La prima stagione di True Detective è dai più considerata la migliore. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
uando nel 2014 usciva True Detective ci trovavamo ancora all’inizio del nuovo percorso intrapreso dalle serie televisive. Breaking Bad era appena finito, e il linguaggio seriale stava cambiando, e il nostro gusto si stava evolvendo di pari passo: ci stavamo staccando dalle lunghissime serie costruite per lo più attraverso episodi verticali e iniziavamo a perderci nella possibilità di vivere lunghi film di otto o più ore, con cast che prima sembravano possibili solo al cinema e valori produttivi mai visti prima.
True Detective è un cult perché è riuscita a riscrivere, più di altre serie tv, il poliziesco televisivo adattandolo alla nuova epoca e al nuovo linguaggio, nonostante nessun elemento della serie di Nick Pizzolato fosse effettivamente rivoluzionario. Quello che era rivoluzionario era però il portarlo sul piccolo schermo.
Un delitto rituale, il bayou, una lieve sfumatura sovrannaturale ispirata da Chambers, i traffici dei potenti della provincia della Louisiana e due poliziotti fondamentalmente archetipici erano gli elementi che si amalgamavano per creare una storia che in fondo è più interessante per come è messa in scena, per come è raccontata e per le superbe prove degli attori che per quello che effettivamente racconta. E questo non vuole togliere nulla a un capolavoro come True Detective, si vuole solo cercare di portarlo a una dimensione più reale e meno nostalgica.
A rivederla oggi, la prima True Detective, è ancora eccezionale, anche se forse il personaggio di Rust (Matthew McConaughey) sembra un po’ troppo sopra le righe mentre il suo collega Martin (Woody Harrelson) riguadagna lo spazio che gli era stato tolto da Rust rivelandosi più credibile e sfaccettato di quanto non ricordassi. Probabilmente a 25 anni ero più affascinato dai monologhi fisolofeggianti di Rust, vai a sapere.
L’anno successivo esce la seconda stagione, ed essendo True Detective una serie antologica le carte in tavola cambiano. Rimane evidente la penna di Nick Pizzolato, perché tutti i temi sono ancora al loro posto, così come la scrittura dei personaggi è perfettamente sovrapponibile a quella della prima stagione, soprattutto in riferimento al personaggio di Martin. Arrivati alla terza stagione comprendiamo che il vero fil rouge di tutta la serie è il fatto che i personaggi abbiano un problema con l’alcool, ma questa è un’altra storia.
La seconda stagione non è il successo che ci si aspettava, ma la domanda che mi son posto dopo averle riviste recentemente è quella del titolo dell’articolo che state leggendo. Perché la seconda stagione di True Detective è una bomba, e il suo unico difetto è l’essere la seconda stagione di un qualcosa che è diventato un cult. Il problema di True Detective 2 non è intrinseco all’opera, ma è di pubblico e di aspettative. Ma aspettative di cosa, nello specifico?
Quando ci si confronta con un cult, sia esso un cult per merito o perché internet ha deciso che quella cosa è bellissima (nel caso di True Detective son vere sia la prima che la seconda), è impossibile averla vinta, perché il cult diventa un capolavoro per motivi trascendenti, che vanno oltre i suoi reali meriti, che vanno oltre la realtà. Così la gente comincia a scrivere saggi sulla filosofia di True Detective, Matthew McConaughey diventa il miglior attore mai nato e via discorrendo. Il cult trascende sé stesso e diventa intoccabile e inarrivabile, perché fluttua nell’Iperuranio ed è perfezione. Che Better Call Saul è meglio di Breaking Bad lo si dice a bassa voce, e che la prima stagione di Breaking Bad è una roba un po’ così non lo dice nessuno.
A ben pensare, la seconda stagione di True Detective non ha nulla da invidiare alla prima, anzi per alcuni aspetti gli è anche superiore. Certo, non c’è il fascino della Louisiana né la vena sovrannaturale, così come manca il poliziotto che filosofeggia sull’esistenza. Ma questi dovrebbero essere punti di forza, dovrebbero dimostrare la capacità di Nick Pizzolato di reinventarsi pur rimanendo coerente al suo impianto tematico. Quello reale, si intende, non quello che il pubblico si aspettava. Una seconda stagione con un personaggio come Rust o lo stesso setting sarebbe stata un ripetersi stucchevole.
True Detective 2 mantiene invece quello che era l’ossatura della prima stagione: siamo sempre in provincia, ci sono sempre in sottofondo dei giochi di potere che riguardano malavita e istituzioni, e c’è sempre un cast di personaggi scritti benissimo, sfaccettati e profondi. Dirò di più: la trama di True Detective 2 è molto più interessante e complessa di quella della prima stagione.
Fascino di Rust a parte, anche i personaggi della seconda stagione di True Detective sono più belli, più credibili, più complessi e più interessanti per quanto riguarda il loro background.
Frank Semyon (Vince Vaughn) è un mafioso sui generis che ci prova a uscire dal giro, a ripulire le sue attività, ma non ci riesce e soprattutto non riesce a cedere alla possibilità di non essere più ricco. Contemporaneamente empatico e con un suo senso di giustizia e spietato, è accompagnato dalla moglie Jordan (Kelly Reilly), a sua volta un altro personaggio complesso e sfaccettato che esce a più riprese dall’ombra del marito e supera la sua posizione di comprimaria prendendosi molto spazio.
Discorso simile per l’altro lato della legge, con un Ray Velcoro (Colin Farrell) sfaccettato e traumatizzato dalle sue stesse azioni, in costante lotta con sé stesso nel tentativo di non perdere il poco che la vita gli ha lasciato, o con Ani Bezzerides (Rachel McAdams) che cerca di superare un passato che le pesa o, per finire, con Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) e il suo conflitto interiore per via della sua sessualità e con le difficoltà che questa gli ha provocato nella vita.
Ci troviamo di fronte a un cast spaziale che interpreta dei personaggi molto meno stereotipati rispetto alla prima stagione, ma proprio per questo più credibili, con le loro vite che si intrecciano in modo verosimile tra loro ma anche con la realtà politica della cittadina di provincia in cui vivono. Il finale di stagione poi è molto meno sbrigativo di quello della prima, con un gusto molto più amaro in cui non vince nessuno. Il peso delle scelte che si son fatte in passato, a loro volta giustificato da quello che la vita ci ha dato, diventano il tema portante di una stagione generalmente più complessa della prima. E da queste scelte non si scappa, perché per quanto giustificate al mondo non interessa, e la ruota continuerà a girare schiacciandoci le ossa senza perdonare nulla.
Come detto, la colpa di True Detective 2 è di essere uscita dopo una serie che avevamo già deciso che doveva stare nell’Olimpo delle serie TV. Non si è valutata True Detective 2 per quello che è, ma come sequel di una prima stagione. E forse non è corretto, trattandosi di un’opera antologica. In fondo il lavoro di Pizzolato è un racconto di personaggi, con al centro la vita e il background, un racconto di come questi si relazionano a giochi di potere più grandi di loro nella provincia americana. Non un racconto di poliziotti appassionati di filosofia che risolvono omicidi rituali nelle paludi della Louisiana.
Che la prima stagione di True Detective sia un capolavoro siamo tutti d’accordo, ma dovremmo essere d’accordo sul fatto che lo è anche la seconda.