Presentato in anteprima nazionale alla ventunesima edizione del ToHorror Festival, Prisoners of the Ghostland di Sion Sono – il primo film di produzione americana del prolifico poeta punk del cinema nipponico – è solo una tiepida introduzione al suo immaginario con troppi ammiccamenti
Sion Sono, in più di trent’anni di carriera, si è imposto nella scena cinematografica giapponese – e asiatica in generale – per la sua capacità di far convergere un certo minimalismo poetico nella trattazione dei contenuti. Tematiche ricorrenti quali la condizione della donna nella società giapponese o il più puro degli amori alla forma filmica e alla sua storia, vengono trattate con un approccio quasi totalmente agli antipodi: un’estetica punk, fantastica, violenta e sregolata che ha reso unico il suo percorso all’interno del cinema. In particolare dal suo primo vero successo – Suicide Club, del 2001 – in avanti, il regista ha sempre più reso su schermo una visione personale e riconoscibile votata al raccontare quel che gli sta intorno con due anime contrastanti ma comunicanti e influenzate tra di loro. La leggerezza poetica della tradizione giapponese, in Sono, si trova ad affiancarsi con il bizzarro, l’estremo e il gore in un modo unico anche quando equiparato con altri registi contemporanei come Takashi Miike e Takeshi Kitano.
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Samurai Town, Ghostland e il chanbara western
La storia di Prisoners of the Ghostland ruota intorno al percorso di redenzione di Hero (Nicholas Cage), colpevole di una carneficina commessa durante una rapina in banca e costretto a recuperare una delle nipoti adottive del Governatore (Bill Moseley) per poter cancellare i propri crimini. Il grosso della vicenda si svolge tra la cittadina Samurai Town, un ibrido tra i borghi giapponesi del periodo edo dei film di samurai e una ghost town dei film western più classici, e le lande desolate e post-apocalittiche denominate Ghostland. Il primo luogo, sia narrativamente che a livello simbolico, rappresenta il passato e la facciata che coprono la realtà dei fatti a cui fa riferimento il film, il secondo si rifà a un contesto più strettamente distruttivo e contemporaneo (sia per corrispondenza con il reale, che per ispirazione cinematografica diretta).
Il film mette dunque subito in chiaro le sue carte e le sue volontà: raccontare attraverso la storia del cinema il disastro nucleare che il Giappone ha subito a causa degli Stati Uniti e come quest’ultima abbia di fatto soggiogato la prima attraverso una crescita economica che ha totalmente cancellato il ricordo dell’onta subito cambiando radicalmente l’approccio alla vita dell’intera società nipponica. Sebbene, però, le intenzioni ci siano e siano molto forti manca quasi totalmente una struttura a reggere questa premessa. I richiami ai fatti e al cinema sono evidentissimi ma quasi totalmente scarichi di significato o potenza, e spesso si perdono nel vuoto e lasciano ben poco a chi guarda su cui ragionare.
L’abbondanza di sotto testi risulta quasi ridonante e ripetitiva anziché stimolante e portatrice di argomenti come spesso e volentieri Sono ci ha abituato con i suoi lavori. Il punto di collisione tra avvenimenti e cinema è sicuramente percepibile e forse anche un’idea interessante, ma che dopo poco tempo impatta con una stanchezza di messa in scena e realizzazione piuttosto evidenti che sfaldano irrimediabilmente il valore che avrebbero potuto avere se tutto fosse stato trattato con maggiore raffinatezza. Le conseguenze del nucleare e come queste si collegano con il visivo dei due paesi coinvolti rimangono fin troppo ancorati a cliché ed esagerazioni a tratti stucchevoli, anziché portare quei guizzi creativi estremi e ironici tipici del regista.
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Mad Colors from Mandy of Darkness
Prisoners of the Ghostland va – come detto nella prima parte di questo articolo – collocato prima di tutto all’interno della lunghissima e prolifica carriera del regista che gli ha posto la firma (nota per le persone più appassionate all’artista: in questo film manca la classica tag iniziale “a Sion Sono’s film”). La sua filmografia rappresenta, anche per l’altalena di qualità, quanto il suo cinema sia una scheggia impazzita incontrollabile e incontrollata, che non si pone freni e apre gli orizzonti a follie di vario genere e varia natura. Anche internamente a questo, però, quest’ultimo film non riesce a trovare una sua giustificazione risultando fin troppo derivativo, mescolato e a tratti anche fin troppo ammiccante nel rendere palesi a chi guarda riferimenti e ispirazioni.
Già dalla sua star principale, Nicholas Cage, è infatti intuibile in modo quasi forzato la direzione che il film vuole prendere senza però avere un discorso coeso e coerente all’interno dei cento minuti circa di durata. L’era post-meme di Cage, in Prisoners of the Ghostland, non viene utilizzata per formularci sopra dei ragionamenti o riflettere sui lavori precedenti che hanno visto un cambio netto nella carriera dell’attore americano. I richiami a Mandy e a Colours from Outer Space più che portare a un ragionamento vero e proprio, forzano la mano sull’accostamento a ogni costo con i due film di cui sopra cercando di portare allo status di cult anche quest’ultimo (e, a questo punto, bisognerebbe chiedersi se anche gli altri lavori possano rientrare in questa categoria). Qui si intuisce in modo percepibile, più che la mano di Sono, quella di Cage come produttore che vuole crearsi intorno dei precedenti assimilabili tra di loro più per estetica superficiale che non per ragionamenti profondi.
A questo pacchetto va, poi, aggiunta anche un’altra questione, forse ancora più evidente e già in parte accennata da me precedentemente: l’ammiccamento fin troppo diretto ed evidente a certo cinema asiatico e a certo americano. Si ha la sensazione, infatti, che la volontà di far incontrare due culture e il loro rispettivo cinema in un episodio della storia che le ha coinvolte venga sostituita da una più gratuita e facilissima citazione a Mad Max e L’Armata delle Tenebre per quanto riguarda la questione fantastica e di sopravvivenza alla post-apocalisse. Il film spesso e volentieri arranca proprio perché cerca fino al suo stesso sfinimento di assomigliare a qualcosa, piuttosto che a ragionarci intorno.
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La volontà di Sion Sono di celebrare il suo debutto nel cinema americano con un film che ragionasse sulle due culture e su quando e quanto sono entrate in collisione finisce per essere solo un debolissimo e pallido ritratto di quel che normalmente è capace di mettere in scena. Le forzature citazionistiche appiattiscono un potenziale tematico fino a farlo quasi scomparire. Del Giappone e degli Stati Uniti, del loro cinema e della bomba atomica arriva solo un pasticcio abbozzato, che non aggiunge granché a settant’anni di ragionamenti svolti su questi temi. Prisoners of the Ghostland vuole essere la terra di convergenza di due mondi ma, a conti fatti, diventa un territorio neutro che non rispecchia niente e nessuna persona ma ne è soltanto il lontano richiamo.