Non fatevi ingannare dallo stile cartoonesco di Prison Architect, perché il titolo si rivela profondo per riflettere sul concetto di pena e deterrenza al crimine
Come sempre, in Studi Virtuali, l’approccio all’analisi del videogioco risulta spesso in elaborazioni che sconfinano il già grande campo del gaming, andando a parare in concetti e tematiche apparentemente incompatibili. Si tratta, in realtà, di uno dei punti di forza del videogame, ossia la sua capacità di inserire chi ne fruisce all’interno di universi sempre diversi ma spesso compenetrati all’interno di tematiche proprie dell’attualità, della politica, del sesso e via discorrendo. Una capacità acuita dalla natura interattiva del medium, che in maniera simile al cinema ed alla TV, ma con più veemenza, ha dato l’impulso a numerosi studi sociologici e psicologici sulla sua forza persuasiva e sulla sua capacità di influenzare le menti.
La questione tocca anche l’argomento di oggi, dedicato a Prison Architect ed alla percezione della “pena” all’interno dei sistemi videoludici. Si tratta di un argomento delicatissimo e di perenne scontro sociale, andando a parare direttamente al concetto di reato e di punizione, un bisogno fondamentale in ogni struttura umana complessa. Il dubbio quindi è quello di capire se un manageriale apparentemente “innocuo” abbia la forza di educare e sensibilizzare il fruitore ad una maggiore consapevolezza sulle esigenze di un sistema penale democratico; o magari se possa ribaltare l’approccio incentivando sentimenti di “giustizionalismo”.
Prison Architect: una premessa di natura storico giuridica
Al solito, una premessa fondamentale di natura storico giuridica. Il diritto penale è un diritto tanto antico, quanto giovane nelle sue declinazioni umane e di recupero sociale. A partire dal diritto romano, passando per quello longobardo e medioevale, i sistemi penali si sono preoccupati di “vendicare” il torto commesso dal reo, al più contemplando in concomitanza un effetto deflattivo non sempre efficace. Si tratta di un’approssimazione enorme di quella che è una finestra temporale troppo ampia per poter essere discussa con profitto. Rimane il fatto però che, pur se con evidenti differenze, sin dai tempi di Roma lo sviluppo giuridico era molto più incentrato sulle norme civili (dando vita ad istituti di grande raffinatezza anche concettuale) che su quelle penali.
Non deve stupire quindi che solo con il noto trattato di Beccaria, Dei delitti e delle pene, si iniziò a discutere seriamente della politica criminale e di tutte le sue declinazioni. L’opera conteneva passi e concetti a dir poco rivoluzionari, giovando certo del periodo particolarmente felice per il dibattito (il libretto fu pubblicato nel 1764). Non tutto era rose e fiori, Beccaria per esempio era un forte sostenitore delle armi da fuoco e del loro potere deterrente (concetto oggi ampiamente smentito dalla statistica criminale); rimane però un punto fondamentale: mettere in discussione l’assioma della pena come mera “retribuzione” e avanzare la possibilità di reintegrare il carcerato nella società.
Il percorso filosofico e giuridico dietro a questo concetto è proseguito con un andamento ondivago, ma in costante crescita, per arrivare ai giorni nostri, dove il sistema carcerario dei Paesi democratici fonda la sua regola principale sulla correzione del reo, sul reinserimento sociale e sul trattamento dignitoso dei diritti dell’Uomo. Come si declina questo mix complesso di esigenze, all’interno del videogioco?
Prison Architect è una buona risposta all’interrogativo, trasportando il giocatore nei panni di un direttore carcerario, responsabile di costruire e gestire un istituto di pena. Come spesso accade nel medium, il titolo non offre molti spunti narrativi diretti (pur inserendo all’interno del tutorial/campagna una storia tutta incentrata su un uomo condannato forse ingiustamente a morte). De relato, però, Prison Architect riesce a far riflettere sulla condizione dell’imprigionato, sull’esigenza di punire e al tempo stesso su quella di non negare l’umanità del colpevole. Un mix di sentimenti esplosivo, che emerge grazie ad un gameplay complesso e per nulla facile da padroneggiare.
Il videogioco e la deterrenza al crimine
L’importanza di un titolo del genere aumenta di intensità in un periodo storico e scientifico che sembra dare sempre più peso all’influenza del videogioco nella formazione etica e psicologica del fruitore. Già nel 2011, Michael Ward scriveva a proposito della relazione tra il videogioco e la deterrenza al crimine ed ai reati violenti. Senza saltare a conclusioni troppo drastiche, anche solo la mera possibilità che il videogame possa influenzare il pensiero critico e il convincimento etico-sociale del giocatore rappresenta un punto di partenza importante verso un utilizzo più ragionato del mezzo.
Nella mia personale esperienza con Prison Architect, mi sento di poterlo indicare come un ottimo spunto per riflettere sul carcere e sulla necessità di recuperare il soggetto socialmente estromesso, attraverso metodi che non siano solo punitivi. Il discorso è molto complesso, oltreché influenzato dal sentimento sociale, che spesso si lascia trasportare da una comprensibile rabbia nei confronti dei crimini più efferati e irragionevoli. Il diritto penale conosce molto bene la potenza del disprezzo sociale, tanto da configurare alcune fattispecie di reato che sono tali non nel momento della consumazione, ma nel momento in cui la stessa divenga pubblica e quindi riprovevole (un esempio scolastico è quello del reato di incesto ex art. 564 c.p.).
In Prison Architect però l’elemento personale viene meno, a causa di un gameplay talmente frenetico e denso di contenuti da impedire – se non teoricamente quantomeno praticamente – al giocatore di controllare in maniera costante le colpe dei prigionieri. Dopo qualche ora, una volta entrati nell’automatismo della gestione della prigione, ci si dimentica di chi sono i carcerati, semplicemente si cercherà di mantenerne il più possibile in salute e senza creare troppi problemi.
Anche l’elemento visivo, minimale e cartoonesco, accresce lo straniamento dalla causa che ha portato i simpatici pupazzetti arancioni a diventare nostri ospiti. Si tratta di elementi solo in apparenza deumanizzanti, che al contrario facilitano l’empatia. Il piccolo formicaio che è la nostra prigione rimane infatti abitato da esseri viventi. A noi spetta il compito di gestire tutti questi esserini, che a poco a poco si trasformano in una proiezione: anche il giocatore potrebbe un giorno diventare un omino in tuta arancione. Alla proiezione si affianca la curiosità: com’è davvero vivere in una prigione? Cosa può succedere se il budget viene ridotto?
Ed ecco che, a questo punto, arriva il momento di riflettere sul prigioniero e sulla condizione umana. In Prison Architect avere pochi soldi equivale a costruire camerate gigantesche, con qualche panca per dormire e poche latrine a vista delle decine di prigionieri. In poco tempo i pavimenti si sporcano di rifiuti, feci e sangue, mentre scoppiano risse furibonde sedate con forza cieca e indiscriminata. Accettare pochi prigionieri equivale ad avere meno sovvenzioni, ma accettarne troppi equivale a tagliare sui costi di altri servizi necessari, come la mensa, i lavori sociali o l’infermeria. La nostra colorata prigione 2D diventa molto rapidamente un girone infernale, nel quale il criminale incallito condivide il letto con il ladruncolo da strapazzo, l’innocente e, in ultima riflessione, chiunque abbia commesso uno sbaglio.
Ad un certo punto dell’esperienza è abbastanza facile viaggiare con la mente e pensare a cosa può voler dire, per l’uomo qualunque – ossia per noi stessi – essere “ospitati” in una casa circondariale. Superata la già enorme problematica dell’essere rinchiusi in uno spazio ben confinato (e la pandemia è un evento che spero abbia fatto riflettere in tal senso, pur senza le sbarre alle finestre), si affastellano tutta una serie di criticità solo in apparenza secondarie. I servizi igienici che possono essere privati, ma possono anche essere solo comuni, e quand’anche privati la struttura ben potrebbe optare per le celle “a vista”.
La deumanizzazione del carcerato, con tanto di numero di matricola e divisa comune per tutti, la privazione di svaghi e distrazioni, la mancanza del contatto con i familiari, il vitto scadente o mancante, la mancanza di attrezzature per l’ora d’aria o addirittura l’assenza di ora d’aria. L’elenco è lunghissimo e sostanzialmente si traduce nell’annosa questione della punizione, della sua proporzione con il crimine commesso e dell’effettiva utilità di questa sorta di vendetta sociale. Si tratta, tra l’altro, di una serie di regole che solo recentemente sono state riformulate in Italia in ottica rieducativa e sensibile ai diritti fondamentali dell’uomo, a partire dalla legge penitenziaria n. 354 del 1975.
Non è questa la sede per discutere nel dettaglio delle scelte di politica detentiva ed ammetto che il dibattito sia comunque complesso, avendo a che fare spesso con il sentimento rabbioso e repulsivo di chi subisce un torto e vede nella punizione del colpevole il compimento di una legittima giustizia. Rimane però fondamentale essere consapevoli che il carcere può essere recupero e redenzione, e che le statistiche criminali sono nettamente a favore di un approccio rigoroso nell’amministrazione della legge, ma pur sempre umano. Prison Architect può essere, nel suo piccolo, un modo per avvicinarsi a questa linea di pensiero o, come minimo, uno strumento per comprendere meglio cosa significhi la detenzione, cosa comporti per il detenuto e quanto sia facile ed incosciente augurarne un’applicazione cieca e sproporzionata.