrire, ci tiene a ricordare con costanza il Grillo parlante (Ewan McGregor), narratore di questa storia e che sul comodino tiene un ritratto di Schopenhauer.
Dalla disperazione dell’uomo, dal sudore e dai fumi dell’alcol si genera la marionetta, un inanimato mostro di Frankenstein sbilenco e spigoloso a cui a donare vita non è più il Cristo, spietato e fallimentare nel mistero della sua silenziosa trascendenza, ma una Fata (Tilda Swinton) che ha le fattezze e le ragioni di una creatura pagana. Pinocchio (Gregory Mann) si anima e corre indisciplinato in un mondo che Del Toro rimastica da cima a fondo, traslandolo in Italia nell’epoca del ventennio fascista, bigotta, gretta e significante in parte proprio dell’aberrazione della morale originale dell’opera, dove pure la religione è avvelenata, asservita al potere e che fa il saluto romano.
«Credere, obbedire, combattere» è il motto che si staglia sui fondali di un film che fa acuta pernacchia della storia italiana e la cui fattura squisitamente materica è un piacere da vedere e da godere durante le peregrinazioni del burattino. Per Del Toro, le cui migliori storie sono da sempre generate negli angoli più oscuri in momenti che scrutano l’abisso, il Pinocchio del 2022 è occasione per stravolgere gli assiomi del racconto e rimetterli in funzione di un viaggio che può guardare alla vita passando solo per la morte. Il gatto, la volpe e mangiafuoco vengono fusi nell’aguzzino Conte Volpe («Le persone amano i burattini!»), il paese dei balocchi diventa un campo di addestramento dove la gioventù italica gioca a fare la guerra («Un ciocco di solido pino italico!»).
Pinocchio viene investito, gli sparano, affoga e sperimenta ogni genere di stortura dopo la quale viene spedito nel regno della morte dove sconta un’immortalità che presto diviene più un fardello che un dono. Viene poi ogni volta rispedito indietro, ma passa ad ogni occasione un po’ più di tempo che è tempo rubato allo stare insieme alle persone care. Ed è sempre sull’irrompere della morte che arriva qualcosa di positivo, è passando attraverso i presagi dell’oblio – la guerra, le bombe, la crudeltà e la barbarie tutta – che l’amore trova la sua strada con una forza che nel finale spezza il cuore con la sua gioiosa e lucida melanconia.
Il film dell’autore premio Oscar è un elogio all’assolutezza del vivere e della sua brevità, alla rottura delle regole come impulso alla crescita ma anche come meccanismo che avvicini alla consapevolezza delle proprie azioni, nei propri confronti e nei confronti delle persone che si amano. Pinocchio di Guillermo del Toro è una perfetta rivisitazione di un racconto eterno, l’unico, vero modo in cui lo si poteva ripensare oggi guardando al passato e fissando i piedi nel presente, opera delicatamente macabra che guarda al pedagogico accarezzando la perfezione.