La moda dei roguelike contamina anche Prey, difficile dire se sia effettivamente un male.

Se non avete giocato Prey allora fate un favore a voi stessi: chiudete questo articolo e correte a comprarlo, in qualunque forma lo troviate, dovunque ce ne sia una copia disponibile. Se Dishonored aveva già dimostrato che Arkane è semplicemente uno dei migliori team in seno a Bethesda, è stato proprio con Prey che il team ha espresso appieno il suo potenziale, creando un titolo stratificato, intelligente, eccezionalmente scaltro nel proporre un level designa ampio, interconnesso, liberamente esplorabile. Prey è Bioshock senza Ken Levine, è System Shock senza il bisogno di una campagna crowdfunding che lo riporti in auge (e che non si realizzerà mai). È un signor gioco, e per questo lo abbiamo visceralmente amato, tanto da eleggerlo, alla sua uscita, come “gioco del mese”. Capirete quindi che la notizia di un DLC ci aveva letteralmente mandato in brodo di giuggiole, complice il lavoro eccezionale che sempre Arkane aveva confezionato con un altro illustre contenuto aggiuntivo, quel “Morte dell’Esterno” che aveva fatto tanto da sequel, quanto da spin off, agli eventi di Dishonored 2, recuperandone meccaniche, profilo narrativo, ed aggiungendo al tutto quel tanto di diversificazione che bastava a non rendercelo indigesto.

Purtroppo la nostra euforia è scemata quando abbiamo scoperto che Mooncrash, il primo e tanto atteso DLC, altro non sarebbe stato che una sorta di roguelike. Un piccolo spin off il cui cuore sarebbe stata una sorta di simulazione procedurale, del tutto staccata dagli eventi vissuti da Morgan Yu sulla stazione di Talos-1. Provare, morire, ricominciare da capo: che senso potrebbe mai avere tutto questo in un titolo come Prey? Ce lo siamo chiesti a lungo prima di poter effettivamente toccare con mano i risultati e, forse, la sorpresa in questa faccenda è che Mooncrash un senso ce l’ha.

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Gioca, muori, ripeti

La particolarità di Mooncrash è quella di proporsi come un vero e proprio arcade trial&error. La storia è quella di Peter, hacker della società KASMA, una compagnia che fa del suo business il riciclo di materiali e soprattutto informazioni, ottenuti in modi più o meno leciti alle spalle delle compagnie più grandi, come per l’appunto la TransStar della famiglia Yu. Il nostro lavoro, è fondamentalmente quello di scovare importanti informazioni aziendali da hard disk e simili dell altre compagnie, ed a questo giro saremo sulle tracce dei segreti dietro alla stazione lunare della TranStar che, vittima di un misterioso cataclisma, ha lasciato dietro di sé nulla più che una serie di file corrotti, contenenti quelli che sono i documenti e le informazioni reperite dai 5 sopravvissuti che sono riusciti a salvare le penne dal suolo lunare. Non saremo, dunque, fisicamente presenti sulla Luna, ma rivivremo il tutto per mezzo di una simulazione immersiva che, come un gioco nel gioco, permette al nostro hacker di partire all’esplorazione con un certo numero di vantaggi, come armi, proiettili, granate, e qualunque altra cosa possa farci sopravvivere a patto che, ovviamente, si abbia il giusto numero di crediti “Sim” per poterseli permettere.

Se da un lato la KASMA ha ogni interesse nel trafugare ogni informazioni utile dai file TransStar, dall’altro lo stesso Peter ha un interesse molto personale nel portare a termine dignitosamente il suo lavoro. Il nostro hacker, infatti, vive una vita in completa solitudine, rinchiuso in una angusta capsula orbitante proprio attorno al satellite terrestre. Alla fine della simulazione, quindi, il nostro “premio” sarà la possibilità di congedarsi dalla compagnia per tornare da moglie e figlia. Noi, come Peter, immersi nella versione locale di un “ubisoftiano” Animus, avremo quindi il compito di portare a termine tutte, ma proprio tutte le richieste della KASMA, che richiederanno non il semplice salvataggio dei cinque sopravvissuti (simulati) ma il completamento delle cinque sequenze di salvataggio attraverso modi molto specifici. Il punto è che per completare davvero il gioco occorre capire per bene la sequenza con cui i cinque sopravvissuti vanno salvati, così da aprire le strade giuste ai sopravvissuti successivi, cercando quindi di compiere tutte e cinque le fughe nell’arco di un’unica sessione, ovvero senza che nessuno dei cinque muoia. Alla morte di uno dei cinque, infatti, il gioco non termina ed è comunque possibile proseguire, con tanto di recupero del cadavere con ogni ben di Dio annesso. Semplicemente la simulazione non terminerà nel modo giusto e, volenti o nolenti, saremo costretti a ricominciare da capo. Più forti, meglio equipaggiati, ma comunque intrappolati in un loop digitale.

Impostata quindi come un vero e proprio roguelike, la simulazione procede per mezzo di cinque differenti personaggi, che andranno tuttavia sbloccati nel corso dell’esplorazione della sfortunata base lunare. Non basta infatti portare a termine un salvataggio per sbloccare il successivo, ed occorrerà invece sottostare a specifiche condizioni (almeno queste abbastanza semplici) che porteremo a termine in modo abbastanza naturale nel corso del nostro pellegrinaggio digitale. Ognuno dei cinque personaggi è doverosamente diversificato dagli altri, ed ha con sé non solo un piccolo equipaggiamento di partenza, ma soprattutto un diverso albero di abilità, tale da rendere l’approccio al gioco effettivamente molto diverso per ognuno degli avatar. Le opzioni sono molto diversificate e stratificate, e premiano praticamente ogni approccio maturato nell’esperienza di Morgan sulla Talos-1, compresi gli eccezionali poteri ereditati dagli organismi Typhon (ovvero gli alieni protagonisti del cataclisma del gioco originale). Di per sé potreste pensare che tutto questo significa comunque una qualche forma di ripetitività, poiché per quanto la mappa sia effettivamente vasta, si tratta comunque di affrontare diversi passaggi più e più volte, semplicemente con un personaggio diverso. Ed in effetti è così, se non che il team ha ben pensato di rendere la nostra simulazione instabile, a causa probabilmente della natura “illegale” dell’hard disk contenete le informazioni su cui saremo a lavoro. Questo si trasforma, all’atto pratico, in una piccola componente procedurale, che non modificando l’estetica della mappa, carica ad ogni differente partita dei parametri diversi. Il numero dei nemici, la loro natura, la loro posizione, così come i più diversi problemi ambientali (mancanza di corrente, incendi, dispositivi e porte guaste) verranno infatti posizionati in modo del tutto randomico, rendendo alcune partite assurdamente difficili da affrontare, altre molto semplici, talune semplicemente equilibrate. Il fattore randomico è qualcosa di imprescindibile all’interno della simulazione, ed aggiunge effettivamente un bel po’ di pepe, complice un secondo importante parametro pronto a metterci i bastoni tra le ruote, ovvero “il livello di corruzione” del programma.

Il gioco, in pratica, offre al giocatore una sorta di timer, che progressivamente  si andrà riempiendo portando la “corruzione” del software di simulazione, ad uno stadio superiore di difficoltà. Al livello base i nemici sono pochi, semplici da affrontare, e il quantitativo di risorse offertoci permette di affrontare le sezioni di gioco con non troppi pensieri. Al salire della corruzione le cose cambiano drasticamente. I livelli stessi cominciano ad avere molti più guasti. Porte e ascensori vanno riattivati. Le risorse scarseggiano e i nemici si fanno sempre più numerosi e coriacei. Ovviamente esistono appositi oggetti atti ad abbassare il livello di corruzione, ma questi vengono droppati solo dai nemici più duri e potenti, lasciandoci spesso nel dubbio che affrontare la minaccia per ottenere il ghiotto bonus sul timer possa però vederci sconfitti. Sta quindi a noi, ed alla pratica maturata durante le sessioni di gioco, trovare la strada ed il compromesso giusti, consci che tuttavia non si può mai raggiungere un vero e proprio game over, ma solo un reset della simulazione che, con spirito apertamente arcade, ci offrirà comunque dei punti “Sim” per i nostri meriti, lasciando per altro ogni personaggio con tutti i potenziamenti neuromod che saremo stati in grado di sbloccare.

Il punto è che si parla comunque di un roguelike, e per quanto la costruzione dei livelli sia, come da abitudine per Arkane, a dir poco estasiante, il succo è che ci si trova comunque a passare forsennatamente sempre per le medesime zone, affrontando più o meno sempre le medesime sfide. Il gioco, insomma, resta comunque molto ripetitivo, e persino tedioso se non si affronta con il giusto spirito la sua natura così spiccatamente trial&error, atta più ad intrattenere che a raccontare, a differenza del gioco originale in cui l’ansia data dall’immersione del giocatore nell’ambiente ludico e narrativo, era il vero punto di forza, a fronte di un sistema di combattimento molto acerbo, e spesso sporco e impreciso. Non migliora la situazione neanche considerando le ultime aggiunte al gameplay di base, per altro disponibili ora anche per l’avventura di Morgan Yu. Il team ha infatti ben pensato di aggiungere allo scheletro di Prey una componente più spiccatamente survival, abbassando leggermente il numero di proiettili ottenibili nel corso di una partita e, soprattutto, inserendo due nuove variabili a dir poco fondamentali allo scheletro del gameplay, ovvero l’usura dell’equipaggiamento e le ferite critiche. Le armi, a differenza del gioco originale ora si usurano, e se non riparate smettono semplicemente di funzionare, obbligandoci a centellinare il loro utilizzo, o a ricercarne eventualmente un’altra simile.

I nostri personaggi, inoltre, possono ora subire alterazioni di stato come scottature, sanguinamento o ossa rotte. Problemi che possono essere risolti solo per mezzo di appositi oggetti medici, che il gioco distribuisce tuttavia in ordine randomico e centellinato, costringendoci spesso a restare in stati alterati anche per diversi minuti di gioco. Queste impostazioni, settabili anche nella campagna di Morgan grazie ad un aggiornamento gratuito, sono interessanti, e di certo mettono pepe in una situazione che, di volta in volta, ha tutto il potenziale per risultare frustrante, ma ancora una volta nulla riesce realmente ad annullare il senso di ripetitività, e i più di voi, ben presto, non troveranno neanche nelle motivazioni dell’anonimo Peter, il pretesto per portare a termine quanto meno le missioni principali legate alla trama.

Verdetto

Mooncrash è un contenuto interessante, di certo sviluppato con perizia e intelligenza. Fa certamente strano trovarsi dinanzi ad un roguelike, a fronte dell’aspettativa che, per lo più, ci avrebbe suggerito un vero e proprio spin off sullo stile di quanto fatto con Dishonoerd 2. Eppure, a fronte di tutto, parliamo di un’esperienza intrigante e certamente divertente, che dimostra quanto il gameplay di Prey fosse malleabile e istrionico, tanto da potersi – di fatto – trasformare in un gioco quasi del tutto diverso. Al prezzo di un’esperienza divertente e spesso frenetica, abbiamo tuttavia un DLC francamente troppo ripetitivo, ed a tratti stancante, tanto che difficilmente vi troverete a giocare più di un paio di sessioni di fila. Perpetrare gli stessi movimenti, sulle stesse mappe, al netto anche di una varietà procedurale (mai veramente importante) è tutto sommato tedioso, e neanche le nuove aggiunte come l’usura delle armi o le ferite, riescono effettivamente a stemperare la noia. La verità è che Mooncrash è un esperimento, atto forse a scoprire i limiti di un gameplay di per sé molto solido. Un po’ come successe per il primo Dishonored, il cui DLC a base di sfide arcade è del tutto simile a quanto proposto oggi. Certo qui c’è un accenno di storia, un certo gusto per il level design, e in fin dei conti diversi aspetti che ci avevano fatto innamorare di Prey, ma niente di tutto questo, dopo le prime ore, vi salverà dalla ripetitività, se non la vostra stessa brama di sfida. Considerato però cos’è Prey, e specie se lo avrete amato, Mooncrash val comunque una possibilità.