Come nascono le polemiche seriali, e perché? Potremmo farne a meno, o almeno usarle per riflettere sulla complessità, senza tifo da stadio?
Tra le parole dell’anno presentate dal 2015 a oggi dall’Oxford English Dictionary troviamo post-verità, emergenza climatica, youthquake (letteralmente “terremoto dei giovani” – forte cambiamento nelle norme di una società causato dall’influenza delle nuove generazioni), l’aggettivo tossico e l’emoticon ????. Se per qualche assurdo strappo nel continuum spaziotemporale il comitato dell’OED avesse interpellato la sottoscritta, tuttavia, avrei proposto come parola dell’anno – ma anche del decennio, perché no – polemica.
Le polemiche sono tutto intorno a noi – come una volta ci diceva Megan Gale nel periodo natalizio per convincerci a comprare la Omnitel Christmas Card – e possiamo stare sicuri che non passi giorno senza che il popolo dell’internet – che poi è lo stesso popolo del pianeta terra, almeno di quella parte di mondo in cui il benessere generale permette l’accesso a un device, una connessione, e una porzione di tempo da passare sui social network – trovi un nuovo argomento di discussione, dove per discussione intendiamo, nella maggior parte dei casi, tifoserie da stadio e offese personali a chiunque non la pensi allo stesso modo.
Questa dinamica di individuazione del tema caldo del giorno-polemica-divisione in fazioni-offese-ribaltamento del punto di vista generale per cui quello che sembrava bianco è nero e viceversa-dimenticatoio è fisiologica al mondo dei social, in cui i contenuti legati ai trend sembrano ricoprire come un’onda tutto il resto, ma che come un’onda presto si ritira lasciando spazio alla successiva. Il mondo dell’intrattenimento non è certo rimasto fuori da questa passione per la polemica e, anzi, il mondo delle serie tv – più reattivo di quello cinematografico ai cambiamenti di forma e contenuto – sembra essere un terreno fertile per ogni tipo di polemica seriale, petizione, lamentela.
Riepilogo delle polemiche seriali precedenti
Pensateci, qual è l’ultima polemica collegata a una serie tv che vi viene in mente? Solo negli ultimi mesi abbiamo avuto forti critiche a The Mandalorian per il design delle armature femminili e per il consumo di uova non fecondate da parte del Bambino precedentemente conosciuto come Grogu, minacce di boicottaggio a svariate piattaforme di streaming a seguito della temporanea rimozione di alcuni episodi contenenti esempi di blackface di serie come Scrubs e The Office, capelli strappati al pensiero di un Lupin nero quando tutti sanno – con buona pace di Maurice Leblanc – che il vero e unico Lupin è giapponese, petizioni per salvare serie già cancellate o cancellare serie appena rinnovate, review bombing – come nel caso della seconda stagione di The Boys – messe in atto da persone che non si accontentano di un solo episodio settimanale della loro serie preferita e che dovrebbero essere spedite indietro nel tempo al 1991 a guardare Twin Peaks su Canale 5 il mercoledì sera.
Spostando il mondo della serialità dalla televisione allo streaming e le chiacchiere da bar dal bancone ai social network, quelle che erano opinioni personali sono diventate fazioni e i pensieri personali hanno trovato una cassa di risonanza che ha fatto aumentare in maniera esponenziale queste polemiche seriali. Se prima lo spettatore e la spettatrice avevano il telecomando, adesso hanno il comando e questo le case di produzioni lo sanno bene.
Volendo continuare (erroneamente ma in maniera propedeutica allo sviluppo del concetto) a parlare per fazioni, all’annuncio di una nuova produzione – al rilascio del cast, del poster, del teaser trailer o del prodotto stesso – troveremo sempre chi, in un’eterna lotta al fantomatico politicamente corretto, si domanderà che senso abbia la presenza di quel personaggio, come se una persona nera, o LGBTQIA+, o con disabilità, o grassa avesse necessariamente bisogno di una giustificazione per esistere, financo in un’opera di finzione.
Non dobbiamo dimenticarci, però, due grandi verità: nel mondo dei social le polemiche fanno sempre più rumore – e in generale gli esempi negativi ricevono sempre più attenzione di quelli positivi – e le piattaforme di streaming sono aziende il cui fine ultimo non è ricevere il plauso del pubblico, ma i loro soldi. Cosa ne deduciamo da queste due briciole di informazione? Che certe polemiche non fanno altro che aumentare la visibilità di alcuni prodotti che nel mare magnum della produzione seriale sarebbero altrimenti pressoché dimenticati – oltre che dimenticabili – e che quella che alcuni chiamano dittatura del politicamente corretto ma che io preferisco considerare un’apertura verso una (non sempre ben gestita ma senza dubbio) maggiore rappresentazione delle minoranze sia una tendenza che paga – letteralmente – andando a toccare l’interesse di una fetta di pubblico più ampia di quella che resta ancorata a un intrattenimento che fa dell’uomo etero cisgender, preferibilmente bianco e aderente a dei presunti standard di mascolinità, il suo faro nella notte.
Politicamente corretto o specchietto per le allodole?
Un altro elemento da tenere in considerazione, però, un campanello d’allarme dei danni che queste polemiche seriali possono portare nel mondo reale è proprio legato al bisogno di far cassa delle aziende che vendono questi prodotti. Vi presento adesso i concetti di tokenismo e -washing. Questo desiderio di rendere le proprie serie più appetibili a un pubblico più vasto porta – non sempre ma spesso – a inserire personaggi appartenenti a una minoranza all’interno di una storia come semplice simbolo – un token, appunto.
Questa pratica, unita magari a una scrittura superficiale di questi personaggi, ottiene un effetto contrario a quello desiderato, risultando macchiettistico e – scusatemi il francesismo – paraculo. La stessa dinamica la possiamo trovare in atto all’ingresso in campo del blackwashing, o del pinkwashing: per scavare nella storia recente, nel momento in cui Netflix ha rimosso l’episodio di Community in cui il personaggio interpretato da Ken Jeong è pesantemente truccato di nero, interpretando nella scena contestualizzata un elfo oscuro durante una partita di Dungeons & Dragons (e venendo ripreso proprio dall’afroamericana Shirley per questa sua azione), non si è mossa sulla spinta di critiche della comunità nera, ma ha semplicemente messo in pratica un atto performativo di woke capitalism (termine coniato dalla giornalista Alana Semuels in un articolo di Time del 2019) con il fine di rendersi appetibile alla comunità di Black Lives Matter. Iniziative simili portano a inasprire un clima d’odio nei confronti delle minoranze, lasciando spazio a polemiche sterili e contribuendo a spostare l’attenzione dalle vere lotte delle attiviste e degli attivisti – che non hanno mai chiesto la rimozione di quell’episodio, forse troppo impegnati a manifestare per il diritto a continuare a respirare.
Questo significa forse che dovremmo essere spettatrici e spettatori passivi, che non si interrogano, che non commentano i prodotti di cui fruiscono? Certo che no, altrimenti i social resterebbero una vasta landa desolata, tuttavia, prima di salire sul carrozzone della polemica seriale, ma anche della polemica in generale, sarebbe indice di una sufficiente onestà intellettuale domandarsi se il proprio intervento abbia lo scopo di capire la complessità intrinseca della società o se non sia piuttosto un’egotica ricerca di conferma dei propri bias. In quel caso, usando le parole di un saggio coniglietto disneyano, se non puoi dire qualcosa di carino allora è meglio non dire niente, o evita almeno di lanciare petizioni.